VALLE di SCALVE

“La «crisi idrica globale» è un argomento di grande successo, in questo avvio di terzo millennio. Ma la risposta al problema resta inadeguata: anziché alla comprensione della crisi, si lavora alla sua spettacolarizzazione. Le star di Hollywood ci invitano a elargire generose donazioni, come singoli consumatori. Le multinazionali dell’acqua in bottiglia e della birra portano avanti campagne pubblicitarie basate sulle loro politiche di sostenibilità. Le associazioni benefiche si rendono intanto conto di avere bisogno di «soldi veri», cioè di ottenere degli utili da ciò che fanno…”. (da “Sete” di Filippo Menga, ed. Ponte alle Grazie).

E’ leggendo questo libro che ho deciso di fare una nuova puntata di Onde Road dedicata all’acqua. E per farla ho pensato a un viaggio nella Valle di Scalve : una valle, a confine tra la bergamasca e il bresciano, dove l’acqua da sempre ha pesantemente segnato la vita di chi l’abitava e la abita.  Lo certifica un altare vecchio di secoli (il dibattito sulle origine celtiche o romaniche è ancora aperto) in prossimità del torrente Vò, nelle cui adiacenze è stata rinvenuta una coppella, solitamente utilizzata per riti legati all’acqua. All’altezza di Ronco, dove il Vò si immette nel Dezzo (un fiume di soli 36 chilometri a cui si deve però l’esistenza della Valle di Scalve) c’è una vecchia sorgente dove l’acqua sembra sgorgare da un accesso che parrebbe portare all’ingresso di una miniera. Maurilio Grassi, guida escursionistica-ambientale e neo direttore del Museo Etnografico di Schilpario, racconta la storia della diga del Gleno. Ideata per sfruttare appieno l’energia prodotta dall’acqua, fu finanziata dalla famiglia Viganò, proprietaria di importanti cotonifici lombardi. Per ottenere il massimo dalla forza gravitazionale dell’acqua nella valle del Gleno, fu realizzata una diga ad archi multipli, all’epoca considerata una delle più moderne innovazioni ingegneristiche. Il bacino, posto ad un’altitudine di 1.500 metri, alimentava una prima centrale 400 metri più a valle e questa a sua volta consentiva il funzionamento di una seconda centrale. Nei mesi precedenti al crollo vennero ripetutamente segnalate perdite d’acqua alla base e nella muratura in calce dello sbarramento.  Alle ore 7.15 del 1° dicembre 1923, la Diga del Gleno crollò: sei milioni di metri cubi di acqua invasero la valle sottostante, colpendo per primo l’abitato di Bueggio, che venne totalmente distrutto, per poi proseguire e distruggere buona parte del paese di Dezzo. L’acqua raggiunse in seguito Angolo Terme e Darfo, in Valle Camonica, per finire la sua corsa nel Lago di Iseo. I morti di questo disastro non vennero mai contabilizzati con precisione, ma si stima che ci furono tra le 350 e le 600 vittime.
Un mini-trekking alla portata di tutti porta ad uno dei punti più affascinanti della Valle di Scalve: la Via Mala. Costeggiando dall’alto le acque del Dezzo, univa la Val d’Angolo, tributaria della bresciana Valcamonica, con la Val di Scalve, territorio delle Alpi Orobie Orientali. Una valle remota, da sempre contesa: dal punto di vista territoriale è bergamasca, mentre la gestione delle acque è della provincia di Brescia. Dall’alto si domina un paesaggio selvaggio, dove il tempo sembra essersi fermato. Scendendo dalle ripide pareti su cui poggia la vecchia via Mala ci si cala in un paradiso per pescatori. Ne parliamo con Gianluca Bonomi, guida di pesca, che ci introduce nel complesso mondo della pesca ‘no kill’ con la mosca. Adelino Ziliani, invece, ci racconta la storia , e le proprietà terapeutiche, delle acque di Boario Terme , storico centro termale frequentato, ai tempi, anche da Alessandro Manzoni…

Per approfondimenti consigliamo i seguenti volumi curati da Maurilio Grassi:
.- Calchere. L’industria povera della Valle di Scalve
.- Messaggi dalle rocce . L’arte rupestre della Valle di Scalve
.- I frerini della Valle di Scalve. Note sull’attività estrattiva locale preindustriale

DALLA VAL GRANDE AI NUOVI DESERTI ITALIANI

Il Parco Nazionale della Val Grande si estende nel cuore della provincia del Verbano Cusio Ossola, tra creste dirupate e cime solitarie, ed è parte del geoparco Sesia Val Grande , una più grande area di interesse geologico entrata a far parte della rete mondiale di geoparchi, patrocinata dall’Unesco. E’ l’area selvaggia più vasta d’ltalia, una wilderness a due passi dalla civiltà. Un santuario dell’ambiente dove la natura sta lentamente recuperando i suoi spazi, dove boschi senza fine, acque trasparenti e silenzi incontrastati accompagnano ogni passo del visitatore. Ma la Val Grande è anche storia. Il lungo racconto di una civiltà montanara narrato dai luoghi e dalla gente dei paesi che circondano quest’area fra Ossola, Verbano, Val Vigezzo, Valle Intrasca e Cannobina. Percorrendo i sentieri della Val Grande si scoprono i segni lasciati dall’uomo nei secoli passati quando la valle era meta di pastori e boscaioli, tracce di una vita faticosa, testimonianza della capacità di adattarsi a un territorio impervio e inaccessibile. La verticalità era il principale elemento di sopravvivenza: tutta l’economia della comunità montana era basata sugli spostamenti altitudinali stagionali, in base ai ritmi della natura. Ne sono testimonianza le ciclopiche opere di terrazzamento destinate alla coltivazione ed una fitta rete di strade e sentieri che segnavano i versanti vallivi collegando il fondovalle ai maggenghi e agli alpeggi. Su queste montagne, inoltre, è stata scritta una pagina importante della Resistenza italiana. Nel giugno del 1944 la Val Grande e la Val Pogallo furono teatro di aspri scontri tra le formazioni partigiane e le truppe nazifasciste (nelle adiacenze va visitata la Casa della Resistenza , un importante luogo di memoria). Di questo e molto altro ne parlano lo scrittore Marco Albino Ferrari, e Massimo Gocci, in passato presidente del Parco Nazionale della Val Grande. Invece la naturalista Valentina Scaglia ci racconta del suo commovente incontro con Gianfry, l’eremita della Val Grande. La bulimia naturalistica di una località come la Val Grande è ancora più apprezzabile se ci ricordiamo quanto stia soffrendo la natura nel resto dell’Italia. Una cruda testimonianza ci arriva da Deserti d’Italia, un’insolita guida turistica curata da Gabriele Galimberti. Come recita il sottotitolo del libro: “Paesaggi mozzafiato di cui il Bel Paese non avrebbe bisogno”, è un viaggio, corredato da impressionanti fotografie, tra le aree a rischio desertificazione nel Bel Paese. Un fenomeno che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, non è presente solo al Sud (dove comunque le aree a rischio sono molto estese: 70% della Sicilia, il 57% della Puglia, il 58% del Molise e il 55% della Basilicata sono a rischio desertificazione), ma anche al Centro e al Nord, dall’Abruzzo all’Isola d’Elba, dall’Emilia-Romagna alla Lombardia.

Case di scrittori

Il castello di Saché, nella valle dell’Indre, è uno dei noti castelli della Loira. Honoré de Balzac vi trascorse brevi soggiorni in fuga dalla stressante vita della società parigina e dal consueto assalto dei creditori. In compenso vi ambientò più di un tomo, tra cui “Il curato di Tours” e “Il Giglio nella valle”. E vi compose altrettanti volumi. Qui Balzac gustava il vino equilibrato e generoso di Vouvray con cui sovente annaffiava i suoi irregolari pasti rablesiani. Era capace, dopo due o tre giorni di digiuno e di scrittura diurna e notturna, di deglutire anche cento ostriche e sei pernici in un solo pranzo. Un altro castello da visitare è quello dove vissero Voltaire e Gabrielle-Emilie de Breteuil. Sposata con il marchese di Chatelet, dal quale ebbe tre figli, era interessata agli studi scientifici, cosa piuttosto insolita per una donna del Settecento. Passione che la mise in rapporto con Voltaire: una conoscenza stimolante per le sue ricerche. Voltaire era considerato un uomo freddo, cinico e calcolatore, alieno alle passioni romantiche e implacabile fustigatore della mentalità del suo tempo. Lo scrittore pagò con frequenti soggiorni in galera la causticità delle sue opere. Fu proprio per sfuggire all’ennesima condanna che si rifugiò a Cirey (allora territorio del ducato di Lorena, indipendente dalla Francia). La dimora di campagna dei coniugi du Chatelet fu rinnovata e sontuosamente rifinita da Voltaire stesso, a proprie spese. Con l’amica Emilie, il filosofo mise a punto un rigoroso piano di studi da attuare nella villa, con orari esattamente definiti per l’attività intellettuale, le conversazioni, i pasti, il teatro e la musica. Non è mai stata chiarita fino in fondo la reale natura dei rapporti fra Voltaire e Madame du Chatelet. Una cosa però è certa: Voltaire non provò per nessun’altra persona un sentimento cosi profondo. Voltaire non ruppe con lei nemmeno quando, nel 1748, Emilie si innamorò del marchese Saint-Lambert e ne restò incinta Ed è certo che la morte della marchesa di Chatelet lo portò quasi alla disperazione. La casa di Samuel Beckett a Ussy-sur-Marne, 60 km dal centro di Parigi, è una abitazione spoglia, una sorta di “capanna arredata” con il telefono abilitato solo a chiamare e non a ricevere. Una villetta isolata, a tre chilometri dal centro. Più che una abitazione fu una cella monastica e qui Beckett si chiuse per scrivere la maggior parte dei suoi capolavori. Quando frequentava questa casa Beckett era sposato con Suzanne Déchevaux-Dumesnil. Però amava già Barbara Bray, giovane produttrice e redattrice inglese che aveva conosciuto a Londra, che per lui aveva lasciato la carriera alla Bbc e a 36 anni si era trasferita a Parigi. In Francia Barbara diventò protagonista della vita intellettuale dell’epoca con le sue traduzioni di Sartre, Robbe-Grillet, Genet e in particolare di Marguerite Duras, della quale era amica. Rimase al fianco di Beckett per quasi trent’anni: compagni intellettuali e anche innamorati. La casa oggi è in Rue Samuel Beckett. “To rue” in inglese significa soffrire, e quella per Barbara era la strada della sofferenza, del suo doloroso amore per Beckett. Un uomo che la amava, ma non aveva mai voluto separarsi dalla moglie. Per lui Barbara era diventata «la donna invisibile». In quella casa Beckett non invitava nessuno. A parte Barbara. Lei lo spronava a scrivere, gli suggeriva i libri da leggere, lo consigliava sulle traduzioni delle sue opere. A volte andava a vedere di nascosto le rappresentazioni dei suoi drammi a teatro, per fargli da «spia». Un’intesa totale, romantica e intellettuale. Dalla casa di Ussy, per la precisione dal suo tavolino in giardino, Beckett scriveva a Barbara e leggeva le sue lettere: se ne sono scambiate migliaia in quasi tre decenni di amore nascosto. Oggi 720 missive di Beckett a Barbara sono state pubblicate nella collana delle sue Lettere della Cambridge University Press: così tutti possono sapere quanto fossero vicini. Ed è grazie a queste lettere che Barbara Bray è un po’ meno la donna invisibile.
La casa nel Peloponneso di Sir Patrick Leigh Fermor, nella penisola del Mani (frequentata anche da Bruce Chatwin). Delle tre “dita” del Peloponneso, la penisola del Mani è il medio. La zona più ostile e selvaggia della penisola è l’esatta antitesi della Grecia classica.

Per approfondimenti su queste e altre case di scrittori consiglio “Le case dei miei scrittori”, l’ottimo libro di Évelyne Bloch-Dano (ed. ADD).

Le geografie di James Baldwin

Ricorrono  100 anni dalla nascita di James Baldwin (1924-1987), autore prolifico, saggista, drammaturgo e romanziere che nella sua scrittura ha sempre intrecciato i temi dell’omosessualità, del razzismo e del blues. Originario di Harlem, dopo il diploma si trasferisce al Greenwich Village dove incontra lo scrittore Richard Wright che, resosi conto del suo talento, gli procura una borsa di studio per Parigi.  Nel novembre 1948, ventiquattrenne, Baldwin diede a sua madre gran parte dell’importo guadagnato con la borsa di studio e utilizzò il resto per trasferirsi a Parigi. Si innamorò della città, non solo per la sua bellezza e cultura, ma anche per la tregua che gli offrì dalla discriminazione razziale e sessuale vissuta negli Stati Uniti.  Baldwin a Parigi era per lo più solo, parlava solo inglese, aveva pochi dollari in tasca e niente in banca. Ogni mattina fuggiva dagli squallidi alberghi dove dormiva in favore dei caffè francesi, dove scriveva e poteva stare al caldo. “Appena mi sono alzato dal letto, ho portato taccuino e penna stilografica nella stanza al piano superiore del Café de Flore, dove ho consumato un bel po’ di caffè e, con l’avvicinarsi della sera, un po’ di alcol“. In quel locale scrittura e socializzazione andavano di pari passo. Qui incontrò famosi intellettuali francesi come Simone de Beauvoir,  Albert Camus e Jean-Paul Sartre. I bar e le discoteche permettevano all’espansivo Baldwin di ballare, cantare, ridere ed esplorare la sua sessualità in un ambiente favorevole. Un anno dopo essersi stabilito a Parigi, Baldwin incontrò Lucien Happersberger. Pittore svizzero, Happersberger aveva solo diciassette anni all’epoca, otto anni più giovane di Baldwin. Ma i due divennero presto amici intimi e amanti. La loro storia d’amore interrazziale e omosessuale era meno un tabù a Parigi di quanto lo sarebbe stata ad Harlem o in qualsiasi altro posto negli Stati Uniti.  Invitò Baldwin in Svizzera, a Leukerbad (la capitale del termalismo alpino), per soggiornare nel piccolo chalet della sua famiglia in modo che potesse concentrarsi sulla fine di Go Tell It On The Mountain.  Anche se la loro storia d’amore fu di breve durata e nel 1964 si fosse sposato, Happersberger rimase l’amore della vita di Baldwin e un amico che gli fu sempre vicino. Da quando si era trasferito a Parigi Baldwin era diventato cittadino del mondo. Oltre che a Leukerbad, viaggiò in tutta Europa, in particolare Francia, Turchia, Svizzera e Inghilterra. Andò più volte a Porto Rico e visitò Israele, Senegal, Unione Sovietica e molti altri luoghi.  Proprio come era avvenuto con il suo primo soggiorno a Parigi, Baldwin sentiva che il tempo trascorso all’estero lo aiutava a guarire le ferite inflitte  dalla discriminazione che sentiva negli States e gli permetteva di alimentare la sua attenzione alla complessità dell’esperienza umana. Visse all’estero gran parte della sua vita, sino alla sua morte nel  1948  a St. Paul de Vence, nel sud della Francia. Pur riconoscendo l’influenza della sua residenza all’estero su tutte le sue opere e sulla sua storia di vita, Baldwin si è sempre considerato uno scrittore  americano che vive come un “pendolare transatlantico”…

Alla trasmissione sono intervenuti Francesca Esposito, direttrice editoriale di Fandango Libri , che ha parlato della “Maratona Baldwin – Cento anni di amore e di lotta”, 42 iniziative a partire da una nuova edizione delle sue opere, presentazioni, eventi di musica e arte, festival, reading, gruppi di lettura e èprogetti nelle scuole. E il giornalista Davide Mamone da New York, che ha raccontato le iniziative in corso nelle città americane per il centenario della nascita dello scrittore.

Utilitarie

Come ci racconta Matteo Villaci, l’esperto di motori di Radio Popolare, le case automobilistiche non sono più interessate a produrre utilitarie. Eppure la dimensione e la cilindrata di un mezzo condizionano il nostro modo di viaggiare. Innanzitutto la moderata velocità permette di concentrarsi maggiormente sul paesaggio, scegliere percorsi alternativi evitando strade a forte scorrimento come le autostrade, attraversare borghi che altrimenti non si sarebbero mai incontrati, concedersi più tempo, apprezzare la lentezza di un’esperienza in qualche modo più intima alla ricerca di un approccio diverso al viaggio. Perché in questo modo tutto diventa elastico, un’auto lenta dà più spazio agli imprevisti, agli incontri fortuiti, e suscita simpatia nell’altro. Siamo costretti a lasciare a casa la fretta e il “tutto organizzato”: ci si può abbandonare alla sorpresa, all’inatteso, all’avventura.
Elisabetta Tiveron, scrittrice di luoghi e persone, per la collana «Piccola filosofia di viaggio» (edizioni Ediciclo), con il libro “Il talento delle utilitarie” racconta i pregi dell’errare su piccole auto, quelle che nascono già con una loro spiccata personalità, che impongono ritmi e sguardi diversi, che richiedono di lasciare a casa la fretta, amano le strade secondarie, sono tue complici, amiche, compagne.
L’ideale, a bordo di una utilitaria, è percorrere quelle che gli americani si chiamano Blue Highway. «Un tempo, sulle vecchie cartine d’America, le strade principali erano segnate in rosso e quelle secondarie segnate in blu. Adesso i colori sono cambiati. Ma subito prima dell’alba e subito dopo il tramonto – brevi istanti né giorno né notte – le vecchie strade restituiscono al cielo un poco del suo colore, assumendo a loro volta un tono misterioso di blu». E’ su queste Strade Blu che si svolge il viaggio di tre mesi di un solitario mezzo pellerossa che, rimasto privo del suo lavoro e della sua donna, va a ricercare un poco di interesse alla vita in un itinerario circolare che lo porta da Columbia, Missouri a Columbia, Missouri, attraverso le Caroline, il Texas meridionale, lo stato di Washington, il Montana e il New England. E ritrova, ricostruisce, riscopre, l’America periferica.
Ne è nato un libro imperdibile: “Strade Blu” di William Heat-Moon (Einaudi).
Tra le utilitarie mitiche un posto di tutto rispetto spetta alla Renault 4, detta Marie Chantal. Quando debuttò nel Grand Palais di Parigi, dissero che sarebbe stata l’auto di tutti. E quella R4 color amaranto, modello Export, acquistata nel 1971 da Filippo Bartoli, divenne di tutti. A partire dal momento in cui, il 9 maggio 1978, dopo 253.839 chilometri di vita, smise di respirare insieme al corpo che trasportava. Lui era l’uomo più importante d’Italia. Lei l’auto più venduta di Francia. Era nata a Billancourt, la fabbrica parigina che aveva modellato il volto di una nazione. Nelle sue officine avevano lavorato il leader cinese Deng Xiaoping, il fotografo Robert Doisneau, la filosofa Simone Weil, il cantautore Georges Brassens e persino Gusztáv Sebes, l’allenatore della Grande Ungheria. Ma non solo loro. Dentro quegli stabilimenti, germogliati nel giardino della madre di Louis Renault, si erano mosse altre esistenze destinate ad attraversare due conflitti mondiali, la Guerra fredda, il Sessantotto, la crisi economica e la lotta armata. Seguendo quel filo lunghissimo che lega un’origine a un epilogo, Piero Trellini in “R4 – Da Billancourt a via Caetani” (Strade Blu – Mondadori) ci trascina in un incredibile viaggio, dentro una storia che va vista dal basso, dove sono i fari delle auto a guidarci. Lungo il percorso ogni cosa si collega. Si rincorrono i pensieri di Henry Ford, Adolf Hitler, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Clare Boothe Luce, George Marshall, Eduardo De Filippo, George Patton, Jean-Paul Sartre, Le Corbusier, Giangiacomo e Inge Feltrinelli, Sandro Pertini, Renato Curcio, Pier Paolo Pasolini, Henry Kissinger, Paolo VI, Aldo Moro e molti altri. Sarà la lenta trasformazione delle loro teste, attraverso una catena invisibile di anelli, a deviare la storia, portando quell’auto e quei pensieri a respirare la stessa aria e a intraprendere il medesimo tragitto…

Ritorno a Cuba

Cuba continua a cercare di sopravvivere nonostante una crisi da cui non riesce a risollevarsi.
Come ricorda Alfredo Somoza, la colpa è del blocco economico che la colpisce da decenni, ma responsabilità vanno ascritte a un governo che sembra incapace di apportare quei cambiamenti ad un sistema politico – economico che necessita di qualche ripensamento. Il risultato è un costante aumento del prezzo della benzina, la difficoltà nel reperimento i generi alimentari di prima necessità – dal pane fino al latte per neonati – e la fuga dal Paese di migliaia di persone.
Anna Gomarasca e il fotografo Gianluca Colonnese ci portano a Ciego de Ávila,  una cittadina nel cuore dell’isola dove, senza disboscamenti e deforestazioni, si produce il carbone vegetale. Una realtà che garantisce la vita a circa 3000 persone, più l’indotto. Dieci, cento, mille Ciego de Ávila darebbero una grossa spinta a Cuba per uscire dalla crisi…
Un default che si spiega anche con la decennale crisi dell’industria saccarifera, su cui ancora oggi pende il retaggio dello schiavismo. Ce lo ricordano le vicende di Esteban Montejo, un cimarrón (gli schiavi che fuggivano dalle piantagioni di canna da zucchero per rifugiarsi sui monti), nato e vissuto a Cuba fino a oltre cent’anni. La sua storia è raccontata in “Cimarròn. Biografia di uno schiavo fuggiasco” di Miguel Barnet, recentemente pubblicato in Italia per i tipi di Quodlibet. Barnet scrive: «Mi accorsi, già durante le prime interviste, che Esteban Montejo era una vita importante, anonima, quella della storia di Cuba, e che bisognava riscattarla». Edito originariamente nel 1966, e divenuto famoso in Italia grazie a Italo Calvino, è la fotografia di un rapporto di empatia e di rispetto reciproco, che è durato dal 1963 fin dopo la morte di Esteban e che ha rappresentato la fortuna di Barnet, ma anche la presa di coscienza da parte del cimarròn «del fatto che era un uomo con una vita importante», nonostante non sapesse quando, dove e da chi fosse nato.
Nonostante tutto Cuba continua ad essere un posto magico. A partire dai suoi colori. “Il colore a Cuba è tutto, sia quando c’è, che quando non c’è. Anche davanti a facciate di edifici scrostati, capisci che il colore brilla per la sua assenza, corrosa dagli anni”. Sono parole della fotografa Carolina Sandretto, autrice di “Cuba. Vivir con” (Silvana Editrice). Un libro offre un’affascinante esplorazione del mondo dei “solares”, gli alloggi popolari trasformati in spazi abitativi multifamiliari dal governo locale dopo la Rivoluzione Cubana del 1959. Un lavoro dove Carolina si concentra sulla figura umana e sul suo rapporto con lo spazio abitativo, inteso sia come luogo sia privato che pubblico. Più che un libro fotografico, un album di famiglia che rispecchia la complessità della società cubana contemporanea. 

Banksy, i migranti, la Palestina…

Ai primi di agosto Banksy ha disseminato di animali i muri di Londra, facendo nascere quello che è stato battezzato il “London Zoo”. Per alcuni critici con questa invasione di animali Banksy vuole trasmettere un messaggio: l’umanità si sta autodistruggendo, e dunque lascia il posto alle bestie. Molto probabilmente, in un momento storico drammatico come quello che stiamo vivendo, dove le luci sono molte meno rispetto alle ombre, Banksy vuole solo diffondere positività. In effetti quando vuole fare denunce il suo messaggio è esplicito. Si pensi al tema dei migranti che Banksy ha evocato, pochi giorni prima della nascita del London Zoo, al festival di Glastonbury, l’evento musicale più importante del Regno Unito. Durante il concerto degli Idles si è visto passare tra il pubblico un gommone con dei manichini, un’iniziativa con cui Banksy ha voluto ricordare i gommoni con cui le persone migranti cercano di attraversare tutti i giorni il mar Mediterraneo o il canale della Manica. Quello dei migranti è un tema caro a Banksy non da oggi. Basti pensare a quello che mise in piedi una decina di anni fa a Calais, una città del nord della Francia affacciata sulla Manica. Qui aveva la sua sede un enorme baraccopoli dove vivevano i migranti che dalla Francia provavano a raggiungere il Regno Unito. Quando se ne occupò Banksy, nel dicembre del 2015, era conosciuta come la “Giungla di Calais”.  Da una parte c’era una bella cittadina francese, con i suoi viali tirati a lucido e i negozi chic, le villette unifamiliari, la piazza, la splendida chiesa di Notre Dame. Dall’altra l’inferno di una favela di legno e stracci sotto il ponte dell’autostrada che porta al tunnel della Manica, sulle dune di sabbia vicino al mare. Un mondo altro distante quattro chilometri dal centro cittadino. Qualcuno, tra i migranti, s’avventurava in città, ma la maggior parte di loro restava nell’immenso spiazzo sulle dune in attesa del passaggio buono, del camion dove nascondersi e sbarcare in Inghilterra, a Dover, appena 50 chilometri più in là. Per i francesi erano solo un bubbone fuori città, per i migranti, afghani, eritrei, sudanesi, la sabbia di Calais era solo una sosta, inevitabile, ma nei loro pensieri del tutto temporanea. E proprio davanti alla spiaggia Banksy ha lasciato la sua prima opera made in Calais. Era lo stencil di un bambino con una valigia, che guardava in direzione dell’Inghilterra con un cannocchiale sul quale è appollaiato un avvoltoio. Seguirono altre opere, tra cui un murales raffigurante Steve Jobs, intitolato “Il figlio di un migrante siriano”. Nel dipinto Jobs aveva sulla spalla una sacca con gli effetti personali e in mano un vecchio computer della Apple. Un modo oroginale per ricordare che l’uomo che ha regalato al modo alcune delle più grandi innovazioni tecnologiche era il figlio di un migrante siriano, arrivato negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. Proprio come molti siriani che in quei giorni stavano a Calais per cercare di entrare nel Regno Unito (vedi articolo su The Guardian).
Un altro tema caro a Banksy è quello legato alla violenza israeliana contro i palestinesi. Significativa l’esperienza del Walled Off Hotel , “l’albergo con la vista peggiore al mondo”. Ha aperto i battenti nel marzo 2017 di fronte al muro di Betlemme, la cortina di cemento che dal 2002 divide Israele dai territori palestinesi. Doveva restare aperto un anno, invece è stato chiuso solo il 21 dicembre 2023, una chiusura dovuta ai continui attacchi israeliani alla Palestina, che ad oggi ha ucciso più di 40.000 persone a Gaza e centinaia nella Cisgiordania.

Turismo responsabile in Senegal (e/o in Sardegna)

Due otttime mete per praticare il Turismo responsabile sostenibile sono il nord del Senegal e la Marmilla, una subregione della Sardegna posta nella parte centro-meridionale della regione. Il turismo  responsabile sostenibile ha tre dimensioni: il turista lascia qualcosa al territorio – coinvolgimento delle realtà presenti nel territorio tutela ambientale e fruizione attraverso metodi educativi.

Saint-Louis, la “Venezia d’Africa”, la vecchia capitale del Senegal che ha saputo conservare l’antico splendore coloniale nonostante la povertà, dista poco più di un’ora di macchina dal Parco di Djoudj, uno dei principali santuari dell’Africa Occidentale per gli uccelli migratori. L’area rappresenta la prima zona di rifornimento d’acqua, dopo un percorso di oltre 200 km sopra il deserto del Sahara, per intere colonie di volatili. Migliaia di fenicotteri rosa qui nidificano regolarmente, così come oltre 5.000 pellicani bianchi, anitre fischiatrici dalla faccia bianca, oche dallo sperone, aironi rossi, nitticore, spatole, cormorani e otarde arabe. In totale quasi 360 specie di uccelli, di cui 58 nidificanti. A cui bisogna aggiungere 92 specie ittiche, e poi coccodrilli, varani, scimmie, facoceri, gazzelle e sciacalli. Gli abitanti che abitano nelle loro adiacenze fornisconoguardie ecologiche che organizzano escursioni nel parco e, grazie al comitato, coordina una serie di strutture legate al funzionamento delle aree protette. I profitti generati dalla gestione turistica (il noleggio delle piroghe, il negozio artigianale posto all’ingresso del Parco, il campement) vengono poi reinvestiti per lo sviluppo della comunità e per il ripristino di aree danneggiate.
A sud di Saint-Louis c’è il Parco Nazionale della Langue de Barbarie, una stretta lingua di terra che corre per 60 km, separando il fiume Senegal dall’oceano Atlantico. I 2000 ettari del Parco danno rifugio a numerose specie di uccelli acquatici come sterne, gabbiani, aironi e garzette. Purtroppo qui l’impatto dei cambiamenti climatici è evidente: ogni anno l’oceano erode cinque metri di costa, 300 famiglie hanno già dovuto lasciare le proprie case. Su questa barriera naturale vivono oggi circa 80mila persone, per lo più di etnia Lebou. Pescatori da secoli, si tramandano le conoscenze acquisite di generazione in generazione: l’oceano è per loro la principale fonte di sostentamento, ma oggi si trovano ad affrontare condizioni sempre più avverse, al limite della sopravvivenza. L’innalzamento delle temperature delle acque e la pesca intensiva praticata dai pescherecci stranieri stanno riducendo disponibilità di risorse ittiche.

La Marmilla è quasi un micro-continente dove si parla una lingua antichissima, popolato di gente asciutta, intensa e arcaica come i suoi monumenti più noti: i nuraghe. Vanta una tradizione agricola secolare: sempre fiorente e gloriosa, tanto che l’Antica Roma considerava la Sardegna uno dei suoi principali granai. Furono proprio i romani a battezzarla optando per  un nome scelto per assonanza: le colline coniche che costellano la campagna sembrano infatti delle “mammelle”.  E’ nei paesini della Marmilla che si celebra il Festival Pedras et Sonus-Tenore. Nato nel 2022, è dedicato specificatamente al canto a Tenore, canto tradizionale sardo patrimonio immateriale dell’Unesco

Rittana: l’arte e la cultura contro lo spopolamento

Fino a Cuneo il paesaggio è uniforme, dominato dalla pianura, ma appena si supera la città la strada incomincia a salire e intorno si aprono boschi quieti e prati brillanti. Fino ad arrivare a un piccolo borgo che colpisce l’attenzione perché propone due campanili. Uno a pochi metri dall’altro. E’ San Mauro, una delle borgate di Rittana, un comune – incastonato tra le creste dei monti in una valle minore a lato della più ampia Valle Stura di Demonte –  che di borgate ne ha addirittura una quarantina. Nel municipio di Rittana, a San Mauro, incontriamo Giacomo Doglio, il sindaco. Ci racconta come nel corso del Novecento le zone montane e collinari della provincia di Cuneo sono state oggetto di un massiccio fenomeno di spopolamento, che perdura a tutt’oggi. E di come lo si possa combattere  utilizzando anche la cultura. Un esempio sono le iniziative del progetto Radis , un progetto nato con l’obiettivo di arricchire il territorio piemontese con un patrimonio di opere di arte pubblica per la comunità, con programmi educativi, incontri pubblici e progetti espositivi che restituiscano alla collettività parte della collezione della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRTMarta Papini, curatrice del progetto Radis, ci illustra la mostra collettiva aperta il 14 luglio nella ex canonica di San Mauro e il progetto dell’artista Giulia Cenci che lavorerà in dialogo con il territorio e i suoi abitanti per sviluppare un progetto site-specific che tiene conto della storia e delle caratteristiche del luogo dove, ai primi di ottobre, la sua opera verrà istallata: il Chiot Rosa. Salendo a piedi su una carrozzabile per una quarantina di minuti, a 1360 metri di quota, si arriva alla Borgata Paraloup , un villaggio di una dozzina di baite posto a 1.360 m di quota nel vallone laterale di Rittana. Oggi è una realtà che offre servizi di carattere culturale, sociale e turistico, dove vivere tutto l’anno un’esperienza di comunità accogliente, solidale e sostenibile. Il vecchio villaggio alpino protagonista della storia della Liberazione, è stato completamente restaurato secondo un progetto architettonico innovativo pluripremiato ed efficientato energeticamente. La borgata Paraloup (toponimo occitano che significa “al riparo dai lupi”) nel 1943 diede ospitalità alla prima banda partigiana di Giustizia e Libertà, capitanata da Duccio Galimberti e che vide il passaggio di personaggi come Dante Livio Bianco, Nuto Revelli, Leo Scamuzzi, destinati a diventare protagonisti della lotta di liberazione. Fu una fucina di libertà, un luogo in cui circa 200 giovani, dell’età media di 20 anni, di ogni estrazione sociale si radunarono da tutto il Paese per ricevere formazione politica e militare in vista della lotta per la liberazione dal nazifascismo e la ricostruzione di un’Italia democratica. Oggi, grazie all’opera della Fondazione Nuto Revelli , la borgata Paraloup è un mirabile esempio di montagna che rivive.

Maranhao

Il Maranhao è  una scheggia di Brasile che inizia dove terminano le ultime propaggini della foresta amazzonica. La sua capitale è São Luis, l’unica città, tra quelle brasiliane, ad essere stata fondata dai francesi. Una città, bagnata dalle acque tiepide della baia di São Marcos e dall’Oceano Atlantico, che si muove con lentezza, perennemente accarezzata dalla brezza del mare, avvolta in un clima piacevolmente caldo. Una realtà che ha spinto i maranhensi ad adottare, come musica ufficiale del proprio stato, i ritmi ipnotici e ripetitivi del reggae. E’ una città prevalentemente abitata da afrodiscendenti, arrivati come schiavi tra gli anni dal 1693 al 1841. A ricordarlo ci pensa il Monumento alla Diaspora Africana nel Maranhão, realizzato per salvare le radici culturali che gli schiavi neri deportati qui in catene, hanno lasciato nella cucina, nella fede, nella danza, nel lavoro e nei modi di fare le cose. Un tentativo, riuscito, di evidenziare il contributo dei neri alla cultura e all’identità del Maranhão.  Parlando dei neri del Maranhão dei neri della regione non si può non evidenziare spazi come i quilombos, che si trovano sulla costa occidentale e nella pianura del Maranhão, e che accolgono una notevole quantità di popolazione nera. Sono insediamenti che hanno origine dalle comunità fondata da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano prigionieri nel Brasile all’epoca della schiavitù e che  costituirono un’importante forma di resistenza alla schiavitù. A São Luís ce n’è uno storico, il quilombo di Liberdade, composto da più quartieri dell’odierna topografia cittadina.
La tradizione più importante della gente del Maranhao sono i festeggiamenti legati alla festa del folclore popolare conosciuta come Bumba Meu Boi. Coinvolge personaggi umani e animali fantastici, e ruota intorno alla leggenda sulla morte e la resurrezione di un bue. Una festività che ha legami con diverse tradizioni, africane, indigene ed europee, incluse feste religiose cattoliche, essendo fortemente associato al periodo delle feste di giugno, in particolare la festa di san Giovanni.
Tra gli appuntamenti organizzati per i viaggi di Radio Popolare c’è quello, nel Quilombo Liberdade, al Barracão de Boi da Floresta dove appena finiscono le celebrazioni del bumba-meu.boi iniziano i preparativi per le celebrazioni dell’anno successivo.
Una meraviglia naturalistica del Maranhão sono le dune delle Lençóis Maranhenses. Una realtà che regala al visitatore uno spettacolo incredibile, unico al mondo. Viste dall’alto, le dune sembrano panni bianchi stesi ad asciugare in un pomeriggio ventoso. Infatti, il nome di questo luogo, Lençóis Maranhenses, significa “lenzuola del Maranhão”. Comunque lo si chiami, è un deserto magico, con ondate dopo ondate di scintillante sabbia bianca. Banchi di pesci argentati nuotano in pozze blu e verdi brillanti lasciate dalle piogge. I pastori guidano carovane di capre sulle dune imponenti. E i pescatori prendono il largo, guidati solo dalle stelle e dai fantasmi di vecchi naufragi. Sembra un mondo parallelo, invece è un parco nazionale di 600 miglia quadrate creato quattro decenni fa per proteggere questo improbabile ecosistema. È come se il mare vicino alle Bahamas fosse improvvisamente apparso come un miraggio in mezzo al Sahara.  Solo che in questo deserto il miraggio è reale.

I figli dei fiori di Ascona

Nel diciannovesimo secolo e nei primi anni del ventesimo il Ticino diventò un passaggio verso sud e una destinazione privilegiata di un gruppo di solitari anticonvenzionali, i quali trovarono nella regione, con la sua atmosfera meridionale, terreno fertile in cui piantare quei semi dell’utopia che non erano riusciti a coltivare a nord. Il Ticino venne così a rappresentare l’antitesi del nord urbanizzato e industrializzato, un santuario per qualsiasi tipo di idealista. Dal 1900 in poi il monte Monescia sopra Ascona diventò un polo di attrazione per chi cercava una vita “alternativa”. I fondatori giunsero da ogni dove: la pianista Ida Hofmann dal Montenegro, Henry Oedenkoven da Anversa, l’artista Gusto Gräser e il fratello Karl dalla Transilvania. E poi anarchici, letterati, ricercatori, ballerine… Uniti da un ideale comune, si insediarono sul Monte Monescia, che ribattezzarono Monte Verità . Vestiti con gli indumenti “della riforma” e con i capelli lunghi, lavorarono giardini e campi, costruirono spartane capanne in legno rilassandosi con l’euritmia e bagni di sole integrali, esponendo i loro corpi a luce, aria, sole e acqua. Una sorta di comunità di figli dei fiori, in anticipo di decine di anni dagli hippies degli anni ’60 del secolo scorso.
Per certi versi ‘figli dei fiori’ anche la baronessa  Antoinette Fleming St. Léger e Max Emden, storici proprietari delle Isole di Brissago . Alla prima, che con il marito nel 1885 aveva acquistato le isole sul Verbano, si deve la nascita dell’attuale giardino visitabile sull’Isola Grande. Fu lei a darne inizio alla creazione,  portando terra fertile, costruendo viali e, seguendo la moda del tempo, piantando specie rare ed esotiche, come ad esempio eucalipti e palme. Il secondo, che nel 1927 rilevò la proprietà delle isole, nonostante non fosse un grande appassionato di botanica, decise di conservare e ampliare il giardino ideato dalla baronessa. Gli eredi di Max Emden vendettero le Isole di Brissago che diventarono di proprietà pubblica. Nacque così l’allora Parco Botanico del Cantone Ticino che aprì al pubblico il 2 aprile 1950. Attualmente su una superficie di 2.5 ettari si contano più di 2’000 taxa provenienti dai biomi a clima mediterraneo e subtropicale di tutto il mondo: il bacino del Mediterraneo, la regione del Capo in Sudafrica, la costa californiana, le coste sudorientali dell’Australia e la zona centrale del Cile. Oltre alla ricostruzione di questi ambienti, che sono tra i più ricchi al mondo in termini di diversità botanica, sono inoltre presenti diverse collezioni tematiche.
Figlio dei fiori è anche Yuri Catania , artista italo svizzero che in occasione del 40esimo anniversario di JazzAscona ha realizzato un percorso che dalle sale del Museo Comunale d’Arte Moderna prosegue nelle vie di Ascona dove arte e musica sono le grandi protagoniste. Si chiama Jazz off the wall ed è un’installazione urbana di street art composta da una quarantina di opere applicate sui muri di svariati edifici pubblici e privati con la tecnica della paste-up. Grazie alla realtà aumentata, ogni opera prende vita regalando un’esperienza multisensoriale tramite brevi filmati realizzati dall’artista per svelare, come attraverso una finestra, la vita delle persone ritratte nella loro quotidianità. Perchè anche Yuri figlio dei fiori? Guardate le sue opere sui muri di Ascona…
Myswitzerland      Ticino

In Serbia con Radio Popolare

Con Eugenio Berra raccontiamo il viaggio in Serbia di Radio Popolare (16-24 agosto). Nove giorni dal nord al sud della Serbia. Belgrado, la vecchia capitale della Jugoslavia, crocevia di civiltà e imperi come quelli Austro-Ungarico e Ottomano, risorta dai conflitti degli anni ’90 e dal tragico bombardamento NATO. La Serbia sud-occidentale, la vecchia Raška medioevale, culla della spiritualità serba. La Vojvodina, provincia autonoma della Serbia, di impronta austro-ungarica: Novi Sad, cittadina danubiana famosa per la fortezza di Petrovoradin, Sombor e la riserva naturale “Gornje Podunavlje”, inserita tra i siti Natura 2000. Lo sconfinamento in Romania: Timișoara, capitale del Banato rumeno. Lo storico Milovan Pisarri illustra i recenti cambiamenti vissuti da Belgrado, mentre Gaia Grassi ci racconta dell’escursione in barca lungo i canali che uniscono Sombor al Danubio (e relativo bagno). E poi le musiche (dagli ottoni alle csárdás ungheresi sino ai repertori klezmer e sefardita, testimoni della centenaria presenza ebraica a nord e sud del Danubio), i cibi e la rakija che si degusteranno durante il viaggio…
Angelo Moretti, ideatore del movimento pacifista MEAN Movimento Azione europeo (projectmean.it), un progetto specifico di promozione della pace e di assistenza umanitaria in Ucraina, ci racconta della missione a Kiev del prossimo 11 e 12 luglio. Una missione è aperta a tutti (Per approfondimenti: corpicivilidipace.it ).  L’idea principale del movimento è quella di preservare il potere trasformativo della nonviolenza attiva all’interno dello scenario di conflitto.
Stefano Brambilla presenta MAPPE, una nuova collana del Touring Club Italiano . Ogni volume di MAPPE è contemporaneamente un libro e una rivista, dedicato a un tema di volta in volta diverso, che possa spiazzare e sorprendere. Il primo numero è dedicato ai “confini”. I confini muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Segnano la geografia, l’esperienza, il linguaggio, la politica con la sua spesso assurda cartografia, l’io con la pluralità, la società con le sue divisioni, lo spazio reale e la vita digitale, le possibilità di vita di animali e piante, gli spostamenti…

Lo stato di salute delle Alpi

“Per ragioni che la scienza non capisce ancora del tutto, le Alpi si stanno riscaldando più velocemente di altre parti del mondo. Ed è da qui, da un cambiamento climatico sotto gli occhi di tutti, che deve partire qualsiasi discorso riguardante il presente e il futuro della principale catena montuosa d’Europa, una torre d’acqua da cui dipendono le risorse idriche del continente. Dalla chiusura degli impianti sciistici alla costruzione di centrali idroelettriche, dal ritorno della grande fauna carnivora all’epidemia di bostrico che decima i pecci, le sfide che questa grande e varia regione deve affrontare sono presagi di fenomeni che investiranno tutto il mondo: la fine di modelli economici, i difficili compromessi della transizione energetica, gli eventi climatici sempre più estremi, le nuove opportunità. Visto che la soluzione a problemi globali spesso tocca trovarla localmente, le Alpi, con la loro estrema diversità culturale, economica e sociale, offrono terreno fertile per sperimentazioni e idee innovative, a patto che cambi lo sguardo con cui le osserviamo. La Rivoluzione industriale ci ha dato in eredità sia la visione romantica di un luogo nobile e immobile da preservare a tutti i costi, sia quella capitalistica di una regione da sfruttare come parco giochi per cittadini nel weekend. Possiamo liberarci da entrambi questi approcci solo provando a guardarle da dentro, dimenticandoci momentaneamente dei picchi e concentrandoci sulle valli, i valichi e i versanti delle montagne, vederle come luoghi alternativi di produzione di valore, dove la sostenibilità è impressa nel paesaggio per necessità.  Soprattutto, è il turismo legato alla sempre più precaria neve che deve rinnovarsi, perché la monocoltura dello sci non cannibalizzi le risorse (idriche, energetiche, paesaggistiche, economiche e fiscali) che potrebbero invece essere usate per creare e promuovere altri modelli di sviluppo. Cambiare in continuazione è il destino delle Alpi, e cambiare con loro è quello di chi le abita. Una sfida continua che dà spazio a epopee e grandi imprese, che sia la costruzione di un rifugio oltre i quattromila metri, l’epico viaggio di un lupo alla ricerca della sua Giulietta, il tentativo di piantare la vite sempre più in alto, o la paziente, decennale rigenerazione di un borgo quasi abbandonato” (The Passenger).
Ne parliamo con Marco Agosta, editor di The Passenger, il cui ultimo numero è dedicato alle Alpi. Intervengono anche Maurizio Dematteis, ricercatore, giornalista e direttore dell’associazione Dislivelli; Paolo Paci, direttore di Meridiani Montagne e scrittore (recentemente uscito il suo nuovo romanzo: “La montagna delle illusioni” – Edizioni Piemme, qui presentato); Elisa e Livio, gestori da più di vent’anni del Rifugio Bagnour, presso il Lago Bagnour in una radura nel cuore dell’incantevole bosco dell’Alevé (Val Varaita), a 2017 metri sul livello del mare.

Cremona: dove nascono solo Archi Star…

Cremona è da sempre la città dei liutai. Qui ha vissuto e lavorato Antonio Stradivari, uno dei liutai migliori che siano mai esistiti. E, qui, vivono e lavorano centinaia di liutai ancora oggi. Così, in ogni angolo della città si respira musica e legno. Ma c’è una via dove la musica si può anche vedere. E’ via Robolotti: in poco più di 80 metri convivono una serie incredibili di botteghe di liutai. Attraversandola si sentono concerti di violini sparsi, provenienti da dietro le porte delle botteghe, dove i musicisti stanno suonando e provando gli strumenti costruiti su misura per loro. Così gli spartiti di Vivaldi si mischiano a quelli di Paganini e via Robolotti è il teatro di un concerto sempre unico. Qui si respira il profumo intenso dell’abete rosso stagionato, proveniente dalla Val di Fiemme, scavato a mano dagli scalpelli di precisione. Ma anche quello di acero e di ebano delle diverse parti dello strumento. Quello dolce delle colle a caldo necessarie per saldare i 75 pezzi che lo compongono. E quello pungente delle resine per la verniciatura…
Ospiti della trasmissione:
.- il mitico liutaio Bruce Carlson, statunitense da anni ‘emigrato’ a Cremona dove gli inizi degli anni ’90, assieme a Bernard Neumann, ha aperto la prestigiosa bottega Carlson & Neumann
.- Fausto Cacciatori, responsabile della conservazione e catalogazione degli strumenti e dei reperti conservati al Museo del Violino
.- Fabrizio von Vornax, direttore artistico di Casa Stradivari
.- Alcuni ragazzi che partecipano alla masterclass di liuteria organizzata da Casa Stradivari
Raccontiamo la storia di Fabrizio Fornara, oggi liutaio a Cremona (ha iniziato a costruire violini nel laboratorio di liuteria del carcere di Opera, dove era incarcerato Era il 2009 e ha cominciato per curiosità, non sapeva nemmeno cosa volesse dire la parola liutaio. E’ diventato uno dei più bravi a forgiare violini. Appena riconquistata la libertà, mentre attraversava la strada, Fabrizio venne investito da una macchina. L’incidente gli lasciò paralizzati per sempre un braccio e le gambe: una seconda prigionia, se possibile più severa della prima. Lui non si perse d’animo…)
 
Special guest della trasmissione i violinisti Mauro Pagani (PFM, Fabrizio de Andrè…) e Francesco Fry Moneti (Modena City Ramblers, Casa del Vento)

Suoni delle Dolomiti

Le Terre Alte sono luoghi dove bellezza e fragilità restituiscono agli umani il senso del limite. In un’epoca di cambiamento climatico e crisi ecologica diventa più fondamentale che mai viverle e goderle senza deturparne la bellezza. Obiettivi, entrambi, da sempre perseguiti da I suoni delle Dolomiti , una rassegna che porta la magia della musica dentro i paesaggi incantati dei Monti Pallidi. Seguendone il calendario si può salire in quota e all’ombra di mitiche vette dolomitiche, scegliersi il proprio “green carpet” dove gustarsi un concerto che miscela i suoni degli artisti con quello degli uccelli e dei grilli. Perchè i suoni (con la “s” minuscola) delle Dolomiti non sono solo il bramito del cervo o il martellio di un picchio, i Suoni (con la “s” maiuscola) delle Dolomiti sono dei set musicali conquistati passo dopo passo, dove la sala da concerto ha il cielo per soffitto e le pareti rocciose come muri. Un paesaggio che contemporaneamente diventa scenografia e palcoscenico. L’edizione 2024 (28 agosto – 29 settembre) prevede 17 concerti, che come sempre non avranno barriere tra pubblico e artisti, e che spazieranno tra diversi generi musicali, dal jazz alla musica classica, con qualche sporadica incursione nel pop. Da Carminho,  porterà la struggente poesia del fado alla Malga Tassulla sulle Dolomiti di Brenta, al cantautore e chitarrista statunitense Micah P. Hinson sulla radura di Prati Col a San Martino di Castrozza. Dalle pugliesi Faraualla alla malga Vallesinella Alta a Madonna di Campiglio a Roberto Vecchioni al rifugio Micheluzzi al Sassolungo. E’ previsto anche un trekking: un viaggio a tappe attraverso il cuore roccioso delle Pale di San Martino. Per l’occasione verrà gettato un ponte tra le montagne del Trentino e le Badland americane, attraverso le parole dello scrittore Paolo Cognetti e le canzoni di Dylan, Springsteen, Johnny Cash e altri, interpretate dalla voce e dalla chitarra di Pietro Brunello e dal violoncello di Mario Brunello.

Questa puntata è realizzata e condotta da Monica Paes