Viaggio negli stadi

Se unissimo i fedeli delle tre principali religioni monoteiste, probabilmente non raggiungeremmo il numero delle persone che seguono assiduamente il calcio. Ecco perché il calcio non è solo un gioco e gli stadi non sono solo dei campi sportivi: sono lo specchio della realtà in cui sorgono, il termometro culturale della società che li popola e riflettono il contesto storico, sociale e antropologico cui appartengono. Per gli intellettuali della prima modernità, il calcio era legato a una dimensione distopica della vita, un gioco che andava contro natura poiché praticato con i piedi. Il calcio rappresentava un ostacolo all’evoluzione della specie umana (non a caso gli sport delle classi superiori, ad esempio il rugby e il tennis, erano giocati con le mani). Per gli intellettuali engagé, il calcio era uno strumento di distrazione, un’arma borghese che svuotava la vita dell’atleta e del tifoso dall’impegno politico, dal partito e dalla causa rivoluzionaria. Non solo per certi intellettuali del secolo scorso, ma anche per un segmento degli attuali ascoltatori di Radio Popolare. Posizione rispettabile, ma che non condividiamo. Ecco perché oggi faremo un giro del mondo fatto di tappe in alcuni stadi di calcio. Come Lonely Planet utilizzeremo un paio di libri di recente pubblicazione. Il primo è un lavoro di Andrea Ferreri, studioso di culture giovanili e sottoculture. Globetrotter, attivista e agitatore culturale. Il lavoro si intitola “Sugli spalti. In viaggio negli stadi del mondo: storie di sport, popoli e ribelli” (meltemieditore.it). Dal Marakàna di Belgrado alla Bombonera di Buenos Aires, dal Medio Oriente al all’Africa,  il calcio raccontato da Ferreri presuppone la presenza di un pubblico negli stadi. E’ uno sport che produce aggregazione, ma esalta anche l’individualità, uno sport lontano dalle pay-tv e dai diritti televisivi.

Il secondo libro  ci porta a San Siro, lo stadio totem di Milano. Oggi il cielo di San Siro è già cambiato. Dal secondo e terzo anello rosso si vedono i grattacieli di City Life. Sono lampi notturni nell’orizzonte, un affascinante skyline che nessuno dei tifosi, con lo stadio inaccessibile, ha ancora visto. E allora, prima di tornarci, potrebbe essere una buona idea leggersi “C’era una volta a San Siro” (edizpiemme.it). L’autore è Gianfelice Facchetti, figlio del grande Giacinto, regista, attore e narratore di sport. Nelle pagine del suo libro sfilano protagonisti celebrati e dimenticati, derby rosso-nerazzurri, fratelli di campo e fratelli di sangue, gol indimenticabili e gol annullati, notti azzurre, notti magiche o da incubo.

Entrambi i libri evocano un calcio ancestrale, che soddisfa bisogni come l’occupazione del tempo libero e la socialità. Un calcio dove la disciplina e la fatica creavano eroi venuti dal nulla. Un calcio trasmesso di padre in figlio, di generazione in generazione, con il corollario di comportamenti e valori conformi alle aspettative del gruppo e alla cultura di riferimento. Quello che si evince ascoltando dalla sua voce il racconto di quando Giovanni Lodetti cambiò nome per giocare sui prati di periferia o l’epopea di George Best, vissuta percorrendo il George Best Trail a Belfast. Un’esperienza struggente come quella vissuta da Raffaele Kohler quando, in occasione di un derby di Milano, ha suonato la sua tromba in uno stadio vuoto per via della pandemia…

Val Badia

Giovan Battista Alton, scrittore nativo di Colfosco, nel 1888 scriveva: “Nella storia di queste valli recondite, la parte più importante l’ha sempre avuta la natura, anche perché qui, fra boschi profondi e montagne silenziose, non c’era spazio per grandi imprese di uomini potenti o masse popolari. Qui, per molti secoli, l’uomo è rimasto solo con la natura”. E’ solo con il dopoguerra che nelle valli dolomitiche è iniziato il processo che, con il passare degli anni, ha trasformato l’industria turistica da un’esperienza d’élite a una realtà di massa. Renata Kostner Pizzinini è una preziosa testimone di questo processo, che ha raccontato in “Un capitolo di storia del turismo in Alta Badia“, un tomo di oltre 600 pagine scritto a quattro mani con Werner Pescosta (ediz. Uniun di Ladins Val Badia, 2019). Titolare senior dell’albergo a quattro stelle “Cappella” di Colfosco, Renata ha ricevuto Presidenti e cenato con ambasciatori, conosciuto sovrani e alpinisti di fama mondiale durante i suoi viaggi in 95 paesi, esposto nella propria “Art Gallery Renèe” opere di Salvador Dalí, Salvatore Fiume o Siegward Sprotte e cresciuto con suo marito Giuseppe quattro figli. Appassionata fotografa, valente scalatrice e per anni Presidente dell’Assistenza sociale della Val Badia, Renata è nipote di Josef e Cesco Kostner, due pionieri del turismo in Alta Badia, una delle vallate abitate dal popolo ladino. “La loro è una storia di nazionalità negata e la loro resilienza è un caso da studiare” ci spiega Paolo Paci, direttore della rivista MeridianiMontagne, il cui numero di maggio/giugno è interamente dedicato alla Val Badia (ed Domus). Proprio lo spirito di ‘conservazione’ dei ladini  è la mission dell’Istitut Ladin Micurà de Rü , un ente culturale con sedi a San Martino in Badia e a Selva di Val Gardena, che ha preso il nome dal sacerdote che, tra i primi, approfondì gli studi sulla lingua ladina. “Il nostro ente” ci spiega Leander Moroder, direttore dell’Istituto “ha ricevuto l’incarico dalla Provincia di normare la lingua ladina, di svilupparla e adattarla ai bisogni moderni e al tempo che evolve. In pratica dobbiamo prenderci cura della nostra lingua. Quello che si studia a scuola  (il ladino lo si insegna sin dalle elementari) lo decidiamo noi”. Francesco Gabbani, il musicista che con Occidentali’s Karma sbaragliò Sanremo nel 2017, è tra i cultori dell’Alta Badia e avendo bisogno di un luogo dove perdersi nella natura è qui che si è creato una tana: “Ho preso una stanza in una struttura che al piano di sotto ospita delle mucche. L’ho insonorizzata perché così posso suonare senza disturbarle,  anche se mi dicono che la musica fa fare del latte migliore”. In ‘Un sorriso dentro al pianto‘, una canzone che ha composto per Ornella Vanoni in un passaggio recita ‘in equilibrio sopra a un’emozione / che capovolge l’esistenza alle persone’. “Quando l’ho scritta” ci confessa Gabbani “pensavo alla vita della Vanoni. Ma poi mi sono accorto che vale anche per i miei giri tra i boschi e le vallate dell’Alta Badia. Per esempio quando faccio la ferrata Tridentina sul Gruppo Sella e là sotto si intravede Colfosco. E io mi incanto guardando i boschi e i crinali selvaggi”. Questa vallata, verde e incontaminata, la si può scoprire anche pedalando su una bicicletta, “basta inscriversi alla Maratona dles Dolomites (maratona.it/it)” come ci conferma il giornalista Ettore Pettinaroli. Ed è proprio nella salvaguardia del rapporto con la natura che Roberto Huber, direttore di Alta Badia Brand , vede la strada per il futuro: “Dobbiamo trovare la giusta via perché il maggior numero di persone possa vivere questi luoghi senza che lo rovinino. Entro meno di dieci anni vogliamo essere la prima meta di montagna con climate positive”.

Tornando nella foresta

L’Italia è sempre più verde, boschi e foreste avanzano inarrestabili e si impossessano delle campagne e delle zone montane abbandonate. Nel nostro Paese ci sono 11 milioni di ettari di boschi: il 34% è nelle mani del pubblico, il 66% dei privati. Di questi solo il 15% ha una forma di gestione, il resto è in stato di abbandono. Forest Sharing , piattaforma e community per la gestione dei terreni boschivi, lavora per contrastare questo stato di abbandono. Premiata dall’Europa come miglior idea imprenditoriale e da Legambiente come “il progetto più ecosostenibile”, si basa su un principio antico quanto lungimirante: conosci il tuo bosco. Realizzata da Bluebiloba srl, primo spin off dell’Università di Firenze senza personale strutturato al suo interno, formato quindi solo da ex ricercatori di Scienze forestali, Forest Sharing non riceve un euro di finanziamento, né pubblico né privato, e si sostiene grazie al contributo dei singoli soci. Oggi gestisce 4500 ettari di bosco che appartengono a circa 400 proprietari che non sanno o non possono gestirlo in prima persona. Entrando nella community di Forest Sharing inseriscono i dati del proprio bosco nella piattaforma e scelgono le modalità di gestione (taglio legname, valorizzazione ricreativo turistica, mantenimento, ecc…), che possono essere gestite singolarmente o mixate tra di loro. In questo modo il proprietario trova chi cura il bosco a costo zero e può addirittura ricavarne un piccolo profitto. Un beneficio salutare è quello che incassa chi frequenta il Parco del Respiro a Fai della Paganella. E’ una splendida faggeta dove si può praticare il forest bathing, il cui effetto terapeutico è generato dall’interazione tra piante e organismo umano. Gli alberi, infatti, sprigionano nell’ambiente delle sostanze volatili, chiamate monoterpeni, che ricerche scientifiche hanno provato essere in grado di influenzare il nostro benessere psicofisico: in pratica, riducono gli ormoni dello stress e della depressione, abbassano la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca e agiscono sul nostro sistema immunitario potenziandone le funzionalità. Forest bathing anche nella millenaria Foresta del Tarvisio , al confine con Austria e Slovenia. È la più grande foresta demaniale d’Italia: 24.000 ettari di comprensorio alpino di cui 15.000 ricoperti di boschi produttivi, gestiti da più di un secolo secondo un preciso piano che garantisce una copertura arborea continua e il rinnovamento naturale delle specie autoctone. Proprio per questo rappresenta una delle aree naturalistiche più preziose d’Italia e uno dei sistemi faunistici più completi delle Alpi. Sempre in Friuli, a Tarcento, ha la sua sede la onlus Giant Trees Foundation, la cui mission, oltre a scalare gli alberi più grandi del mondo, è misurarli, conoscerli, studiarli e raccogliere una serie di indicatori che possono darci preziose informazioni sull’architettura, la meccanica e la biodiversità di questi giganti… E’ inoltre il referente italiano dell’European Tree of the Year, un concorso nato per valorizzare alberi “con una storia”, la loro connessione con la popolazione, il territorio e l’ambiente. Il Platano di Curinga si è aggiudicato il primo posto al contest italiano del 2020 e ha rappresentato l’Italia al contest Europeo nel febbraio 2021 aggiudicandosi il secondo posto (alle spalle della spagnola Carrasca di Lecina) con oltre 78.000 preferenze.  Appena fuori Roma infine c’è un parco riservato agli alberi più vecchi d’Italia. E’ il giardino di Villa dei Quintili che ospita i gemelli di piante vecchie di secoli che ancora esistono in vari luoghi della nostra penisola. Il parco è stato creato nove anni fa dall’associazione Patriarchi della Natura che ha clonato circa 13mila piante poi ne ha portate alcune in una delle ville romane più famose della capitale.

La colonna sonora di questa puntata di Onde Road potrebbe essere firmata da David Monacchi, compositore e docente al Conservatorio Rossini di Pesaro. E’ uno studioso della musica espressa dalla natura, una concatenazione di note e di equilibrio ottenuta dal suono di uccelli, insetti e alberi. Una vera e propria “sinfonia” della foresta.

Giardini

Cicerone sosteneva che per essere felici servono una biblioteca e un giardino. Certo il filosofo e politico romano non poteva prevedere quanto profetiche potessero diventare le sue parole nei tempi attuali. La durata della pandemia si sta prolungando così a lungo che, mai come oggi, si fa sentire il bisogno di avere spazi domestici, protetti, ma all’aperto: terrazze, aree verdi, angoli fioriti. Giardini.
Il nostro viaggio inizia al Radicepura Garden di Mario Faro, un florovivaista che ha riversato la sua passione in 5 ettari di terreno, incastonati tra l’Etna e il Mar Jonio, dove ha creato un vero e proprio archivio vivente di sperimentazione e formazione (il suo giardino ospita 3000 specie di piante per un totale di 7000 varietà). Per chi volesse visitarlo l’occasione ideale è il Radicepura Garden Festival , primo evento internazionale dedicato al garden design e all’architettura del paesaggio del Mediterraneo che coinvolge grandi protagonisti del paesaggismo, dell’arte e dell’architettura, giovani designer, studiosi, istituzioni, imprese. Si svolgerà a Giarre da giugno a dicembre 2021, esplorando il tema dei “Giardini per il futuro”.
In un prossimo futuro quali saranno le funzioni del giardino? Riparare guasti ambientali? Essere risorsa aggiuntiva di cibo? Quale ruolo sarà assegnato alle piante? Come saranno i giardini? Luogo di ristoro per la spiritualità? Il festival cercherà di dare risposte a queste tematiche, partendo dall’urgenza di uno sviluppo sostenibile, in chiave economica, ambientale e sociale, paradigma che definisce i Millennium Development Goals di Agenda 2030. Dalla Sicilia ci spostiamo in Trentino.
Il Giardino dei Ciucioi di Lavis, detto anche Giardino Bortolotti, è un giardino pensile unico nel suo genere, dove rovine e vegetazione giocano insieme per creare un’atmosfera sospesa a metà, tra sogno e realtà. Poco lontano, in Val di Non , in queste settimane fioriscono i meli e
il paesaggio cambia: la valle si tinge di bianco con miliardi di boccioli che fanno capolino sui rami degli alberi. Sempre in Trentino per gli amanti degli orti-giardini c’è il Percorso dell’Otto, un sentiero adatto a grandi, piccini e passeggini che attraversa i terrazzamenti di Fai della Paganella fiancheggiando baite, prati da fienagione, boschetti e orti. Lungo il sentiero sono state poste alcune segnaletiche floreali per scoprire da vicino le tante specie che colorano il territorio. Altro percorso da non perdere è il Sentiero Botanico, ricco di flora autoctona con alcuni dei fiori più belli delle Alpi: croco, trollio, arnica, genzianella, rododendro, soldanella e negritelle, solo per citarne alcuni. Sdraiati su un prato si può leggere “Hummelo: A jouney through a Plantsman’s life”, un libro che ripercorre la carriera del Piet Oudolf : il capostipite del movimento New Perennial. La sua ‘storia’ è cominciata a Hummelo, un villaggio rurale poco lontano da Amsterdam, nella provincia olandese della Gheldria. Era il 1982 e Oudolf iniziò a sperimentare utilizzando piante perenni e vegetazione spontanea. Sperimentazioni che poi importò anche nelle aree urbane (dalla High Line di New York al Lurie Garden del Millennium Park di Chicago). Lavora con “nobili erbacce” (fra cui le ottanta specie che lui stesso ha scoperto e battezzato) disponendole tenendo conto dei periodi di fioritura e dei mutamenti di colore stagionali, mischiando i semi in modo da permettere ad una pianta di prendere il posto di un’altra quando questa entra in letargo e viceversa. Niente è lasciato al caso, ma l’effetto è quello di una coloratissima e selvaggia brughiera. Un paesaggio fatato invece quello che Cesar Manrique ha realizzato nel Giardino dei Cactus di Lanzarote …

Defend Rojava

La lotta che le combattenti curde delle Ypj hanno portato avanti (e portano avanti) contro lo stato islamico ha destato interesse in tutto il mondo. Non il solo movimento curdo è attraversato da questa potenza femminile: segni importanti si riscontrano anche in Turchia e in Iraq (con le unità femminili di difesa civile, le Yps-j, e quelle di difesa popolare inquadrate nel Pkk, Yja-Star) e in Iran (Hpj). Le donne curde non sono soltanto combattenti, ma in primo luogo militanti: da anni c’è chi tra loro sviluppa una concezione teorica articolata del ruolo delle donne non soltanto nella liberazione del Kurdistan, ma dell’umanità, confrontandosi tanto con il pensiero rivoluzionario e il femminismo, quanto con le culture cristiana, ezida e musulmana, o con le filosofie occidentali e orientali.
Edgarda Marcucci, detta Eddi, attivista No Tav, femminista, nel 2017 decise di recarsi nel Rojava per prendere visione personalmente di questa realtà. Il passo successivo fu la decisione di arruolarsi e imbracciare le armi per combattere l’Isis accanto alle milizie delle donne curde, consapevole – come affermano le Ypj – che lo Stato islamico è una manifestazione (la più estrema) dei caratteri patriarcali e parassitari che troviamo in tutto il mondo di oggi. Sua madre, la regista e scrittrice Roberta Lena, si è improvvisamente trovata nel ruolo di essere madre di una figlia guerrigliera. Un’esperienza totalizzante che racconta nel libro “Dove sei?” (People Edizioni). E’ il racconto della lotta di Eddi, del suo significato e dell’attesa di chi rimane a casa, con la speranza di veder tornare sana e salva la propria figlia. È un percorso di maturazione tutt’altro che facile e scontato, un affannoso diario d’amore e di condivisione.

Benedetta Argentieri è una giornalista indipendente, regista e autrice. “Blooming in the Desert” è il suo ultimo documentario sulla rinascita di Raqqa, l’ex capitale dello Stato Islamico in Siria, grazie alla partecipazione delle donne locali. “I Am The Revolution” del 2018 è un suo lungometraggio su tre donne che lottano per una rivoluzione femminista in Iraq, Siria e Afghanistan. E’ sua la scheda sul Rojava, la regione a maggioranza curda all’interno della Siria dove ha combattuto Eddi. La denominazione è data dagli stessi abitanti curdi, visto che nella lingua locale “rojava” significa occidente. Infatti, i territori siriani a maggioranza curda costituiscono la parte occidentale della regione storica del Kurdistan, la quale a sua volta comprende i territori abitati in maggioranza dai curdi dissipati in cinque differenti Stati.

Butterflywatching nell’Oltrepo Pavese

L’oasi di Sant’Alessio è un parco che consente, senza infastidire popolazioni di animali selvatici, di entrare in contatto ravvicinato con loro e con l’habitat naturale in cui vivono. Un habitat ricreato con cura e passione qualche decennio fa quando Antonia e Harry Salamon acquistarono il castello di Sant’Alessio, per anni casa di caccia dei nobili Beccaria, e il campo di erba medica che gli stava intorno. E’ un ottimo viatico per poi inoltrarsi in una micro-regione, l’Oltrepò pavese, che merita di essere conosciuto, oltre che per salumi e vini, anche per le sue farfalle. L’area naturalistica di Valverde dista una cinquantina di chilometri dall’Oasi di Sant’Alessio. Siamo all’interno di un parco di oltre trecento ettari che ospita il Sentiero delle Farfalle, ricavato grazie al mantenimento di aree erbose aperte e alla messa a dimora di piante nutrici dei bruchi e di piante nettarine o aromatiche, ideali per l’habitat dei lepidotteri adulti. “Qui non è mai stato fatto nessun rilascio, vivono solo farfalle selvatiche” ci dice Francesco Gatti, naturalista e butterflywatcher, presidente dell’associazione IOLAS * . Altre due mete sono le rupi ofiolitiche di Pietra Corva e Pan Perduto, nel comune di Romagnese, e le praterie del Monte Alpe, a Brallo di Pregola. Distano tra loro una ventina di chilometri, ma sono morfologicamente molto più distanti. La prima meta offre affioramenti rocciosi, accompagnati ad aride praterie poco estese che hanno una flora (e quindi una fauna di lepidotteri) tipica. La seconda, ricca di boschi, nei pendii e sulle aree sommitali presenta prati e pascoli particolarmente interessanti per il butterflywatching. “Visitando queste due aree” ci confessa Francesco Gatti “in un sola giornata si può arrivare ad avvistare una settantina di specie di farfalle, ovvero più di quelle che un britannico può vedere in tutta la sua vita restando in Inghilterra”. All’imbrunire si può fare tappa nella vicina Zavattarello, un borgo medievale in Alta Val Tidone dominato dal Castello Dal Verme. Qui, presso il Bioagriturismo Olistico Valtidone Verde , è possibile regalarsi una sessione di kinesologia, una disciplina che si basa su concetti di medicina tradizionale cinese, e assaggiare alcuni ‘frutti antichi’ che l’agriturismo coltiva per preservare la biodiversità. Come suggerito da Riccardo Starnotti , esperto dantista che organizza escursioni lungo le rotte percorse dal Sommo Poeta nel Casentino, la giornata può chiudersi leggendo
i versi che Dante Alighieri ha dedicato alle farfalle nel X° canto del Purgatorio…

* IOLAS (Associazione Pavese per lo studio e la conservazione delle Farfalle)
Fondata nel 2015, affronta la sua mission – conoscere e conservare la natura – ispirandosi ai principi e agli scopi della citizen science, tra cui la promozione sociale. Cura i pannelli esplicativi, recanti testi e immagini, che “guidano” i visitatori nelle loro escursioni alla scoperta delle popolazioni di farfalle che abitano l’Oltrepò (percorsi realizzati nell’ambito del progetto AttivAree – Oltrepò (bio)diverso – la natura che accoglie, finanziato dalla Fondazione Cariplo).

Il miglio delle farfalle

Lì una volta ci passava il 13, inteso come tram. I binari correvano nello spazio tra le due carreggiate di corso Lodi, il tratto viario del Sud Milano che da piazzale Corvetto va
a piazzale Lodi, per poi proseguire sino in centro. Un’arteria che raccorda città e campagna. La periferia milanese più vicina a Piazza del Duomo. E’ qui che verrà inaugurato il Miglio delle Farfalle. Su quell’anonima striscia d’asfalto tra le due carreggiate, oggi utilizzata solo da chi pedala sulla pista ciclabile, sono state messe a dimora svariate qualità di piante, tutte adatte ad attrarre diverse specie di farfalle. Un’oasi verde, stretta e lunga, che grazie a macaoni e cavolaie colorerà un angolo grigio della città. Tutto dovrebbe essere pronto per fine maggio (se la pandemia si metterà di traverso ci sarà uno slittamento di qualche mese). Il progetto è coordinato da LABSUS – Laboratorio per la sussidiarietà , con il supporto dei residenti in Piazza San Luigi e della relativa Social Street e della casa editrice Topipittori , oltre al sostegno strategico de La città intorno , un programma di Fondazione Cariplo. L’idea da cui è nato tutto è venuta al team di Fratelli Bonvini , un’istituzione del quartiere. Sulla carta è una cartoleria e tipografia, in realtà è molto più di un negozio. Aperta da Costante e Luigia Bonvini nel 1909, è un pezzo di storia, un luogo di bellezza antica in cui rifarsi gli occhi. Recuperato e restaurato nel 2014 mantenendo mobili e attrezzi originali, è una meta per feticisti e curiosi di matite e penne, album e taccuini, pennini e inchiostri, libri e timbri. Accessori e oggetti ricercati, pieni di gusto. Sede di workshop e laboratori.
La volontà comune di quest’insieme di realtà farà di questa rambla, popolata da farfalle selvatiche, un esperimento da seguire. Anche per osservarne gli sviluppi, tenuto conto che chè saranno poi gli stessi residenti e commercianti del quartiere che hanno aderito all’iniziativa a prendersene cura…

Sentieri migranti

“Un immigrato è qualcuno che non ha perso niente,
perché lì dove viveva no aveva niente”      Jean Claude Izzo

Vanno di moda i cammini. Quasi ogni settimana ne nasce uno. Tra gli ultimi nati il cammino di San Francesco. Questo è l’anno dantesco e spuntano come funghi cammini sulle orme dell’Alighieri.
Ce ne ne sono però altrettanti che non appartengono alla sfera del loisir. Sono quei percorsi oggi calpestati da chi per scelta, per obbligo e per necessità, intraprende un viaggio, trasformandosi in migrante dopo essere stato esule, perseguitato o discriminato. Percorsi da fare nel tentativo di
superare quella linea immaginaria chiamata confine. Vicino a Ventimiglia, tra Grimaldi e Garavan ci sono due sentieri che si riuniscono all’altezza della linea della frontiera. Da lì, lungo i secoli, sono passate, al prezzo di inaudite sofferenze, migliaia di persone nella speranza di una vita migliore. Dagli antifascisti (compreso, sembra, il futuro presidente Pertini) agli ebrei come Robert Baruch che nel 1939 disegnò e spedì da Nizza, alla propria comunità di Merano, una mappa che rappresenta con esattezza il sentiero. Un tentativo concreto di offrire una fuga dalle leggi razziali. Oggi su quel Sentiero della Speranza ci passano centinaia di migranti. Altri cercano di farlo sui sentieri delle Hautes-Alpes: nei boschi tra Italia e Francia, in mezzo alla neve, tra piste da sci e turismo… una realtà raccontata da “The Milky Way – Nessuno si salva da solo”, un film di Luigi d’Alife. Altri seguono i vecchi sentieri che portano in Ticino, mulattiere in passato battute da contrabbandieri e spalloni. E poi c’è la rotta del Brennero e quella che passa per il Carso. Di tutti questi sentieri ne parla Alberto Abo di Monte nel libro “Sentieri migranti – Tracce che calpestano il confine” (Mursia), che ci racconta anche la “non” differenza tra un “cervello italiano in fuga” e un migrante economico pakistano, entrambi laureati. Alberto Visconti infine, ci presenta il brano con cui recentemente ha vinto il Sanrito Festival . Un brano eseguito insieme al CoroMoro, un coro formato da giovani richiedenti asilo politico nelle Valli di Lanzo. Ragazzi che arrivano da Mali, Senegal, Gambia, Nigeria, Costa d’Avorio, che cantano e interpretano (molto spesso in dialetto piemontese) con grande energia, creatività e ironia canzoni popolari, principalmente in dialetto piemontese.

L’Ultima Ruota

 

L’Ultima Ruota è la sfida su due ruote per la Cultura e lo Spettacolo dal Vivo che è partita da Milano il 24 febbraio 2021 per arrivare, in sei tappe, a Sanremo il primo marzo, giorno di apertura del Festival. I partecipanti a questa ciclo maratona sono professionisti del mondo della Cultura e dello Spettacolo che si sono messi in sella per dar vita ad un’azione dal forte valore poetico e politico. Pedalando hanno raccolto le voci di chi riconosce la Cultura come necessaria, anche in termini di salute dei cittadini. E le hanno recapitate agli organizzatori del Festival

La loro carovana a pedali ha toccato piazze, musei e teatri, luoghi vitali per il territorio che sono stati brutalmente chiusi. Un’azione coraggiosa, democratica, epica e gentile com’è la bicicletta, che porta a spingere sui pedali all’insegna di salite e discese, glorie e fatiche. La bicicletta è stata la loro cifra stilistica, la metafora del loro mestiere, il catalizzatore sociale che ha scandito il loro procedere.

Una Milano- Sanremo dove non c’era la preoccupazione di chi arrivasse primo, perchè l’unica vittoria era arrivare insieme.

Nella puntata abbiamo raccolto alcune tra le voci che hanno salutato la partenza della carovana (dall’assessore alla cultura del Comune di Milano, Filippo del Corno, agli artisti della Brigata Brighella ) e di alcuni degli ospiti incontrati nelle tappe durante il viaggio.

Un grazie a Paola Piacentini e a Guido Foddis de la Repubblica delle Biciclette

Murales

Piccole edicole, affreschi, murales, altari a Napoli ricevono la devozione popolare: sono dedicati a vittime accidentali o a quelli che la cronaca definisce “giovani criminali”. Entrambe le categorie sono ritenute in grado di intercedere per chi è rimasto. La ministra Lamorgese è drastica: “Rispettiamo il dolore, però sulla legalità non cediamo e li smantelleremo”. Nei Quartieri Spagnoli il murales dedicato a Ugo Russo, un 15enne del quartiere freddato mentre tentava una rapina ai danni di un carabiniere fuori servizio la notte del 29 febbraio 2020, è uno di questi e la volontà di cancellarlo sta creando forti tensioni, come testimoniato dalla pagina facebook del comitato degli amici di Ugo. Lo scrittore Luca Delgado, senza far coincidere le due tragiche storie, fa una riflessione tra la storia di Ugo e quella di George Floyd: “Qualcuno mi deve spiegare il perché quando George Floyd è morto si è fatta la corsa alla denuncia e alla richiesta di giustizia e per Ugo Russo invece si è fatta la corsa a chi lo disconosceva come napoletano e lo condannava con il solito campionario di cattiverie inutili e banali, come se la sua morte fosse una liberazione. Mi si deve spiegare perché, dopo l’ordinanza del Comune e il parere del Prefetto, si intende procedere alla rimozione del murale che ritrae Ugo Russo, quando di George Floyd esistono murales in tutto il mondo”.
Laika è una donna romana che tiene molto al proprio anonimato. Nelle foto che la ritraggono appare con una maschera bianca e una parrucca rossa. Di lei non è dato sapere quasi nulla, né età né quartiere di provenienza, tranne che è single. Di sé non vuole dire altro, tutto qui. Anche nelle conversazioni telefoniche usa un modulatore della voce per non correre il rischio di farsi identificare. Laika, il nome di copertura che utilizza come filtro dalla vita reale, è Laika MCMLIV (1954 scritto in numeri romani, anno di nascita della cagnetta russa che fu il primo essere vivente in orbita nello spazio a bordo dello Sputnik 2).
La scelta di non mostrare mai il proprio volto è giustificato dalla volontà di non volere che il suo aspetto fisico influenzi il suo messaggio. L’immagine neutra di un alter ego inventato la rende libera. Laika in genere non utilizza i muri come tele per i suoi dipinti, ma li usa per attaccarci i poster che lei produce. Scherzando non si definisce street artist, ma attacchina.
Qualche giorno fa si è recata al confine tra Bosnia e Croazia, nelle località di Lipa, Bihac e Velika Kladusa, nel Cantone dell’Una Sana, per raccontare, attraverso i suoi poster, le condizioni in cui versano i migranti.
Il calciatore guineiano Cherif Karamoko invece è uno che il viaggio da migrante l’ha vissuto sulla propria pelle. Un viaggio durante il quale ha perso suo fratello: dopo aver perso i genitori, il fratello rappresentava la figura più importante nella sua vita… Un’esperienza drammatica che racconta nel libro “Salvati tu che hai un sogno” (Mondadori). Una storia emblematica che aiuta a comprendere l’apocalisse che molte persone e interi popoli, non solo del continente africano, stanno vivendo in questi decenni oscuri.

Greenway: la rete delle ex ferrovie recuperate al cicloturismo

C’era una volta la ferrovia, il mezzo di trasporto che cambiò le vite della gente, le loro abitudini e l’intera società. Ma laddove c’era una volta la ferrovia e oggi non c’è più – perché superata dalle auto o addirittura dai treni ad alta velocità – sono rimasti dei cammini ferrati che sono al tempo stesso memoria storica, patrimonio culturale e, spesso, ambiente incontaminato da ripercorrere indietro nel tempo, a piedi o in bicicletta. La FIAB per anni ha portato avanti una battaglia storica che finalmente sta dando i suoi frutti perchè anche in Italia si sta estendendo la rete delle ex ferrovie recuperate al cicloturismo e alla mobilità dolce. Una realtà che ci fotografa Michele Bernelli, direttore della rivista BC , che ci ricorda che se nel 2010 erano 640 i chilometri complessivi riconvertiti, dieci anni dopo c’è un aumento di oltre il 50%: oggi l’Italia conta 1033 chilometri di ciclabili che corrono su ex sedimi ferroviari. Ornella D’Alessio, autrice
del libro “Vie Verdi” (editore Cinquesensi, collana Omnes Viae), dove raccoglie venti itinerari che permettono ai tanti walker, anche di ultimissima generazione, e biker di scoprire nuovi interessanti percorsi, ce ne consiglia alcuni. Tra questi c’è la ciclopista del Trammino, inaugurata lo scorso 8 agosto. Il tracciato è lungo quasi dieci chilometri e si sviluppa lungo l’antico tracciato del tram su rotaie, da cui prende il nome, che ha terminato le corse negli anni ’60. Antonio Dalla Vedova, ex presidente Fiab e oggi responsabile area cicloturistica, ci descrive la Treviso-Ostiglia, il tratto cicloturistico veneto più importante: 52 km già attivi (e la Regione Veneto ha finanziato il prolungamento di altri 35 km).
La cultura del riutilizzo delle ex strade ferrate è sbocciata in America negli anni Sessanta.
Oggi si può spostare la propria residenza nel nord ovest dell’Arkansas e ricevere in cambio 10mila dollari e una bicicletta (questo angolo dell’Arkansas è ricco di piste ciclabili e percorsi naturalistici). Basta aderire al piano Life Works Here: findingnwa.com/incentive. Occorre avere almeno 24 anni ed essere disposti a fare i bagagli e partire al massimo sei mesi dopo l’accettazione della propria domanda.

Grazie a lifeintravel.it per l’utilizzo di alcune loro fotografie. Un saluto a Nala che compare nella foto di apertura.

Turismo Industriale

Negli ultimi anni, il patrimonio industriale è diventato un tema d’interesse anche per il turismo. Sono nati ovunque percorsi locali e regionali, reti di musei e veri e propri sistemi di promozione turistica del territorio. E l’Italia è in prima linea nella valorizzazione di questa grande risorsa che comprende sia l’archeologia industriale – fabbriche dismesse, musealizzate o riconvertite a nuove funzioni – sia la cosiddetta cultura d’impresa, che include i musei e gli archivi aziendali e le visite all’interno di impianti industriali ancora attivi. Jacopo Ibello, cofondatore e presidente dell’associazione Save Industrial Heritage , ha realizzato “Guida al turismo industriale” (Morellini Editore): oltre 200 schede per scoprire i più importanti siti di archeologia industriale, i musei e gli archivi d’impresa che costellano la nostra penisola. Tra questi il Molino di Baggero , nel comasco. I mulini furono per secoli l’attività predominante della Brianza, attori non solo del sistema economico ma anche della trasformazione del paesaggio. A Baggero un attento lavoro di salvaguardia ha preservato un mulino sul Lambro del 1722, dove è stato ricavato un museo che spiega il funzionamento dei macchinari ed è spazio per eventi e attività artigianali. Oggi le ruote del mulino producono l’elettricità che alimenta l’hotel-ristorante alla base dell’Ecofrazione di Baggero, un luogo di accoglienza, artigianato e cultura incentrato sull’ecologia. Il Museo della Civiltà Contadina di Bentivoglio , ospitato nella splendida villa Smeraldi, ci permette di conoscere quello che c’era prima della civiltà industriale. Nei saloni della villa settecentesca è possibile apprendere come viveva una famiglia contadina tradizionale e i tanti mestieri artigianali presenti nelle comunità di campagna. Il Museo Fisogni  è il parto di un “visionario”, il signor Guido Fisogni. Per quarant’anni ha costruito stazioni di rifornimento carburanti in tutto il mondo. Non buttava i vecchi impianti, ma li accantonava per conservarli. E’ nato così, in una cascina alle porte di Tradate, un coloratissimo museo che raccoglie pompe di benzina e oggetti riferibili al mondo delle stazioni di servizio. Infine un ex dipendente della Miniera di Montevecchio in Sardegna, oggi aperta ai visitatori, ci racconta la vita in una realtà totalizzante dove tutto, dalla valuta con cui venivano pagati i minatori alla loro squadra di calcio, era governato dal padrone della miniera.

Le rotte dell’arte africana

 

“La sciabola che vi consegnamo oggi risplende alla luce del sole, è la luce della conoscenza e dell’amicizia che lega i nostri popoli”, aveva detto, in presenza del presidente senegalese Macky Sall, l’ex primo ministro francese Édouard Philippe, il 17 novembre 2019, in visita a Dakar. Interveniva in occasione della restituzione della Francia al Senegal della sciabola di El Hadji Omar Tall, condottiero che si oppose alla dominazione francese in Africa occidentale. Philippe, accompagnato da un’importante delegazione ministeriale, aveva ricordato le circostanze di questa restituzione: “Come sapete il presidente Macron ha sottolineato più volte il suo desiderio di valorizzare il patrimonio africano in Africa. E’ quello che farà il Museo delle Civiltà Nere con il sostegno dei musei francesi”. Il gesto simbolico si è concretizzato un anno dopo l’inaugurazione del nuovo museo di Dakar, che porta il marchio anche di un altro attore internazionale importante, la Cina. Da molti anni Pechino sta sviluppando infatti una “diplomazia del patrimonio culturale”, al cui centro c’è proprio l’Africa e il dibattito sulla restituzione delle opere d’arte africane da parte degli ex colonizzatori. Progettato dal Beijing Institute of Architectural Design, uno studio di architettura di cui è proprietario lo stato cinese, il Museo delle civiltà nere di Dakar è un dono di 30.5 milioni di euro della Repubblica popolare cinese al Senegal. Il Museo è il punto di arrivo di un’idea promossa mezzo secolo fa dal primo presidente del Senegal, il poeta e intellettuale Léopold Sédar Senghor. Un museo panafricano – alla stregua di quello di arte contemporanea inaugurato a Johannesburg nel settembre 2017 – chiamato a diventare un punto riferimento per far conoscere la storia culturale del continente, far emergere la sua identità artistica e il contributo dato al resto dell’umanità. In tutto potrà contenere fino a 18 mila opere che spaziano dalle vestigia dei primi esseri umani apparsi in Africa milioni di anni fa – tra cui teschi, attrezzi in pietra, maschere, pitture e sculture – fino alle creazioni artistiche contemporanee. Va però specificato che nonostante le promesse di Macron ad oggi la Francia ha restituito solo la sciabola di El Hadji Omar Tall. Uno che l’ha presa male è Emery Mwazulu Diyabanza, attivista congolese che ha deciso di ovviare a questo ritardo scendendo in campo in prima persona. Da mesi entra a volto scoperto, disarmato, nei musei d’arte africana francesi, si impossessa di opere d’arte trafugate dai colonialisti comunicando agli astanti che le riporterà in Africa… Un’attività che gli costata più di una denuncia per furto.
La riapertura, e il cambio di politica culturale, dell’AfricaMuseum: il Museo reale dell’Africa Centrale a Tervuren nella periferia di Bruxelles, considerato il più grande museo del mondo consacrato al continente africano
Il punto sulla campagna Decolonize the City a Milano e la storia della statua del rivoluzionario Thomas Sankara che, intallata vicino a quella del giornalista Indro Montanelli, è stata rimossa e sequestrata. Infine Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino ci racconta la vita della struttura che dirige in questi mesi di pandemia e di chiusure forzate.

Info sulla restituzione di tutti i tesori coloniali su colonialismreparation.org/it

 

Rugby a Maputo

“C’è una strada di asfalto e tutt’intorno viuzze di sabbia che si divincolano tra abitazioni di cemento e lamiera, tra chiese ricavate da vecchi capannoni e da baracche che vendono “tresém”, tre birre a un euro e trenta. Nel mezzo è tutta sabbia, sabbia rossa e sabbia gialla, che s’impantana quando piove e che s’impiglia nei capelli quando tira vento. Magoanine B è un quartiere tra tanti, sorto una quindicina di anni fa da un progetto di ricollocamento degli abitanti di altri quartieri devastati dalle inondazioni che periodicamente mettono in ginocchio il Mozambico. Nel Duemila qui c’erano solo alberi e sabbia, ma era considerata una zona sicura e così ci hanno trasferito la gente e poi sono arrivate le case e le strade ma si sono dimenticati di fare i canali di scolo, e allora il problema degli allagamenti si presenta ogni quindici giorni…
…la scuola primaria di Magoanine B sta nel mezzo delle strade di sabbia, a una decina di minuti a piedi dalla strada: dalla fermata CMC (acronimo di Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna) s’imbocca una larga strada di sabbia da percorrere fino al primo albero di canhu, lì si gira a destra affondando nella sabbia e nei mattoni incastonati nella terra per permettere il passaggio quando piove, e poi al terzo albero di moringa si svolta a sinistra e poco dopo spunta la scuola. È così che spieghiamo agli allenatori come arrivare alla scuola per fare i primi allenamenti di rugby: il popolo Machangana si orienta così, e non si perdono mai”.
E’ così che Irene Bellamio, sul sito www.rugbio.it/maputo/magoanine-b, racconta il luogo dove lavora come allenatrice di una squadra di rugby che oltre a far giocare con la palla ovale decine di ragazze e ragazzi, assolve a un grande compito sociale. Il progetto RugBio Magoanine B ha tanti amici, tra cui l’ASD Rugbio di Cusago: Alessandro Acito ci racconta come in pratica nella periferia di Milano, con i loro ragazzi, fanno lo stesso lavoro che Irene fa a Maputo. Giorgio Terruzzi di Rugby Milano , una realtà che oltre a coinvolgere oltre 600 giocatori dai 5 agli over 50 anni ha portato il rugby nelle carceri milanesi, ci spiega perchè lo sport con la palla ovale è una realtà che genera condivisione e appartenenza come elementi non mercificabili.

Marco Trovato, direttore della rivista Africa , ci aiuta a capire la complessa società mozambicana raccontandoci due ‘comunità’ che vivono per le strade di Maputo: i “motociclisti-indipendentisti” e i ‘madgermanes’ . Infine Martina Zavagli, della ong AVSI , ci racconta di un progetto praticato a Maputo per un uso ‘fiabesco’ della radio…

Per sostenere il progetto RugBio Magoanine B: www.gofundme.com/rugby-for-mozambique

 

JOSHUA TREE (Foreste 02)

“Gli alberi sono le braccia della terra. Quando avremo tagliato tutti gli alberi il cielo ci cadrà addosso” (proverbio degli Indios dell’Amazzonia)
Francis Hallè, botanico e biologo francese, nel suo imperdibile “Ci vuole un albero per salvare la città” (ed. Ponte alle Grazie) scrive che “ci vuole un albero per salvare le città ormai assediate dall’inquinamento, dal cemento, dal calore, dagli insetti e dal rumore”. Un albero sembra una cosa da poco, una soluzione semplice, da fiaba, per gente un po’ ingenua e pre moderna che non ama la tecnologia. Invece, sempre secondo Francis Hallé “non esiste nessuna tecnologia che sia complessa e perfetta come quella di un albero. Sono esseri viventi che non hanno la possibilità di muoversi e dunque hanno sviluppato strategie estremamente sofisticate per sopravvivere. Vivono a lungo, in modo pacifico, e possono aiutarci a stare meglio: la loro ombra rinfresca le nostre estati estive; aumentano l’umidità dell’aria e dunque abbassano la temperatura; assorbono l’anidride carbonica e le polveri sottili, e molte altre cose ancora. Dobbiamo imparare a rispettarli e ad amarli, pensare a loro come nostri amici e compagni, cittadini del mondo, silenziosi e saggi guardiani delle nostre vite”. Uno che le piante le conosce bene è il dottor Paolo Lassini. Laureato in Agraria presso l’Università degli studi di Milano, e in Scienze forestali all’Università di Padova, ha lavorato come dirigente presso diversi enti. Ha ideato, progettato o realizzato interventi di forestazione urbana, come il Parco Nord Milano, il Bosco delle Querce di Seveso (un’area naturale protetta rinaturalizzata situata nella ex zona A del disastro di Seveso, dove il terreno inquinato dalla diossina fu asportato e sostituito da terra proveniente da altre aree non inquinate), e il programma “Dieci grandi foreste di pianura e di fondovalle”. Tra queste il Bosco del Lusignolo, nel comune di San Gervasio Bresciano, attualmente gestita come parco naturale. La Grande foresta del fondovalle Valtellinese (sito tra Sondrio, Caiolo e Cedrasco) e il Parco Agricolo Urbano della Vettabbia: 37 ettari (di cui più di 26 di nuovo bosco) nel sud Milano.
Tiziano Fratus, cercatore d’alberi e un filosofo, uno dei più originali e importanti scrittori e poeti di natura italiani, ci racconta come costruire una track list per poi ‘inselvarsi’ accompagnati dalla buona musica. Con l’occasione traccia un ricordo del compositore californiano Harold Budd, recentemente scomparso per complicanze da Covid-19.
Federico Pinato ci racconta come grazie al progetto wow nature , oltre a scoprire tutte le aree in cui sta per nascere un nuovo bosco, è possibile adottare o regala un albero, per migliorare la tua città, il tuo paese e il tuo pianeta.
P.S. Per la colonna sonora della trasmissione abbiamo usato un paio di brani di “Botanica”, un lavoro dei DeProducers , il collettivo musicale composto dal tastierista Vittorio Cosma, dal bassista Gianni Maroccolo, dal chitarrista Max Casacci e dal cantautore e produttore Riccardo Sinigallia.