Sarajevo, 30 anni dall’assedio

Trenta anni fa, il 5 aprile 1992, a Sarajevo i cecchini iniziarono a sparare su una folla di dimostranti che manifestava per la pace. Cominciava l’assedio della città, e una nuova guerra nel cuore dell’Europa. In Italia, migliaia di persone si mobilitarono per dare il proprio sostegno alle vittime, portare aiuti, ospitare i profughi. La vittoria dei nazionalisti ha però lasciato una difficile eredità, cambiando profondamente il volto della Bosnia Erzegovina e dell’Europa.

Fa impressione parlare di questo anniversario proprio in questi giorni, quando siamo alle prese con un’altra guerra nel cuore dell’Europa. L’anniversario dell’assedio di Sarajevo coincide con la feroce guerra scatenata da Putin, risvegliando gli spettri della barbara e sanguinaria guerra scatenata da Slobodan Milosevic e dal famigerato generale Ratko Mladic: “Ieri non è mai stato così simile ad oggi”, si legge nella locandina di un evento che si è celebrato a Milano in occasione dell’anniversario. Ma spesso e volentieri, come ha scritto Leonardo Coen sul Fatto Quotidiano,  noi rimuoviamo ciò che è successo ieri e l’altro ieri. Memoria scomoda, quella dei conflitti di civiltà, delle carneficine in nome dell’etnia, le distruzioni vendicative delle secessioni, l’onnipotenza dei sovranismi. Che esorcizziamo ogni volta, ripetendo come un mantra l’ipocrita appello: “Mai più”. E invece, è “sempre più”. Vaglielo a dire, oggi, agli abitanti di Mariupol, o a chi è scampato al massacro di Bucha, che certe cose non dovevano più succedere.

Noi non vogliamo rimuovere nulla. Quando gli ucraini bombardavano i separatisti del Donbass era una guerra. E in quanto tale orrenda. I russi che invadono l’Ucraina è una guerra. E in quanto tale orrenda. Perchè le guerre come eredità, inevitabilmente, portano le Srebrenica e le Bucha. Noi non vogliamo rimuovere nulla di quello che sta succedendo oggi, e nemmeno di quello che è successo dal 2014 nelle regioni russofone dell’Ucraina. E non vogliamo rimuovere nemmeno quello che è successo a Sarajevo trenta anni fa. Con gli ascoltatori di Radio Popolare abbiamo organizzato più di un viaggio in Bosnia, dove la tappa di Sarajevo coincideva con una serie di incontri con chi quella guerra l’ha vissuta. E’ il caso di Kanita Fočak, architetto, interprete giudiziario per la lingua italiana e per la lingua bosniaco-croata-serba. Sarajevese di origine dalmate, con nonni veneziani, sposata in prime nozze con un serbo ortodosso, in seconde nozze con un mussulmano, madre di due figli, vittima diretta dell’assedio di Sarajevo che l’ha lasciata vedova. Oggi, recuperando una vecchia intervista, abbiamo pensato di farci aiutare da lei per non rimuovere quello che è successo 30 anni fa nella sua città, Sarajevo.

Vincenzo Mantovani recensisce “Un secolo in dieci giorni”, un  libro di Konstanty Gebert (ed. Feltrinelli) che parla dei dieci eventi che secondo l’autore rappresentano tutto il Novecento europeo.

Tra questi l’incendio della biblioteca di Sarajevo.

Idrovia Litoranea Veneta

Un viaggio sulle acque dell’Idrovia Litoranea Veneta, una via d’acqua realizzata dalla Serenissima Repubblica di Venezia negli anni del suo massimo splendore. Grazie ad un sistema di canali artificiali e sfruttando i corsi d’acqua (i fiumi Sile, Piave, Livenza, Lemene, Tagliamento, Stella e Isonzo) e le lagune (Venezia, Caorle, Marano e Grado) già esistenti, collega la Laguna di Venezia con la foce del fiume Isonzo. E’ un percorso  di grande interesse storico e naturalistico, lungo ben 127 chilometri. Non ci sono solamente i canali veneziani, con i loro eleganti palazzi ed il profumo di storia, a rendere meravigliosa la Litoranea, ci sono anche i tanti paesaggi che si incrociano durante la navigazione. A partire dalla conca di Portegrandi, una secolare chiusa della laguna veneziana da cui transitavano i traffici fluviali incanalati lungo il Sile. Lungo la navigazione si possono ammirare paesaggi mozzafiato: solo acqua, natura e uccelli lacustri. Barene, isolotti (imperdibile quello di Martignano, ribattezzato l’Isola della Conchiglie) dove crescono fiori endemici dai quali i produttori locali stanno tentando di fare il miele, riserve naturali come quelle delle Foci del Fiume Stella, raggiungibile solo via mare, o quella di Valle Canal Novo, costituita da una ex valle di pesca di circa 35 ettari.Un viaggio che come colonna sonora ha il silenzio. Luoghi che rimandano agli antichi villaggi dei pescatori e alla tradizionale attività di pesca dei loro abitanti. Si possono ammirare i Casoni, caratteristiche abitazioni dei pescatori in legno e canna palustre restaurati a regola d’arte da esperti impagliatori ungheresi del lago Balaton. Lungo il percorso sono domiciliati alcuni ristoranti raggiungibili solo in barca.  Ed è possibile imbattersi nei luoghi amati da Ernest Hemingway, che qui trovò ispirazione per alcune pagine di “Al di là del Fiume e tra gli alberi”. Geografie care anche ad un altro scrittore: Pier Paolo Pasolini, che amava frequentare la laguna di Grado a tal punto che  nel 1969 decise di girarvi alcune scene del film Medea, una pellicola che aveva come protagonista Maria Callas. E in compagnia del grande soprano (ma anche di altri attori, gente del cinema e amici), dopo aver navigato tra lingue di sabbia, isole e isolette, si spingeva spesso sino a Mota Safon, un ‘casone’ piantato in mezzo alla laguna, isolato e fuori dal mondo, frequentato tutto l’anno da numerosi cigni, e in inverno anche da anatre e germani reali. La navigazione avveniva a bordo dell’imbarcazione da pesca Edipo Re, che il pittore Giuseppe Zagaina metteva a disposizione del suo amico Pasolini. Oggi trasformato in un piccolo museo dall’Associazione Graisani di Palù , Mota Safon ospita una classica abitazione dei pescatori locali, costruita in legno e canne palustri, intessute secondo una tecnica antichissima. Un perfetto luogo fuori dal tempo che, non a caso, Pasolini scelse per fare da sfondo alla tragedia senza tempo di Medea…

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“Calze blu”, le libere viaggiatrici

“Alle donne per molti anni era stato impedito di viaggiare e nel caso in cui si fossero apprestate a questa esperienza avrebbero dovuto giustificarsi, motivando la propria scelta: seguire il marito (magari in viaggio di nozze o in missioni lontane, nel caso di mogli di religiosi o di militari), assistere un parente, necessità di risparmiare (…), bisogno di rimettersi in salute, arricchire la propria cultura, e nel caso di viaggi in zone remote della terra, migliorare le condizioni degli indigeni e contribuire alla loro civilizzazione. Fino alla seconda metà dell’Ottocento una viaggiatrice era parte di una minoranza e rappresentava un’anomalia e se viaggiava da sola era etichettata come un’eccentrica e il suo viaggio era giudicato una stravaganza, un’impresa bizzarra fuori dal comune. Le giramondo erano, ironicamente, definite ‘Calze blu'”. Carmen Rita Pantano.

Questa puntata è dedicata alle ‘Calze blu’ di oggi. Lo facciamo con Iaia Pedemonte, autrice con Manuela Biolchini, autrice di “La nuova guida delle libere viaggiatrici” .  Una guida per tutte le donne che amano viaggiare in ogni stagione, libere e sicure, da sole o in compagnia. Una selezione di viaggi, mete ed esperienze con un’anima femminile, uniche e originali, in Italia e nel mondo, per single, amiche di valigia, mamme e famiglie, nonne e nipoti. Dall’India al Perù, dal Madagascar all’Iran, da Parigi all’Islanda, dal lato femminile delle città d’arte ai rifugi gestiti da donne in Italia. 50 “avventure umane”: cammini e percorsi ciclabili nella natura, percorsi alla ricerca del silenzio interiore, sfiziosi soggiorni enogastronomici, raffinati itinerari artistici e culturali, esperienze con le contadine e le artigiane nel Sud del mondo, workshop di tecniche ancestrali e perfino shopping intelligente (a titolo esemplificativo Luigia Salino di Insolitaguida ci racconta delle geografie letterarie che fa conoscere durante le sue passeggiate napoletane).

Renata Kostner Pizzinini, preziosa testimone di come si è sviluppato il turismo in Val Badia ed autrice di “Un capitolo di storia del turismo in Alta Badia“, un tomo di oltre 600 pagine scritto a quattro mani con Werner Pescosta (ediz. Uniun di Ladins Val Badia, 2019), e Marina Rubatscher, titolare di un allevamento di mucche, ma anche di un albergo, ci parlano del ruolo delle donne nell’offerta turistica di una splendida meta dolomitica come la Val Badia .

Cerco Adriano tutto l’anno

L’ingresso nel quartiere è salutato da tre murales dell’artista Pablo Pinxit. Il primo ritrae Adriano Celentano, il secondo Adriano Olivetti e il terzo l’imperatore Adriano. Il quartiere in questione non può che chiamarsi “Adriano”. Non tutti i quartieri dormitorio di Milano sono nati nel secondo dopoguerra, in un momento in cui la sensibilità urbanistica era vicina allo zero. Alcuni sono sorti anche molto tempo dopo: il quartiere Adriano rientra tra questi. Un tempo qui, proprio su via Adriano, sorgevano i capannoni della Magneti Marelli, una delle più grandi e prestigiose industrie lombarde, chiusa come come molte altre tra gli anni ‘80 e i ‘90. È proprio questa strada a dare il nome alla zona: parte direttamente da via Padova con un ponte sul naviglio della Martesana, per poi andare a nord verso Sesto San Giovanni. La prima parte di quartiere, che dà sul naviglio, è antica e fa parte di Crescenzago vecchia, anche a livello visivo: case di ringhiera, viette strette. Andando avanti la via si allarga – è stata allargata negli anni ‘60 – e si apre tutta la zona nuova. Questa zona è il Quartiere Adriano propriamente detto. E’ qui che, al civico 107, è attivo l’Adriano Community Center Magnete , il secondo dei Punti di comunità de Lacittàintorno : un progetto di Fondazione Cariplo che, in collaborazione con il Comune di Milano, cerca di coinvolgere gli abitanti dei contesti urbani fragili nella riattivazione e risignificazione degli spazi inutilizzati o in stato di degrado, per migliorare la qualità della vita e creare “nuove geografie” cittadine. Un innovativo community hub, nato con il lavoro della cooperativa Proges insieme a 28 soggetti, che propone un modello di integrazione unico tra spazi di cura – una parte della struttura è adibita, infatti, a residenza sanitaria assistenziale per anziani – e luoghi aperti di cultura, relazione e socialità. La futura Rsa è ora utilizzata come Hotel Covid gestito dalla cooperativa Proges (al momento sono 61 le persone accolte, e da novembre 2020 a oggi, ne sono passate 1.650; porte aperte anche ai profughi afghani). Tra le attività già attive dentro il PuntoCom ci sono i laboratori di robotica educativa di OFpassiOn ideati da Valeria Cagnina, giovane star della robotica. Mentre i lavori per i tre murales ‘adriani’ sono figli del progetto “Cerco Adriano tutto l’anno“, che attraverso una sorta di referendum ha fatto decidere agli abitanti del quartiere chi ritrarre. Ne parliamo con l’artista (nonchè abitante del quartiere) Eva Martucci di APIS

Una sera che sono andato al Quartiere Adriano per assistere a un concerto presso L’Adriano Community Center Magnete, l’edificio era totalmente immerso nella nebbia. Questo dettaglio mi consente di segnalare un bellissimo libretto dedicato proprio alla nebbia: “La fabbrica della nebbia. Piccolo viaggio sentimentale dentro quel che cancella e svela” di Gino Cervi (Ediciclo Editore, collana Piccola filosofia di viaggio)

Lungo le rive del lago Saimaa

Il lago Saimaa è un complesso di bacini lacustri collegati tra loro, con una superficie di 4.400 km2. Praticamente quanto l’intero Molise. Si trova nella Finlandia orientale ed è costituito da un susseguirsi di pozze e corsi d’acqua contrappuntati da migliaia di isole e isolotti. Nei mesi invernali è in gran parte ghiacciato e a tal proposito lo scrittore Tuomas Kyrö, autore di L’anno del coniglio , ha scritto che “grazie al ghiaccio invernale si può fare quel che solo Gesù ha fatto: camminare sulle acque”. Il tramonto, che da queste parti in inverno coincide con le prime ore del pomeriggio, può essere utilizzato per iniziare a prendere confidenza con i boschi, ovvero la realtà dominante di tutto il territorio che circonda il lago Saimaa.  Le guide di Saima Naturally organizzano delle escursioni nei boschi che circondano Lappeenranta e la vicina Imatra: un’oretta di camminata nella neve, con tappe per essere ragguagliati sulla vegetazione che si incontra e sosta finale sulle rive del lago per uno spuntino con thè caldo e makkara (würstel finlandesi) arrostiti sulla brace. Per chi vuole strafare c’è la possibilità di galleggiare sul lago semi ghiacciato protetto da sgargianti mute stagne. Anche dall’acqua si possono avvistare delle  casette di legno, circondate solamente da una fitta foresta di pini, abeti e betulle. Sono i famosi cottage finlandesi: i mökki. Come ci conferma Liisa Liimatainen, per anni corrispondente dall’Italia per testate finniche, un finlandese doc non può farne a meno. I finlandesi sono molto legati alla natura e amano staccarsi dalla vita quotidiana per passare un po’ di tempo nella quiete della foresta, a volte anche da soli. Talvolta i mökki non hanno una fogna, spesso manca la corrente elettrica ed i comfort sono ridotti al minimo. Quello che però non manca mai è la sauna, il più delle volte alimentata a legna. Così come non manca mai una tazza di caffè: i finlandesi ne sono tra i maggiori consumatori al mondo… altro che ‘na tazzulella a cafè. Altra grande passione è il tango che, nella versione finnica, come ci dice Mirco Mariani degli Extraliscio, ha una natura più rarefatta e posata rispetto a quello argentino. Elegantissima invece la musica diffusa nei locali dell’hotel Punkaharju . E’ un grande cottage tutto in legno, datato 1845, di color  rosa confetto con finestre decorate da trafori in bianco che creano un effetto zucchero filato. Una torretta panoramica consente di capire di essere ‘assediati’ dai boschi, tranne il lato fronte lago. E, poichè fino al 1906 i turisti arrivavano principalmente in battello a vapore, la facciata principale dell’hotel guarda il lago. La padrona di casa è Saimi Hoyer. Ex fotomodella, capelli rossi fiammeggianti, energia incontenibile, in un momento difficile della vita si è chiesta dove stava la bellezza e la risposta l’ha portata qui. Mostrandoci la fotografia di un hygrophorus camarophyllus, il suo fungo preferito, ci confessa che “adoro il suo profumo muschiato. E amo ancor di più questo lago, e non poteva che essere così dato che il mio nome, Saimi, deriva dal suo, Saimaa. Quando alloggio nel mio mokki, poco lontano da qui, per bere uso l’acqua del lago”. Recentemente una rivista scientifica ha scritto che quando l’acqua dolce finirà, per i laghi della Carelia si batteranno le potenze mondiali. L’augurio ovviamente è che non accada mai, e che Saimi, e i suoi ospiti, possano continuare a dissetarsi tranquillamente e  raccogliere funghi… 

 

 

visitsaimaa.fi                 gosaimaa.com                lakesaimaa.fi

visitlappeenranta.fi        hotellipunkaharju.fi

Sport e cultura a Crans Montana

Come risaputo Crans Montana è una rinomata stazione sciistica. Volendo provare un’emozione ‘olimpica’ si può testare la pista dove la Goggia ha vinto la discesa di Coppa del Mondo. E molte sue piste sono ‘colorate’ da murales firmati da stret artist di mezzo mondo (per questa street art senza streets andate qui: onderoad.radiopopolare.it/?p=4159).

Per una esperienza alternativa a Sion si può surfare all’Alaïa Bay (alaiabay.ch): la prima piscina di surf costruita nell’Europa continentale. Più di 8’300m2 dedicati alla pratica del surf, tutti i livelli inclusi. Lo spot ospita anche una scuola di surf, una fabbrica, un negozio di surf e un ristorante con una terrazza panoramica sul bacino. Ma da queste parti si può venire anche per rilassarsi e praticare immersioni culturali. Lo intuì anche il poeta Rainer Maria Rilke, che dopo un periodo nomadico si insediò nel piccolo maniero di Muzot, vicino a Sierre, dove trascorse gli ultimi cinque anni della sua esistenza ultimando, tra l’altro, la scrittura delle celeberrime “Elegie duinesi”. Se per conoscerlo meglio si può fare un salto alla Maison Pancrace de Courten dove ha sede la Fondazione Rainer Maria Rilke, per capire perché lo scrittore e poeta vallesano Maurice Chappaz sia una delle più autorevoli voci letterarie della Svizzera francofona basta leggere il suo pamphlet «Les maquereaux des cîmes blanches» («I magnaccia delle cime bianche»), nel quale nel 1976 puntò l’indice contro gli speculatori immobiliari e i politici corrotti. Fu un grande scandalo con una grande risonanza in tutto il Vallese. Chappaz merita però di essere conosciuto anche fuori dalla sua terra: la montagna e la natura costituiscono i suoi temi prediletti ed utilizza la poesia come arma per difendere l’ambiente, descrivendo le violazioni di cui è vittima. In difesa della cultura di una minoranza etnica, gli aborigeni austrialiani, si schiera “Breath of life”, una mostra in cartellone sino al 17 aprile alla Fondation Opale di Lens. La mostra ha l’ambizione di far conoscere ai visitatori lo yidaki, più comunemente noto con il nome di didgeridoo, strumento emblematico dell’Australia aborigena. Lo yidaki, che risale ad almeno 1.500 anni fa, è un marcatore culturale e spirituale intimamente legato alla storia e alla terra del popolo yolŋu. Installazioni immersive, concepite appositamente per questa mostra da artisti yolŋu, combinano sculture, suoni e video mapping, proponendo così un viaggio tra luoghi sacri e arte contemporanea.

Interviste raccolte, in gran parte, da Margherita Redaelli. Un grazie anche alla nostra prof di sci, Marta Spadacini, per la scheda sulle piste di Crans Montana.

 Info:  valais.ch/it          crans-montana.ch/it

Viaggio nelle geografie di James Joyce

“A James Joyce piaceva che i libri fossero stampati il giorno del suo compleanno. Conosceva la povertà, l’estasi del fallimento, aveva problemi di vista, beveva. Alcune fotografie lo ritraggono con una benda sull’occhio sinistro: ha il profilo dandy, la giacca sdrucita, bianca, la cravatta a farfalla, questo corsaro della letteratura. Il 2 febbraio del 1922 è una data storica fin nel gheriglio della cifra – 2/2/22 – che sa di arcano, di apocalittico, una vasca fitta di demoni, Joyce faceva quarant’anni, la Shakespeare and Company, la libreria editrice parigina di Sylvia Beach, aveva pubblicato Ulysses” (Davide Brullo)

Nell’approssimarsi del centesimo di questa data – 2/2/2022 – Onde Road propone un viaggio nelle geografie di Joyce. Claudia Torresani, cultrice del pedale, ci porta in bicicletta tra le strade di Dublino. Partenza dal museo MoLi, il Museum of Literature Ireland : dedicato alla letteratura irlandese, custodisce la copia numero 1 del romanzo. Tappe presso la (ex) farmacia Sweny’s dove Leopold compra per Molly la saponetta al limone e a The National Museum, dove Bloom si nascose per evitare incontro con l’amante della moglie.  Pausa ristoratrice al pub Davy Byrnes , dove Leopold Bloom pranza con il famoso panino al gorgonzola, accompagnato da un bicchiere di Borgogna. La baia di Dublino è bellissima e con pochi minuti di treno si raggiungono piccoli borghi marinari che sono un incanto. Legato a Joyce c’è Sandycove, dove sono ambientate le scene iniziali del libro e in cui è presente la Martello Tower: nel romanzo ci abita Dedalus e Joyce ci trascorse realmente qualche notte nel 1904.

Per chi nell’immediato non riesce a raggiungere Dublino, Riccardo Cepach, direttore del Joyce Museum di Trieste  ci accompagna nelle geografie ‘giuliane’ dell’autore dell’Ulisse, un’opera intensa che Joyce concepì e iniziò a scrivere proprio a Trieste, sua città d’adozione dove visse per oltre un decennio. Va ricordato che in occasione di questo importante centenario Trieste ha in serbo numerose iniziative per rendere omaggio al profondo legame tra la città e l’autore. Enrico Terrinoni, anglista di pregio e joyciano di platino (dopo quella di una decina di anni fa, ha appena curato una nuova traduzione con testo inglese a fronte dell’Ulisse, edita da Bompiani) ci consiglia dove iniziare a leggere l’Ulisse: al cimitero acattolico di Roma, vicino alla tomba del poeta Shelley, dello scrittore Carlo Emilio Gadda o di Antonio Gramsci.

irlanda.com/joyce

Turismo Irlanda:  ireland.com/it-it

L’ospizio del Gran San Bernardo

Al Gran San Bernardo, una delle regioni più nevose dell’arco alpino, l’inverno non è solo una stagione, ma uno spazio insieme ludico e spirituale. Per chi ama la natura e il silenzio. Per sincerarsene basta armarsi di sci e pelli di foca (o di ciaspole) ed andarci. Se oggi collega Valle d’Aosta e canton Vallese, nei secoli ha unito regni e confederazioni, ed è stata una delle più importanti vie di accesso all’Italia dall’Europa occidentale. Ed è proprio sulla cima del colle, a 2.473 metri d’altezza, che si staglia l’Ospizio del Gran San Bernardo . Le sue fondamenta sono state costruite utilizzando i lastroni di pietra squadrati con cui i romani eressero, nell’anno 18 a.C, l’antico tempio dedicato a Giove, è stato aperto dall’arcidiacono d’Aosta Bernard de Menthon a metà dell’anno Mille e divenne la sede di una comunità religiosa fondata sul principio dell’ospitalità. Dopo ogni bufera, si scendeva sia sul versante italiano che su quello svizzero, alla ricerca di pellegrini o viaggiatori dispersi nella tormenta e, sino alla fine del secondo conflitto mondiale, l’ospitalità era totalmente gratuita.  Ancor oggi il nome del viandante non viene registrato e nella porta dell’ospizio non c’è una chiave. I padroni di casa, i canonici, non sono monaci: vivono in contatto permanente con il mondo esterno  e accolgono tutti a prescindere da quale sia la loro religione. D’altra parte il loro motto, ancor oggi leggibile su una parete del rifugio, è “Hic Christus adoratur et pascitur”: Qui Cristo è adorato e nutrito. Chi arriva qui adesso non lo fa più per necessità, salvo poche eccezioni. Come qualche africano che, arrivato in Italia via mare, cerca di raggiungere il nord Europa facendo il percorso inverso di Annibale. Oggi all’ospizio arrivano escursionisti che praticano lo sci fuori pista o impegnative passeggiate con le racchette da neve. Ma, dato che da qui passa il cammino che raccorda Canterbury con Roma, è la meta di pellegrini che seguono la via Francigena . Ma più semplicemente ci arrivano anche persone che oltre a un letto e a una zuppa bollente, vogliono provare l’esperienza di vivere qualche giorno dentro a un luogo dello spirito.

Se i canonici sono lì da un migliao di anni, i famosi cani San Bernardo ci vanno solo per le ‘ferie estive’. Traslocati dall’Ospizio, oggi vivono in un allevamento a Martigny di proprietà della Fondation Barry . Sono una trentina (per la precisione 27 femmine e 5 maschi).  Storicamente il loro lavoro, grazie alla mole imponente, consisteva nell’aprire le piste nella neve fresca per aiutare i pellegrini. Oggi è cambiato, anche se continua ad avere una valenza sociale. Visite in  case di riposo, carceri e scuole, pet teraphy, coaching, pedagogia con animali… Per incontrarli dal vivo basta andare a Barryland , nelle adiacenze dell’anfiteatro romano di Martigny. Qui i visitatori possono immergersi nella storia del cane nazionale svizzero e avere l’opportunità di ammirare dal vivo i San Bernardo durante il gioco, il riposo e l’addestramento.

 

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Ora e sempre… geografia

Una puntata dedicata agli insegnanti di geografia, una materia attualmente emarginata dai programmi scolastici.
Stefano Brambilla ci parla dell’Atlante Mondiale del Touring Club Italiano (Touring Editore): 250 pagine di cartografia geografica,
con scale mirate a una chiara rappresentazione del territorio, dal locale al globale la sezione tematica racconta le principali dinamiche
geopolitiche e geoeconomiche in atto e le complesse relazioni uomo-ambiente. Uno strumento indispensabile per
conoscere la Terra, nei suoi elementi fisici, politici, geografici e antropici. Un elemento utilissimo per leggere gli eventi che accadono e comprendere
la complessità delle dinamiche che li determinano.
Albano Marcarini, illustrandoci il suo “Atlante Inutile del Mondo” (Hoepli Editore), ci guida attraverso un repertorio cartografico
di anomalie geo-politiche passate e presenti, collegate tra loro dal filo rosso della sua memoria e delle sue esperienze personali creando una narrazione che intende spingere i limiti della carta topografica oltre il classico modello di perfetto documento di consultazione verso una concezione più personale e letteraria di spazio e luogo. Un repertorio di anomalie geopolitiche che raramente hanno avuto un posto nella storia o hanno lasciato un segno nella geografia: repubbliche scombinate, regni effimeri, imprese utopiche, assurdità confinarie, isole perdute o mai nate, città improbabili. Io che sono cresciuto a Metanopoli, scopro con sorpresa che esiste anche Benzinopoli. Da Porkkalanniemi alle Formiche di Grosseto, dalla galleria Rosazza a Semifonte ma anche dall’Isola dei Fagiani alla Caliacra, dall’Hôtel Belvédère all’Isola di Gigha, dai Chevsuri al Buganda, dall’Isola Inaccessibile all’Isola Zero.
A metà tra il mondo reale illustrato nell’atlante del Touring e quello sospeso tra realtà e sogno dell’Atlante di Marcarini c’è l’Underground Railroad, un’ucronia che spiega bene che cos’era e che cos’è il razzismo. Trattasi di una rete informale di itinerari segreti e luoghi sicuri utilizzati nel XIX secolo dagli schiavi afroamericani negli negli Stati Uniti d’America, per fuggire negli “Stati liberi” e in Canada con l’aiuto degli abolizionisti, solidali con la loro causa. Questa originale “Ferrovia Sotterranea” è raccontata nella serie televisiva (in Italia disponibile su Amazon Prime) The Undergound Railroad. Diretta da Barry Jenkins, il regista di Moonlight (3 premi Oscar), e prodotta tra gli altri da Brad Pitt, che era uno dei produttori anche del film, la serie è basata sul romanzo La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, uscito nel 2016. Un libro che, se in Italia non è famosissimo, negli Stati Uniti è decisamente noto (era nella lista dei preferiti di Barak Obama e ha vinto diversi premi compreso il Pulitzer per la narrativa).

Alpe Cimbra

I cimbri sono un antico popolo di origine tedesca, probabilmentedei coloni bavaresi chiamati dai feudatari imperiali per lavorare nei boschi (pare che, nella loro lingua, boscaiolo si dicesse tzimbar). In Italia arrivarono intorno al XII° secolo e si stanziarono sulle montagne del Nord-est, sparsi tra la Lessinia veronese, l’altopiano di Asiago e in Trentino su quella che oggi chiamiamo Alpe Cimbra. Folgaria, Lavarone e Luserna sono le principali località dell’ Alpe Cimbra, che alterna rilievi di oltre 2000 metri a pascoli, boschi e torrenti cristallini. Ci sono un paio di percorsi, percorribili anche d’inverno con le ciaspole, che restituiscono il fascino dell’Alpe.

Il respiro degli alberi”, è un percorso di arte e natura del Comune di Lavarone (lungo 2.4 km, da ripetere al ritorno). Poco distante dagli abitati di Lanzino e Chiesa, in località Tomazol, è una mostra permanente nel bosco che racconta la vita silenziosa degli alberi. Ogni opera è una riflessione discreta che si fonde con quanto ha intorno: un omaggio, una caratteristica funzionale o “spirituale” dell’albero, autentico elemento di vita nell’ecosistema. Una escursione che regala scorci paesaggistici sulla Vigolana, sulle Dolomiti di Brenta, sulla Val Centa e sul Lago di Caldonazzo.

“Il sentiero dell’acqua” invece è una passeggiata nella quale protagonista assoluta è l’acqua del torrente Astico. Bacheche illustrative, collocate in prossimità dei punti di interesse, raccontano della secolare attività che ha visto intrecciarsi la vita del torrente con le vicende dell’uomo.
L’illustrazione del sito archeologico della Cógola racconta degli antichissimi cacciatori del Paleolitico che nell’Astico si dissetavano e pescavano; poi la descrizione del misterioso mulino della Porta del Leon, munito anche di officina, di cui sono rimasti i ruderi, così della segheria idraulica de l’Erardo e della la «Calchèra», la fornace un tempo utilizzata per la produzione della calce. Infine, a Cùeli, il bellissimo Mulino Cuel, con annesso forno del pane. Per ritemprarsi l’ideale è una sosta al Maso Guez dove in compagnia del pastore Serafino è possibile consumare un’eccellente degustazione di formaggi di capra.

Info:  visittrentino.info/it   –   alpecimbra.it

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Val Varaita

Esistono poche montagne sulle Alpi che hanno una silhoutte iconica come quella del Monviso, il monte più cantato da Virgilio e poi da Dante, considerato dai Romani il tetto del mondo.  Probabilmente solo il Cervino può competere con il ‘Re di Pietra’. La Valle Varaita è una delle vallate del ‘Re di Pietra’, 70 chilometri risalendo da Costigliole fino al Colle dell’Agnello, dove una strada panoramica che culmina ai 2744 m del valico la unisce alla valle francese del Queyras. Il Monviso incombe sulla valle, ma la sua vista si perde quando i tornanti della strada principale si inerpicano verso i primi contrafforti. Il suo profilo inconfondibile riappare solo in quota, per regalare panorami indimenticabili. Sono numerose le tappe che consentono di fotografare la vita di chi ha deciso di restare (o di stabilirsi) lungo questo segmento delle pendici del “vesulus pinifer” declamato da Dante. Roberto, Paola e le loro tre figlie nel 2004 hanno aperto un laboratorio dove lavorano piante come l’achillea millefoglie, la rosa canina, il biancospino e il tiglio, che crescono sui ripidi pendii intorno alla loro casa. “Siamo figli d’arte” ci confessa Roberto “la tradizione erboristica familiare risale infatti all’800”. Rossana, una delle figlie, ci spiega come lavorano: “Per scelta non coltiviamo le erbe officinali in maniera intensiva, anche se dallo scorso anno abbiamo piantato qualche filare di elicriso italico, menta piperita, camomilla e lavanda angustifolia. La nostra è una piccola realtà che lavora per mettere sul mercato prodotti di altissima qualità. Abbiamo una filiera veramente corta: dalla materia prima si passa, dopo la lavorazione, direttamente al consumatore”.  A Melle una crew di ragazzi è riuscita a realizzare un sogno rivoluzionario: non scappare all’estero, ma provare a riqualificare il territorio producendo una birra artigianale che invitasse a bere bene. A Bellino, in  Borgata Celle, ci si può regalare una cena alla Locanda L’Enventòour . Il nome della locanda arriva da una parola occitana che significa “sgrana cereali”. Mangiare da Ennio, Monica e Briga (quest’ultimo è il cane di casa) è un’avventura stimolante: trattasi di una cucina di frontiera, radicata nel territorio, ma influenzata dai venti del mediterraneo provenzale. Una cucina che coniuga la semplicità dei gesti di un tempo con le nuove tendenze gastronomiche (a cui bisogna aggiungere la conoscenza di botanica montana da parte dei gestori che organizzano corsi di raccolta e utilizzo delle erbe di montagna). Una tappa a Chianale consente di scoprire un villaggio dal cuore d’ardesia, con i suoi tetti di lose, le sue pietre, i suoi legni, le vecchie travi. Situato a 1800 metri d’altezza e posto al riparo dalle valanghe, è diviso in due agglomerati dal torrente Varaita. Attraversato dallo Chemin Royal (la strada del sale) che portava in Francia, il borgo fu terreno della guerra di religione che contrappose calvinisti e cattolici. A testimonianza restano due differenti chiese cristiane  e terribili pagine di storia che andrebbero studiate per evitare che gli uomini ripetano atti che di spirituale non hanno nulla. Addentrarsi nel Bosco dell’Alevè consente di scoprire un bosco antichissimo (le origini si fanno risalire alle grandi glaciazioni del quaternario) menzionato sia nell’Eneide di Virgilio che nella Historia Naturalis di Plinio il Vecchio. Partendo dal ponte sul rio Vallant in un’ora e mezza di cammino, e dopo circa 400 mt di dislivello, si arriva al  lago Bagnour, sulle sponde del quale sorge l’omonimo Rifugio Bagnour , un ‘caldo’ rifugio alpino da anni gestito con passione da Elisa e Livio.

Ente di gestione delle aree protette del Monviso. L’Ente Parco, nato nel 2016, gestisce alcune Aree protette regionali e varie Zone Speciali di Conservazione facenti parte del sistema europeo della Rete Natura 2000.  I territori protetti si estendono dalla pianura cuneese fino alla cima del Monviso e conseguentemente abbracciano una grande varietà di ambienti in cui vivono moltissime specie animali e vegetali, alcune delle quali, in tutto il mondo, sono presenti solo qui.

parcomonviso.eu   facebook.com/parcodelmonviso  instagram.com/monvisounesco

Area della biosfera del Monviso. La Riserva della Biosfera del Monviso è una riserva transfrontaliera tra la Francia e l’Italia, che include una parte nazionale in Italia denominata

“Area della Biosfera del Monviso” e la “Riserva della Biosfera del Mont-Viso” per la parte nazionale francese. unesco.it/it/RiserveBiosfera   monviso.eu/mab/ita/biosferamab.aspx

Le donne del Parco Nazionale del Gran Paradiso

 

“Osserva bene il sedere bianco di quel capriolo, può salvare la vita a molti suoi consimili. Quando si sente spaventato il suo “specchio anale” aumenta di dimensioni fungendo in questo modo da segnale visivo per i conspecifici mettendoli in allarme. L’andamento con salti e grandi balzi consente di mostrarlo al maggior numero di caprioli possibile…”. Che il lato B di un ungulato, dedito al twerking come Elettra Lamborghini, fosse un campanello d’allarme per i suoi consimili è una delle scoperte che devo a Serena, una delle 19 guide ufficiali del Parco Nazionale Gran Paradiso. Seguire con lei, armati di ramponcini sugli scarponi, i sentieri innevati del parco è come camminare dentro un libro incantato che ti svela inaspettate meraviglie della natura. Per esempio ci si rende conto che il riscaldamento globale sta colpendo anche qui (il Parco negli ultimi 200 anni ha perso 58 kmq di ghiacciai). Basta osservare piccoli segnali naturali.  Alcuni uccelli che in genere vivono in luoghi urbanizzati, come la cornacchia grigia e la gazza, a causa dei cambiamenti climatici si sono alzati di quota e ora svolazzano anche nel parco, dove mettono a rischio l’esistenza dei pulcini di alcuni uccelli che da sempre vivono qui. “Ed è per questo” ci spiega “che le guardie forestali stanno costruendo, per mettere in sicurezza i pulcini, delle casette dove si possono riparare senza diventare materia prima di un lauto pasto…”.  Altrettanto affascinante l’incontro con la signora Guerrina. Con lei si ha la conferma che nelle vallate montane spesso la cifra comune è la solidarietà. “Ho ottant’anni e la mia vita l’ho passata qua, in Val di Rhêmes“. Da sessant’anni lavora nell’albergo che la famiglia del marito gestisce dal 1928 ed è diventata una testimone vivente dello sviluppo turistico della valle. “Ci sono arrivata da sposina e non mi sono più mossa da qui”. I soldi per aprire l’albergo arrivarono da anni di emigrazione. “L’ha aperto mio suocero dopo aver vissuto a lungo da emigrato in America. Prima in Colorado, e poi a New York, dove ha fatto il taxista. I primi anni sono stati duri” Se prima si emigrava, ora invece c’è chi viene in valle a cercarsi un lavoro. “Da noi” chiosa Guerrina “da dieci anni lavora un ragazzo africano, che ora ha sposato una valdostana e hanno un figlio…”. Anche Paola è una sorta di ‘immigrata’. E’ di Milano e in Valnontey ci andava in vacanza con i genitori. Ha lavorato a Bruxelles e negli Stati Uniti sino a quando ha deciso di rilevare l’azienda del nonno del marito: un piccolo allevamento di bovini. Ci hanno aggiunto delle capre e aperto un caseificio. Una struttura che con il tempo è diventata anche un agriturismo. Barbara invece vive nella casa della bisnonna, che ha parzialmente trasformato in atelier. “Non ho il mito dell’artista, mi basta vivere del mio lavoro di pittrice”. Tra i suoi lavori tanti soggetti legati alla montagna, una biografia pittorica di Walter Bonatti e richiami alla resistenza. Da queste parti infatti è stata scritta una pagina importante della lotta contro il nazi-fascismo, quella della Repubblica Partigiana di Cogne (7 luglio – 2 novembre 1944). Se Serena, la mia guida, conosce a memoria tutti i sentieri del Parco, Lola non era da meno. Lola era il nome di battaglia di Aurora Vuillerminaz, che durante la lotta partigiana guidava i fuggiaschi attraverso i valichi alpini da e per la Francia. L’ultima sua camminata tra i monti è datata 16 ottobre 1944. I repubblichini, grazie a una soffiata, la bloccarono a Villeneuve mentre faceva da guida a un gruppo di antifascisti. Furono tutti fucilati. Pochi istanti prima Lola chiese scusa ai suoi compagni per non essere riuscita a portarli in salvo. Un misto di coraggio e di dolcezza. Un esempio per le donne che stanno facendo vivere le vallate del Parco…

 

Il sito ufficiale del Parco Nazionale Gran Paradiso è www.pngp.it .

Per escursioni all’interno del Parco, in particolare nei mesi invernali, è opportuno farsi accompagnare da una delle sue 19 guide ufficiali ed esclusive (tel. 011 8606233). Sul sito trovate un sistema di ricerca che vi aiuta a trovare la Guida che più si adatta alle vostre esigenze.

Transnistria: viaggio nello stato che non c’è

“La squadra di calcio dello Sheriff gioca in uno stadio che si chiama Sheriff, all’interno di un complesso sportivo che si chiama Sheriff. A costruirlo è stata una ditta edile dal nome a questo punto prevedibile: Sheriff. Sheriff è anche il nome di una catena di supermercati, di un’azienda di telefonia fissa e mobile, di una tv, di tre depositi di petrolio e undici stazioni di servizio, di un megaparcheggio e di un hotel. La Sheriff possiede anche un altro hotel a 5 stelle, che però si chiama Russia, con dentro un casinò che si chiama Sheriff. Se vai su Google Maps, ti posizioni su Tiraspol e digiti Sheriff, compaiono talmente tanti puntini rossi da ingoiare la città, eppure fino al 1993 la Sheriff nemmeno esisteva”. Così ha scritto Roberto Scarcella sulla rivista on line ultimouomo.com. Tisaspol è la capitale della Transnistria, un ‘non stato’ piazzato tra la Moldova e l’Ucraina che vive nel 1991, come se nulla fosse. Qui i simboli del comunismo rimangono sulle bandiere e nei monumenti, ma l’economia – per quanto zoppa e povera – è assolutamente di mercato. Al governo ci sono i dirigenti dello Sheriff. Gli stessi che nel 2000 hanno fondato un partito che è già stato accusato di qualsiasi cosa, dai brogli elettorali al riciclaggio di denaro sporco. Non si chiama però Sheriff, ma Obnovlenie, che vuole dire “rinnovamento”: la prima volta, nel piccolo – e non riconosciuto – Parlamento locale, sono entrati con 7 deputati, vent’anni dopo, nel dicembre scorso, ne hanno piazzati 29 su 33 eletti. Il giorno dell’indipendenza della Transnistria è il 2 settembre 1990. Meno di due anni dopo, nel marzo del ’92 scoppiò una guerra: da una parte i moldavi, dall’altra i soldati di Tiraspol, aiutati – non a caso – dai russi, che all’epoca componevano la maggior parte della popolazione in quell’area (ora sono il 30%). Tra loro anche la famiglia di Nicolai Lilin, lo scrittore del bestseller del 2009, “Educazione siberiana” (un libro che deve essere piaciuto a Gabriele Salvatores, dato che nel 2013 ci ha ricavato un film). Il cessate il fuoco è del 21 luglio del 1992, da quel momento nasce un triplo confine: di qua la Moldavia, di là la Transnistria, in mezzo una terra di nessuno controllata dai soldati europei dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). La Transnistria ha dichiarato la secessione dalla Moldova, ma nessuno riconosce la sua indipendenza (neppure la Russia di Putin, sua grande protettrice). Ed è per questo che lo Sherif, per poter partecipare alla Champions League, gioca nel campionato moldavo, dominandolo senza pietà.

Labirinti

Quello dei labirinti è un mondo tanto segreto quanto immenso. Un universo complesso, pregno di singolarità perché ogni labirinto è un pezzo unico. E’ percorribile, divertente anche se talvolta genera smarrimento. Senza queste caratteristiche il labirinto non sarebbe più tale: avremmo semplici, magari meravigliose, siepi ornamentali di elaborata arte topiaria. La guida del nostro viaggio è  “Labirinti vegetali. La guida completa alle architetture verdi dei cinque continenti” di Ettore Selli (edizioni Pendragon). L’autore ne ha catalogati oltre quattrocento, 420 per la precisione, di cui 188 sono recensiti e illustrati, mentre per gli altri 232 c’è un’ampia tabella con le indicazioni essenziali. Tra i tanti c’è anche il Labirinto Borges: realizzato sull’Isola di San Giorgio (Ve) dalla Fondazione Giorgio Cini . Il progetto è dell’architetto inglese Randoll Coate ed è nato nel 2011 per volere della vedova Borges, Maria Kodama, che desiderava ricordare l’amore del marito per Venezia. Dall’11 giugno, prima di quella data era ammirabile solo dall’alto, è possibile percorrerlo interamente (prenotazioni visitcini.com), muniti di un’audioguida che diffonde una colonna sonora appositamente ideata dal compositore Antonio Fresa: una suite in quattro movimenti eseguita dall’Orchestra del Teatro La Fenice. Un’idea di Ilaria D’Uva che con la sua azienda (duva.eu), attiva dal 1959, opera nell’interpretazione del patrimonio culturale attraverso la tecnologia e nei servizi museali in Italia.

La seconda tappa è al Giardino Labirinto di Kränzelhof, a Cermes, vicino a Merano. Ospitato all’interno dell’omonima tenuta (it.kraenzelhof.it), è nato dal desiderio del proprietario, il Conte Franz Graf Pfeil, di creare un’opera d’arte vivente e quindi mutevole (proprio come il vino prodotto nelle sue vigne).  Ogni anno il Curatorium Kränzel invita artisti di varie provenienze a decorare il giardino seguendo ogni volta un tema differente.

Ultima tappa al Labirinto della Masone , ideato a Fontanellato, nella campagna parmense da Franco Maria Ricci: “Sognai per la prima volta di costruire un Labirinto nel periodo in cui, a più riprese, ebbi ospite, nella mia casa di campagna vicino a Parma, un amico, oltreché collaboratore importantissimo della casa editrice che avevo fondato: lo scrittore argentino Jorge Luis Borges. Il Labirinto, si sa, era da sempre uno dei suoi temi preferiti; e le traiettorie che i suoi passi esitanti di cieco disegnavano intorno a me mi facevano pensare alle incertezze di chi si muove fra biforcazioni ed enigmi. Credo che guardandolo, e parlando con lui degli strani percorsi degli uomini, si sia formato il primo embrione del progetto che finalmente, nel giugno del 2015, ho aperto al pubblico. Quando nacque, il progetto aveva un carattere abbastanza personale. Sulle terre che avevano nutrito, e un po’ anche arricchito, la mia famiglia, volevo lasciare una traccia di me. Col passare del tempo quell’idea primitiva si è in gran parte trasformata. Forse è colpa dell’età, ma ormai vedo il Labirinto soprattutto come un modo di restituire a un lembo di Pianura Padana che comprende Parma, il suo contado e le città vicine, una parte almeno del molto che mi ha dato”. Il labirinto è realizzato utilizzando il bambù,  pianta elegantissima, ma poco utilizzata in Occidente. Lo chef Patron Massimo Spigaroli  gestisce  il Ristorante al Bambù , annesso alla struttura, dove i sapori della tradizione parmigiana vengono contaminati con il bambù…

Viaggio negli stadi

Se unissimo i fedeli delle tre principali religioni monoteiste, probabilmente non raggiungeremmo il numero delle persone che seguono assiduamente il calcio. Ecco perché il calcio non è solo un gioco e gli stadi non sono solo dei campi sportivi: sono lo specchio della realtà in cui sorgono, il termometro culturale della società che li popola e riflettono il contesto storico, sociale e antropologico cui appartengono. Per gli intellettuali della prima modernità, il calcio era legato a una dimensione distopica della vita, un gioco che andava contro natura poiché praticato con i piedi. Il calcio rappresentava un ostacolo all’evoluzione della specie umana (non a caso gli sport delle classi superiori, ad esempio il rugby e il tennis, erano giocati con le mani). Per gli intellettuali engagé, il calcio era uno strumento di distrazione, un’arma borghese che svuotava la vita dell’atleta e del tifoso dall’impegno politico, dal partito e dalla causa rivoluzionaria. Non solo per certi intellettuali del secolo scorso, ma anche per un segmento degli attuali ascoltatori di Radio Popolare. Posizione rispettabile, ma che non condividiamo. Ecco perché oggi faremo un giro del mondo fatto di tappe in alcuni stadi di calcio. Come Lonely Planet utilizzeremo un paio di libri di recente pubblicazione. Il primo è un lavoro di Andrea Ferreri, studioso di culture giovanili e sottoculture. Globetrotter, attivista e agitatore culturale. Il lavoro si intitola “Sugli spalti. In viaggio negli stadi del mondo: storie di sport, popoli e ribelli” (meltemieditore.it). Dal Marakàna di Belgrado alla Bombonera di Buenos Aires, dal Medio Oriente al all’Africa,  il calcio raccontato da Ferreri presuppone la presenza di un pubblico negli stadi. E’ uno sport che produce aggregazione, ma esalta anche l’individualità, uno sport lontano dalle pay-tv e dai diritti televisivi.

Il secondo libro  ci porta a San Siro, lo stadio totem di Milano. Oggi il cielo di San Siro è già cambiato. Dal secondo e terzo anello rosso si vedono i grattacieli di City Life. Sono lampi notturni nell’orizzonte, un affascinante skyline che nessuno dei tifosi, con lo stadio inaccessibile, ha ancora visto. E allora, prima di tornarci, potrebbe essere una buona idea leggersi “C’era una volta a San Siro” (edizpiemme.it). L’autore è Gianfelice Facchetti, figlio del grande Giacinto, regista, attore e narratore di sport. Nelle pagine del suo libro sfilano protagonisti celebrati e dimenticati, derby rosso-nerazzurri, fratelli di campo e fratelli di sangue, gol indimenticabili e gol annullati, notti azzurre, notti magiche o da incubo.

Entrambi i libri evocano un calcio ancestrale, che soddisfa bisogni come l’occupazione del tempo libero e la socialità. Un calcio dove la disciplina e la fatica creavano eroi venuti dal nulla. Un calcio trasmesso di padre in figlio, di generazione in generazione, con il corollario di comportamenti e valori conformi alle aspettative del gruppo e alla cultura di riferimento. Quello che si evince ascoltando dalla sua voce il racconto di quando Giovanni Lodetti cambiò nome per giocare sui prati di periferia o l’epopea di George Best, vissuta percorrendo il George Best Trail a Belfast. Un’esperienza struggente come quella vissuta da Raffaele Kohler quando, in occasione di un derby di Milano, ha suonato la sua tromba in uno stadio vuoto per via della pandemia…