Cachoeira e il Recôncavo Baiano

Il Brasile non è un Paese, ma un insieme di mondi raccolti disordinatamente sotto una stessa bandiera. Una millefoglie, a volte dolce, altre terribilmente amara. Proprio come sa esserlo la vita. Il Nordest è il Brasile sotto radice: una sorta di continente formato da nove stati. Se Brasilia è la capitale, São Paolo potrebbe esserlo e Rio de Janeiro sta in tutte le cartoline,  è il Nordest il cuore e l’anima del Brasile. E’ qui che nel XVII secolo nacque il Quilombo di Palmares, la più importante comunità di schiavi fuggitivi, e alla fine del XIX la comunità utopistica di Canudos. Nel XX secolo la regione diede al Brasile sia il suo musicista più popolare – Luiz Gonzaga – sia il suo più temuto bandito, Lampão. Per capirne l’essenza a Salvador de Bahia abbiamo visitato uno slum in compagnia di Joselito, che nella favela Gamboa Baixa c’è cresciuto. Un incontro fondamentale per depurarci da certi luoghi comuni… Da Salvador siamo partiti verso il Recôncavo Baiano, la regione geografica situata intorno alla Baía de Todos-os-Santos. Dopo 80 km di una autostrada sempre trafficata, ai cui bordi si ergono con nonchalance arditi grattacieli e le misere baracche di sterminate favelas, la statale 420 entra nel cuore di questa regione. L’orizzonte si apre in un paesaggio cinematografico dell’ovest americano, nuvole bianche nel blu, con l’aggiunta di palme. Uno scarabeo bianco scompare sull’asfalto, piantagioni di bambù, quindi eucalipto. E’ una terra fertile, ideale per la coltivazione della canna da zucchero e del tabacco. Ma anche l’area dove la Petrobas, azienda petrolifera statale, cerca di fare bingo con il gas. Superato Santo Amaro da Purificação, il borgo natale di Caetano Veloso, la strada fiancheggia colline lisce, vecchi campi sullo sfondo e nuovi oleodotti. Dopo mezz’ora un arco appare contro il cielo, annunciando “Cachoeira Heroica e Monumento Nacional”. Eroica per aver partecipato alle lotte per l’indipendenza, storica per il patrimonio. Si dice che sia stata fondata da Diego Álvares Correia, un naufrago portoghese del 16 ° secolo adottato dagli indigeni con il nome di Caramuru. Altrettanto mitico è Valmir Pereira dos Santos, noto come Valmir da Boa Morte. Milita in quattro gruppi musicali ed è lui la guida che mi fa scoprire Cachoeira. Con lui ammiro piazze, chiese, case barocche e liberty, abitazioni dalle facciate colorate… Con Valmir visito il terreiro più importante della città: quello frequentato dall’Irmandade de Nossa Senhora da Boa Morte. E’ una Confraternita nata 150 anni fa nelle case degli schiavi locali che offrirono rifugio a quelli fuggiti dalle piantagioni di canna da zucchero, ed è composta esclusivamente da donne di colore. Con la fine della schiavitù, le “sorelle” si avvicinarono alla chiesa cattolica e fondarono l’organizzazione che attualmente è ospitata all’interno di un complesso di quattro edifici di due piani ognuno risalenti al XVIII secolo. Non c’è da stupirsi: nel Recôncavo vige una cultura matriarcale. Da queste parti durante le cerimonie del Candomblè la figura apicale è sempre una donna, la Mãe-de-santo. La donna nera baiana è guerriera, militante, attivista… e come tale ha fatto la Storia. A giudicare dai soggetti di numerose sue opere, dalle donne locali rimase colpito anche un artista tedesco: Karl Heinz Hansen, che dopo aver vissuto da queste parti aggiunse al suo cognome Bahia, diventando Karl Heinz Hansen Bahia. Ha raccolto 13.000 pezzi, tra sculture in legno, oggetti di artigianato, tavole con scena di vita campestre incise a Bassorilievo, personaggi africani, santi e divinità del candomblè che oggi sono archiviati nel la sua casa-officina, la Fazenda Santa Barbara. Le passeggiate con Valmir terminano sempre davanti al Paraguaçu. Da queste parti i fiumi sono molto più di un corso d’acqua. Non a caso la guida che ci accompagnato sulle navigazione del fiume São Francisco, il quarto sistema fluviale per dimensioni in Sud America e il fiume più lungo che corre interamente in Brasile, ci ha ricordato che “è estremamente importante per tutti noi che viviamo qui. E’ come il sangue che ci scorre nelle vene. Questa è una comunità di pescatori e lo era anche in passato. Noi che viviamo qui, i ribeirinhos, facciamo attenzione e abbiamo cura di questa natura come una madre ha cura di suo figlio…”. 

Il viaggio e i contatti che hanno permesso la realizzazione di questa trasmissione sono tutto merito di Miriam Silva ( che sta già lavorando per organizzare un nuovo viaggio nel nord-est brasiliano per gli ascoltatori di radio popolare).

Tre hotel a stelle e strisce

Ci sono luoghi che per qualche misteriosa ragione sembrano poter riassumere in sé l’essenza di una cultura, di una storia, di un mondo talvolta. Il Chelsea Hotel è uno di questi. Un grande palazzo di dodici piani in mattoni rossi, con balconi in ferro battuto e finestre a bovindo, situato al 222 della 23esima Ovest, nella zona di Chelsea, a Manhattan. Questo edificio, appariscente e anonimo al tempo stesso, è il luogo da cui sono partite le fiammate più violentemente creative della musica, della letteratura, dell’arte americana dell’intero Novecento, da Edgar Lee Masters ai Rolling Stones. E anche il luogo dove il sogno visionario più facilmente si è venato di eccessi autodistruttivi. Pionieristico esperimento di vita comunitaria ispirata alle idee del socialismo utopista di Fourier, il Chelsea diviene fin dai primi decenni del secolo scorso un crocevia di artisti di ogni genere e provenienza. Fra i suoi corridoi nascono, lavorano, amano e si consumano generazioni intere di personalità creative, tanto che qualsiasi lista di celebrità sarebbe riduttiva. Antonin Dvorak, Mark Twain, Thomas Wolfe, Virgil Thomson, Gore Vidal, William Burroughs, Allen Ginsberg, Tennessee Williams, Bob Dylan, Janis Joplin, Jackson Pollock, Jimi Hendrix, Joni Mitchell, Leonard Cohen, Patti Smith, Robert Mapplethorpe… Il corrispettivo della costa ovest è lo Chateau Marmont di Los Angeles. Appartato rispetto al traffico di Sunset Strip, celebrato per la miscela di «decadenza, moda, musica, sesso, segretezza e libertà» lo Chateau Marmont domina come una «rocca di Gibilterra» l’agglomerato urbano di L.A. i cui confini ormai si indovinano solo dal satellite. I nomi delle celebrità che lo hanno frequentato o abitato sono tutti quelli che hanno segnato la storia dello spettacolo e della cultura pop dagli anni Trenta a oggi: Greta Garbo, Howard Hughes, Bette Davis, Marilyn Monroe, James Dean, Anthony Perkins, Jim Morrison, John Belushi (che in un bungalow di questo albergo morirà di overdose, dopo un festino durato tre giorni), Johnny Depp, Lindsay Lohan e moltissimi altri. Figure centrali della storia della musica jazz, rock e pop hanno vissuto e lavorato nelle sue stanze, da Duke Ellington a Miles Davis, dai Velvet Underground a Bono, da Beyoncè a Jay-Z, così come i grandi artisti grafici, i fotografi, gli stilisti e i pubblicitari della West Coast.  L’intero, secolare panorama umano americano di sognatori, affaristi e lottatori concentrato in poche centinaia di metri quadrati”. Il terzo albergo non è in una metropoli, ci si arriva in macchina scendendo da Memphis lambendo il Mississippi. E’ il Riverside Hotel di Clarksdale, nelle adiacenze delle rive fangose del Mississippi, dove il sogno americano -a differenza che a New York e a L.A.- è lungi dal diventare anche afroamericano, che si è sviluppato il blues. Dal 1944 il Riverside Hotel ha fornito alloggio a musicisti itineranti. Per alcuni di loro, tra cui Sonny Boy Williamson II, Ike Turner e Robert Nighthawk, era una sorta di casa. Prima di allora, l’edificio serviva gli afroamericani del Delta come ospedale, era la dede del G.T. Thomas Hospital. La cantante blues Bessie Smith, “l’imperatrice del blues”, morì qui nel 1937 per le ferite riportate in un incidente d’auto sulla Highway 61 appena fuori Clarksdale, dove si stava recando per uno spettacolo. Le camere portano il nome degli artisti che vi hanno soggiornato e i clienti possono scegliere la camera in base al nome del loro artista preferito. Tutte tranne una, quella di Bessie Smith che è diventata una sorta di santuario. Sul letto c’è un suo ritratto e se chiudete gli occhi potreste sentire la sua voce…

.- “Chelsea Hotel. Viaggio nel palazzo dei sogni” della giornalista e scrittrice americana Sherill Tippins (Edt, pp. 511, euro 23)

.- “Il castello di Sunset Boulevard. Storia, avventure e segreti dell’albergo più celebre di Hollywood” del critico cinematografico e scrittore Shawn Levy (Edt, pp. 402, euro 24)

Viaggio nei monti arcani

Un viaggio nei mondi fatati delle montagne, tenendo come guida l’Atlante dei monti arcani di Albano Marcarini (ed. Hoepli). Un atlante dedicato alle montagne più suggestive, dall’Olimpo all’Ararat, dal monte Giarolo al Cerro Hermoso: per costruire itinerari ideali e viaggi anche solo con la mente. Da sempre la montagna suscita sensazioni enormi e a volte contrastanti: stupore, meraviglia, potenza, paura o aspirazione, sacralità e vicinanza a Dio, rispetto o conquista, ignoto. Quasi mai indifferenza. Alcune montagne sono circonfuse di un’aura ancora più elevata di quanto la loro altezza geografica riveli. Sono montagne sacre o mitiche o mitizzate o idealizzate. Non vi è regione del mondo che ne sia priva, non vi è popolo che non ne abbia una. E ognuna ha la sua vicenda, la sua narrazione: dimora degli Dei come l’Olimpo, poteri arcani come il Monte Calamita, meta di pellegrinaggio come il Monte Kailas, ultimo rifugio come il Monte Ararat, rivelazione come il Monte Sinai. Sono 88 monti “arcani” nel senso che Leopardi volle dare alla parola: «ciò che per la segretezza o il mistero in cui si avvolge è motivo di fascino o di attrazione». Scritto con il medesimo linguaggio leggero dell’Atlante inutile del mondo, il volume si avvale di tavole cartografiche ad hoc e acquerelli, e presenta un apparato d’appendice che diventa, anche in questo caso, approfondimento e guida per raggiungere le mete. Un viaggio attraverso questi universi arcani è offerto dalla Ferrovia Vigezzina-Centovalli . Una ferrovia che attraversa un territorio variegato (la tratta va da Domodossola a Locarno), in un susseguirsi di gole profonde, montagne selvagge, fiumi e cascate. Una natura prorompente in cui si inseriscono armoniosamente piccoli e caratteristici borghi disseminati tra le Centovalli e la Valle Vigezzo. 52 km di percorso, 2 nazioni, 83 ponti e 31 gallerie da scoprire in poco meno di due ore. Una incursione al Maso Guez , sull’Alpe Cimbra, in località San Sebastiano di Folgaria: il regno del pastore Serafino, ideatore di originali escursioni sulla neve. Non un banale sleddog: le slitte di Serafino non sono trainate da cani, ma dai suoi caproni. Originale anche l’esperienza vissuta da 4 bambine e 3 bambini: un’avventura che nasce da un progetto di educazione ambientale del Family CAI Macherio-Vedano nelle scuole elementari e medie di tre comuni (Macherio, Vedano al Lambro e Villasanta) che ha coinvolto più di 800 alunne e alunni. La loro parte per salvare il pianeta i 7 ragazzini l’hanno fatta ripulendo dai rifiuti la zona ai piedi della Grigna Meridionale attorno al rifugio Porta. Il progetto “Nelle squame di una trota” ha poi dato il titolo a un corto, diretto da Mara Moschini e Marco Cortesi, che racconta l’esperienza vissuta dai 7 eroi in rappresentanza anche dei loro compagni e compagne. Il corto è uno dei numerosi lavori firmati dai due registi, da sempre legati alle tematiche della natura e alla salvaguardia del pianeta (a breve inizierà un nuovo ciclo, da loro curato, di una serie televisiva legata a queste tematiche: Green Storytellers). Per info: www.greenstorytellers.com

Scampoli di Paesi Baschi

La prima cosa con cui ti ‘scontri’ quando arrivi nei Paesi Baschi è la lingua. Avversata dal regime franchista, oggi l’euskera è in bocca a circa 700mila vascoparlantes (o euskaldunes). Tra le migliaia che esistono al mondo, il basco è una delle poche “lingue isolate”, ovvero non imparentate con nessun altra lingua. Misteriosa e difficile, ti fa capire che sei entrato in un mondo altro. Te ne accorgi anche andando al San Mamés, lo stadio dell’Athletic Bilbao . E’ l’unica squadra al mondo alla quale i tifosi non chiedono di vincere, ma semplicemente di (r)esistere. Possono vestire la maglia biancorossa solo i calciatori di origine basca o formati a Lezama (il centro sportivo dell’Athletic) o nelle giovanile di un altro club basco. Una incredibile commistione fra ius soli e nazionalismo pragmatico, una famiglia che non conosce l’esclusione etnica. Se da spettatori si vuole diventare praticanti ci sono le onde del Mar Cantabrico da cavalcare. Oppure nell’entroterra si può raggiungere l’Izki Golf . Sito nel cuore della Montaña Alavesa, vicino al Parco Naturale di Izki, è nato per volontà di Severiano “Seve” Ballesteros Sota, uno dei più popolari giocatori di golf di tutti i tempi. Genio sregolato, una sorta di George Best del golf, ambiva portare sul fairway i ceti popolari. Non a caso, Izki Golf è una struttura pubblica, frequentata dai ragazzi delle scuole pubbliche. Un’oasi naturalistica, circondata da querce, faggi e agrifogli, dove si può praticare anche cicloturismo e birdwatching.  Lo sport preferito dai baschi però resta un altro e si chiama: “Ir de pintxos” (letteralmente “andare di bar in bar a bere e mangiare i pintxos“). Complesse architetture di ogni sapore e colore, i pintxos sono la risposta basca alla tapas (differiscono per l’elaborazione, la complessità realizzativa e l’utilizzo di una gran varietà di materie prime). Sono piccole prelibatezze culinarie che si possono trovare in qualsiasi taverna, una vera e propria “pietanza in miniatura” e per molti versi sono anche creazioni artistiche. Vanno accompagnate una sidra fresca o una bottiglia di Txakoli, un piccolo gioiello dell’enologia basca. È un vino bianco che ricorda queste terre, ha tutti i sapori del mare, è fresco, salato, sferzante e a tratti selvaggio. Per chi ama un vino più strutturato può procurarsi una bottiglia del Crusoe Treasure . E’ il nome di un programma con cui Borja Saracho è diventato famoso in tutta Europa grazie al peculiare modo di far invecchiare il vino che produce. Trattasi di  vino subacqueo che staziona in cantine sotto le acque del Mar Cantabrico per poi essere venduto non solo in Europa, ma in tutto il mondo.

turismo.euskadi.eus

spain.info.it

#euskadiconfidential

Dalla Val Grande ai nuovi deserti italiani

Il Parco Nazionale della Val Grande si estende nel cuore della provincia del Verbano Cusio Ossola, tra creste dirupate e cime solitarie, ed è parte del geoparco Sesia Val Grande , una più grande area di interesse geologico entrata a far parte della rete mondiale di geoparchi, patrocinata dall’Unesco. E’ l’area selvaggia più vasta d’ltalia, una wilderness a due passi dalla civiltà. Un santuario dell’ambiente dove la natura sta lentamente recuperando i suoi spazi, dove boschi senza fine, acque trasparenti e silenzi incontrastati accompagnano ogni passo del visitatore. Ma la Val Grande è anche storia. Il lungo racconto di una civiltà montanara narrato dai luoghi e dalla gente dei paesi che circondano quest’area fra Ossola, Verbano, Val Vigezzo, Valle Intrasca e Cannobina. Percorrendo i sentieri della Val Grande si scoprono i segni lasciati dall’uomo nei secoli passati quando la valle era meta di pastori e boscaioli, tracce di una vita faticosa, testimonianza della capacità di adattarsi a un territorio impervio e inaccessibile. La verticalità era il principale elemento di sopravvivenza: tutta l’economia della comunità montana era basata sugli spostamenti altitudinali stagionali, in base ai ritmi della natura. Ne sono testimonianza le ciclopiche opere di terrazzamento destinate alla coltivazione ed una fitta rete di strade e sentieri che segnavano i versanti vallivi collegando il fondovalle ai maggenghi e agli alpeggi. Su queste montagne, inoltre, è stata scritta una pagina importante della Resistenza italiana. Nel giugno del 1944 la Val Grande e la Val Pogallo furono teatro di aspri scontri tra le formazioni partigiane e le truppe nazifasciste (nelle adiacenze va visitata la Casa della Resistenza , un importante luogo di memoria). Di questo e molto altro ne parlano lo scrittore Marco Albino Ferrari, e Massimo Gocci, in passato presidente del Parco Nazionale della Val Grande. Invece la naturalista Valentina Scaglia ci racconta del suo commovente incontro con Gianfry, l’eremita della Val Grande. La bulimia naturalistica di una località come la Val Grande è ancora più apprezzabile se ci ricordiamo quanto stia soffrendo la natura nel resto dell’Italia. Una cruda testimonianza ci arriva da Deserti d’Italia, un’insolita guida turistica curata da Gabriele Galimberti. Come recita il sottotitolo del libro: “Paesaggi mozzafiato di cui il Bel Paese non avrebbe bisogno”, è un viaggio, corredato da impressionanti fotografie, tra le aree a rischio desertificazione nel Bel Paese. Un fenomeno che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, non è presente solo al Sud (dove comunque le aree a rischio sono molto estese: 70% della Sicilia, il 57% della Puglia, il 58% del Molise e il 55% della Basilicata sono a rischio desertificazione), ma anche al Centro e al Nord, dall’Abruzzo all’Isola d’Elba, dall’Emilia-Romagna alla Lombardia. 

 

 

Cimiteri

Il delta del Danubio è una sterminata no man’s land, fatta più di acqua che di terra, dove il fiume svanisce nel mare. Sulina è una piccola città costiera della Romania, situata nelle adiacenze della foce del Danubio. E’ raggiungibile solo arrivandoci in barca da Tulcea perchè non esistono strade che la collegano al resto del Paese. Nacque nel 1856, dopo la guerra di Crimea, per garantire la libertà di navigazione e di commercio sulla grande arteria fluviale, assicurando nel contempo la neutralità del tratto marittimo del Danubio. Sulina divenne porto franco e si sviluppò rapidamente diventando una piccola cittadina cosmopolita, la cui neutralità, anche in caso di guerra, era certa per statuto. A quel tempo ospitava  22 comunità religiose e sette consolati. Di quegli anni è sopravvissuto poco, tra cui un cimitero multietnico, situato alla porta d’uscita dalla città, andando verso la spiaggia. In realtà più che un cimitero, è un insieme di quattro cimiteri: quello britannico, quello ebraico, il cimitero cristiano e quello mussulmano (quest’ultimo facilmente riconoscibile perché sulle tombe spesso campeggia un fez). Le tombe, all’ombra di un salice o di un’acacia, raccontano storie di pirati, principesse e giovani innamorati…

Cavriglia

Il territorio di Cavriglia si estende nel Valdarno superiore, ai piedi dei Monti del Chianti. Con le sue caratteristiche frazioni arroccate, è un paese che ha in sé una lunghissima storia, come dimostrano alcuni ritrovamenti di epoca romana ed etrusca.

Il comune di Cavriglia include il borgo abbandonato di Castelnuovo dei Sabbioni, un paese ricco di fascino che si affaccia sul lago di San Cipriano, uno dei molti paesi fantasma che popolano l’Italia. E’ un abitato di origini medievali, che nei secoli è arrivato a contare anche cinquecento e più abitanti. Oggi non ci vive più nessuno: c’è solo un museo, il MINE – Museo delle Miniere del Territorio . Racconta un’attività economica che ha fortemente inciso sul territorio di Cavriglia: quella delle miniere di lignite, un combustibile che a Castelnuovo è stato estratto dall’Ottocento e che ha cambiato radicalmente la conformazione del sottosuolo, tanto che alcune frazioni hanno subìto danni irreparabili. Proprio l’escavazione della lignite, nella seconda metà del Novecento, è stata causa del progressivo spopolamento. Il minerale serviva ad alimentare le vicina centrale termoelettrica di Santa Barbara e l’Enel espropriò il paese. Altri sei abitati furono rasi al suolo. Poi le miniere nel 1994 si esaurirono e l’azienda cedette il paese al Comune. Ma nessuno vi è tornato ad abitare. Castelnuovo, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, era stato poi segnato da una strage: settantaquattro persone inermi furono fucilate nella piazza del paese dai nazisti. Un dramma che ai nostri microfoni ha raccontato Emilio Polverini, il figlio di uno delle vittime.

Recentemente Cavriglia si è aggiudicata la quota toscana della linea A di un bando del PNRR , che destina 420 milioni di euro a 21 borghi individuati da Regioni e Province autonome. Il bando è legato alla rigenerazione dei borghi a rischio abbandono o abbandonati (analogamente, oltre alla Toscana, ciascuna Regione o Provincia Autonoma, per un totale di 21, riceverà un importo pari a 20 milioni di euro da destinare a un borgo del suo territorio). “Con questi soldi” dichiara il sindaco di Cavriglia Leonardo degli Innocenti “andremo a realizzare tante iniziative: ci saranno quelle turistiche con un albergo diffuso, una casa per la residenza degli artisti, attività di carattere commerciale e artigianale ma soprattutto è intenzione destinare parte di queste abitazioni a social housing e quindi favorire l’insediamento di giovani coppie perché vogliamo che questo borgo rinasca davvero, non sia un museo o un presepe ma porti posti di lavoro e tanta nuova vita”

Sì, viaggiare / evitando le buche più dure…

Il racconto di due viaggi particolari e un suggerimento per uno alla portata di tutti.

Roberto, 67 primavere sulle spalle, è in pensione da pochi mesi. Per festeggiare questa nuova fase della sua vita è partito da San Donato Milanese per un lungo viaggio in bici  alla volta della Sierra Leone. Giornalista e scrittore, è da anni un cultore del pedale (ha alle spalle molte edizioni della Maratona delle Dolomiti, dell’Eroica, di tante gran fondo e alley cat…) ed è partito per questo viaggio di quasi 7.000 chilometri, in sella alla sua bicicletta, con l’obiettivo di raccogliere donazioni per alcune associazioni che lavorano“in Africa e per l’Africa, ma anche per tutti noi”. Un viaggio che si può seguire in tempo reale grazie al suo blog.

Sandro e Ersilia invece sono una coppia di camperisti e vivono pochi chilometri a nord di Milano. Lei lavora come educatrice nell’ambito della disabilità, lui da 12 anni è maestro in una scuola primaria. Hanno due figli, 8 e 5 anni, e il loro arrivo ha consolidato nei genitori l’interesse per le pedagogie alternative. Partecipano alle assemblee della rel italiana (rete educazione libertaria) e dell’eudec. Nel 2017 hanno contribuito a dar vita ad un progetto di outdoor education per bambini dai 3 ai 6 anni (i cosiddetti “asili nel bosco”). Quest’anno hanno deciso di farsi un regalo: chiedere aspettativa dal lavoro e partire per un viaggio di almeno sei mesi! Hanno acquistato un vecchio camper dell’86 e da metà luglio hanno iniziato a percorrere in lungo e in largo l’Europa. Non hanno una meta finale precisa, ma nel loro percorso includeranno (lo stanno già facendo, basta seguire il loro viaggio sul blog ) tappe pedagogiche facendo visita a scuole democratiche, progetti di unschooling, asili nel bosco…

Alla portata di tutti sono i viaggi nei fine settimana con il Treno di Dante , tra Firenze e Ravenna. 136 km a bordo del “Centoporte”, un treno storico messo a disposizione dalla Fondazione FS Italiane, che viaggia sulla linea ferroviaria Faentina, la prima in Italia ad attraversare gli Appennini, toccando le terre percorse del Sommo Poeta nel suo esilio.  Un percorso che coniuga celebri città d’arte e borghi medievali completamente immersi nella natura. Un viaggio nel passato, attraverso il tempo e la storia.

Circumnavigando l’Etna a bordo di una littorina…

Antonio Licciardello è il capo dei capitreni. E’ lui il nostro Virgilio che ci conduce alla scoperta di una linea ferroviaria unica al mondo: la Circumetnea. Fasciato nella sua divisa, con tanto di cravatta bloccata da una ruota alata, simbolo aziendale adottato dai ferrovieri, ci aspetta alla stazione di Catania Borgo.  Il treno, costituito da una carrozza, parte con un fischio. In 123 anni la ferrovia è stata intercettata 4 volte da colate laviche, tutte nel tratto Randazzo-Riposto, ma è sempre rinata. Fin dalla partenza il binario è fiancheggiato da nere rocce laviche. Superato Misterbianco si apre un grandioso panorama verso “a’ muntagna” con una vegetazione che varia continuamente. E’ una campagna fittamente coltivata: gli agrumeti lasciano il posto agli ulivi, a qualche raro vigneto e ai fichi d’India. Il paesaggio cambia superata Adrano, dove il treno arranca in salita attraversando piantagioni di pistacchio impiantate sulla roccia lavica (il signor Carmelo, che ha ereditato dal padre il terreno e la passione per i pistacchi, ci spiegherà che le proprietà organolettiche di queste rocce non te le dà nessun altro suolo…). Passeggiando per Bronte si scoprono edicole votive inneggianti alla Madonna con la pistola, mentre se ci si spinge sino alla rimessa della famiglia Gullotti, nella periferia di Bronte, si può fare un incontro ravvicinato con il carretto siciliano, un veicolo nato come mezzo a trazione equina e poi convertitosi in veicolo di trasmissione culturale. Il viaggio prosegue toccando il punto più alto del tracciato ferroviario: all’altezza di Rocca Calanna siamo quasi a 1000 m slm. Alla nostra destra il vulcano è preceduto dall’enorme macchia verde del Parco dell’Etna: pinete, faggete, boschi di betulle, cespugli di ginestra. Un habitat favorevole alla sopravvivenza di animali selvatici come la volpe, la lepre, il coniglio, il riccio, il pipistrello, così come uccelli da preda come falchi, gufi e aquile reali. Il borgo medievale di Randazzo merita una sosta per poterlo visitare. E’ conosciuto come “la città delle 100 chiese” e almeno tre meritano di essere visitate. La chiesa di Santa Maria, nel quartiere latino. Quella di San Niccolò, nel quartiere greco e quella di San Martino, nel quartiere romano (suo è quello che viene considerato il miglior campanile di Sicilia). Superato Randazzo il treno sfiora i resti di una casa immersa nella lava della colata che se l’è ‘mangiata’ la notte tra il 17 e il 18 marzo 1981.  Da qui inizia la discesa lungo la valle dell’Alcantara ed il paesaggio diventa meno aspro e selvaggio. La campagna inizia ad essere punteggiata da fastose ville mentre il treno attraversa i pregiati vigneti della Solicchiata.  I binari sono fiancheggiati da ginestre e zagare. Paesi e frazioni vengono superati uno dopo l’altro, mentre in lontananza si scorge il baluginare dello Ionio e ai lati della ferrovia ricompaiono gli agrumi. Il capolinea di Riposto è sempre più vicino…

Dove dormire, mangiare e altre info: vai qui

 

A Kiev per costruire le ragioni della pace

L’idea di partenza ai più poteva sembrare solo un sogno: andare in un Paese dove le bombe continuano a cadere per affermare che non basta la resistenza armata contro l’invasore russo. E farlo in un momento in cui il letto del pacifismo è in secca rendeva quest’idea un azzardo. Il MEAN, “Movimento Europeo di Azione nonviolenta”, un’unione di oltre 40 organizzazioni, ci ha creduto e ha lavorato per mesi al fine di condurre in porto una prima iniziativa concreta: collegare le società civili ucraine e italiane, portando una ‘delegazione’ di quest’ultima a Kiev per parlare di pace proponendo azioni di pacificazione.

Una ‘delegazione’ formata da una sessantina di persone provenienti da mondi e culture diverse: dall’universo religioso a quello laico. In comune, per molti loro, un lavoro quotidiano per gli ultimi nelle periferie del Bel Paese. Soggetti del mondo del volontariato e movimentisti radicali. Agricoltori sociali e consiglieri comunali. Ricercatori e docenti universitari. Un giovane frate e un prete che da una vita in Calabria combatte la ‘ndrangheta. Insegnanti, librai e medici. Un europarlamentare del PD (Pierfrancesco Majorino) e Marianella Sclavi, sociologa e attivista di respiro internazionale.

Il loro vangelo (o libretto rosso, a secondo dell’appartenenza) sono le riflessioni di Alex Langer. Andare a Kiev era l’occasione per essere accanto agli ucraini aggrediti e martirizzati da troppe settimane. “Le mani che si stringono sono il nostro ponte” ha scritto Erri De Luca “La guerra è una terra desolata dove ogni minimo gesto di fraternità ha la sfacciata forza di negarla“. Una delle parole d’ordine adottate dal MEAN, giocando sul significato della parola inglese ‘arms’, è MORE ARMS FOR HUGS: più braccia per gli abbracci. E per rendere questo abbraccio ancora più intenso il primo atto dei pacificatori italiani, una volta arrivati a Kiev, è stato incontrare una delegazione ucraina e, assieme a loro, collegarsi con una quindicina di piazze italiane. Da Milano a Battipaglia, da Aversa a Manfredonia, da Nocera Inferiore a Pomigliano d’Arco (c’era anche un collegamento da Londra). In alcune piazze un drappello di persone, in altre alcune centinaia. Tutte avevano preparato un intervento, molte anche una canzone. MC della serata, da Kiev, Tetyana: una giovane signora ucraina che da anni vive a Benevento (è una soprano e, potenza della multiculturalità, insegna canto beneventano).

Nella seconda giornata, lunedì 12 luglio, la carovana dei pacificatori italiani è stata ricevuta in Municipio. Ad attenderli, nella Sala delle Colonne, la più prestigiosa dell’edificio, Visvaldas Kulbokas, Nunzio Apostolico in Ucraina, e l’ex pugile Vitali Klitschko, oggi sindaco di Kiev.

Ed è anche in nome di quella resistenza che i pacifisti sono venuti a Kiev. Per non lasciare soli gli ucraini e, per quanto possibile, cercare di dare loro un aiuto anche come società civile,  nel pomeriggio ci si è spostati in un museo dove ci si è divisi in gruppi di lavoro promiscui, formati da ucraini ed italiani. Sono state affrontate tematiche come il processo di partecipazione per discutere i negoziati possibili come società civile, giovani e recupero post traumatico, come proteggere i beni culturali, la (ri)nascita e il rilancio del turismo al termine della guerra.

 

Globalizzazione? Ma dai…

Un viaggio in compagnia di Alfredo Luis Somoza, un viaggio in cui  si parla del rapporto tra la globalizzazione e la geografia. Dell’esotismo della miseria “tutto compreso”, ovvero delle varie “isole dei famosi”. Di fake beach come Ocean Cay, la prima destinazione inventata sulla quale scaricare turisti senza impatto ambientale. Della storia dei Los Tigres del Norte e della poetica di Violeta Parra. E di due libri scritti da Alfredo: “Siamo già oltre? La globalizzazione tra fake e smart” (Edizioni https://ogzero.org/)  e “Un continente da favola” (Edizioni https://www.rosenbergesellier.it/ita/).

Nel primo Alfredo interpreta le dinamiche della globalizzazione smascherando le fake news in modo puntuale e documentato, indagando sui reali vantaggi della civiltà cosiddetta smart.
Davanti a uno scenario – confuso e pericoloso – va rivalutato il percorso intrapreso nei primi anni Duemila a Porto Alegre, in Brasile. I forum sociali mondiali di allora erano raduni molto eterogenei in cui movimenti sociali e forze politiche discutevano dei pro e contro della globalizzazione, rifiutando l’idea di chiudersi entro i propri confini. Ha prevalso invece un timore reverenziale, o complice, nei confronti delle lobby che ci hanno speculato, dimenticandone le ricadute negative.
Alfredo Somoza analizza gli scenari dell’economia neoliberista che erode i diritti, della lotta per la terra e l’ambiente: non tutto ci è stato ancora svelato perché spesso le notizie non riescono a guadagnare i titoli dei giornali, per censura o per conflitto di interessi.

Nel secondo volume, “Un continente da favola. Trenta leggendarie storie latinoamericane”, ci regala la conferma che l’America Latina è una miniera inesauribile di storie impossibili, romanzesche, drammatiche, incredibili, epiche. Storie di persone comuni che la vita, la geografia, la cultura di quel mondo, sconvolto dalla Conquista e arricchito dai tanti meticciati, ha trasformato in vite spesso leggendarie, contribuendo a creare e alimentare un mito che ancora oggi resiste vivissimo nell’immaginario. Il volume presenta trenta ritratti di personaggi noti o sconosciuti, dal mondo della musica, della cucina e delle telenovelas, ai rivoluzionari ed eroi di ieri e di oggi, fino alle figure più folli o inquietanti.

Liverpool, non solo calcio e Beatles…

Per anni Liverpool è stato il suo porto. E’ li che ha costruito la sua ricchezza. Quando smise di commerciare in carne umana nera (per più di un secolo più del 40% dell’intera tratta europea degli schiavi fu gestita dai mercanti di Liverpool), si mise a spedire carne umana bianca e divenne il porto d’imbarco per milioni di emigranti che lasciavano la Gran Bretagna e l’Irlanda. Ma dopo la seconda guerra mondiale la rivoluzione dei containers  portò via migliaia e migliaia di posti di lavoro per gli scaricatori. Poi venne la globalizzazione, e infine Margaret Tatcher che, dove passava, non lasciava un’industria in piedi per il prossimo secolo. Tra il 1971 e il 1995 Liverpool ha perso 200mila posti di lavoro, in gran parte industriali… Poi una lenta rinascita, che si porta come dote la gentrificazione di alcuni quartieri. E’ il caso del Baltic Triangle , una vecchia area industriale che, quando Liverpool era una fiorente città commerciale, ospitava merci  prima che venissero trasportate su navi dirette al Nord America e ai Caraibi. Quegli edifici e quei magazzini ora ospitano artisti, registi e giovani imprenditori. E’ una delle zone della città più ricche di murales. Tra questi anche quello più visitato: un lavoro che porta la firma dall’artista locale Paul Curtis che ritrae le ali del Liver Bird, il simbolo della città di Liverpool (un uccello mitico, mezzo cormorano e metà aquila). Non ci sono molte persone che, dopo averle incrociate, possono asserire di non aver scattato una foto in piedi davanti alle due ali. In Jamaica Street, all’angolo con Jordan Street, sempre nel  Baltic Triangle, c’è il murale dedicato a Jurgen Klopp.  È stato creato in due giorni nel giugno 2020 dall’artista di Liverpool Caleb. Il dipinto mostra il sorriso raggiante di Klopp accanto alle parole “We are Liverpool 2020!” e il solito Liver Bird che stringe il trofeo della Premier League. In effetti la squadra di calcio guidata da Klopp è una delle attuali “ricchezze” della città. Per capirne il perchè procuratevi “Lettere da Liverpool” di Stefano Ravaglia . Non è una guida vera e propria, ma un escamotage per entrare nell’anima di una città. Lettere da Liverpool è il racconto della storia sportiva, unica e irripetibile, del Liverpool Fc : le vicende calcistiche della squadra del Mersey sono sempre state fortemente collegate agli aspetti culturali e politici della città e dei personaggi che l’hanno attraversata. Protagonisti assoluti delle rivoluzioni sociali contemporanee lo sono stati anche i Beatles, l’altra grande icona cittadina. D’obbligo un salto prima a The Cavern e poi a Strawberry Field , l’ex orfanotrofio che ispirò una celeberrima canzone ai Fab Four. Ma la musica di Liverpool non è solo quella dei Beatles, e per sincerarsene basta fare un salto al The British Music Experience , uno spazio che presenta mostre interattive, artefatti e cimeli sulla storia della musica rock e pop britannica, con un particolare focus su quella di Liverpool.

 

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Finalese

Il territorio del Finalese è uno dei luoghi più caratteristici del ponente ligure, caratterizzato dal blu del mare e dal verde di una vegetazione che si trasforma velocemente da mediterranea ad alpina. L’entroterra è formato da una serie di altipiani calcarei, sorretti da enormi pareti verticali bianchissime e separati tra di loro da valli profonde e strette. Un ambiente selvaggio e spettacolare il cui tratto distintivo sono grandi pareti di roccia calcarea (la cosiddetta “Pietra di Finale“), oggi  frequentate da appassionati del climbing provenienti da tutto il mondo. Da mezzo mondo, grazie alla conformazione del territorio e a una grande varietà di sentieri, che da mille metri di quota conducono alla spiaggia, a Finale Ligure arrivano anche cultori della mountain bike. Centinaia di Km di percorsi in fuoristrada, dai più facili ai più impegnativi. Gli appassionati di Freeride trovano diversi servizi di Bike Shuttle per le risalite motorizzate. Chi invece ama pedalare trova decine di percorsi enduro o XC dove sperimentare la propria abilità in sella. Acquistando la For You Card i cultori di queste discipline sportive, oltre a beneficiare del territorio, contribuiscono a raccogliere risorse necessarie per programmare la manutenzione dei sentieri e delle falesie. Attività outdoor che con saggezza sono state sviluppate senza danneggiare la natura che li circonda (per esempio sono state proibite alcune vie di arrampicata che disturbavano la nidificazione di alcune specie di uccelli) e gli agricoltori locali che continuano a coltivare una antica vocazione rurale (oltre ad una viticoltura eroica, nel finalese sono stati tramandati di generazione in generazione le coltivazioni di tre preziosi frutti: l’arancia pernambucco, il chinotto di Savona e la mela Carla). Il rispetto per la natura è evidenziato anche  da Mario Nebiolo, un artista acrobatico locale autore della Via Ferrata degli Artisti, sulla Costa dei Balzi Rossi a Magliolo (lavora su pareti di roccia sfruttandone le pieghe e i volumi, mettendo in evidenza figure umane che “escono” con le sue pennellate lievi)… Il Finalese è anche una delle più rilevanti aree archeologiche della Liguria, come testimonia il Museo Archeologico del Finale, ubicato all’interno delle mura del centro storico di Finalborgo. Tra i reperti che custodisce il più intrigante è rappresentato dai resti del “Giovane Principe”, un cacciatore vissuto 28000 anna fa, in piena età paleolitica. Sono stati trovati nella caverna delle Arene Candide, sita all’interno del promontorio della Caprazoppa, che separa Finale Ligure Marina da Borgio Verezzi.

Val di Funes

Incuneata fra la grande arteria autostradale della Valle dell’Isarco a ovest, la Val Gardena a sud e la Val Badia a est, la piccola Val di Funes è una vera oasi di pace e tranquillità, non a caso inserita nel circuito delle Alpine Pearls , l’associazione che raggruppa 20 località di 6 paesi alpini e che punta a ecosostenibilità e qualità dell’offerta. In valle sono state fatte delle scelte precise, mettendo al bando i grandi numeri, che non sopporterebbe, e la schiavitù dello sci. In una parola, riconoscimento del limite. Si è invece coltivato uno sviluppo turistico molto discreto affiancato da una fiera tradizione contadina.  Nel 1975 alcuni gruppi spontanei sensibilizzati anche dal padre di Reinhold Messner riuscirono a raccogliere settemila firme contro la creazione di un comprensorio sciistico da collegare con la Val Gardena, decisione subito seguita, nel 1978, dalla creazione del Parco naturale Puez-Odle, i cui confini rimangono lontani dal fondovalle, per consentire l’utilizzo dei prati e dei boschi senza inutili e controproducenti restrizioni, che avrebbero rischiato di portare all’abbandono della vita contadina da parte delle nuove generazioni, come accaduto in molte altre vallate alpine. Azioni che hanno generato uno spiccato indirizzo verso la mobilità dolce che ha ulteriormente impreziosito le grandi distese di boschi della valle e i suoi pascoli perfettamente curati, attraversati da una fitta rete di sentieri che si spingono sino al maestoso versante settentrionale delle Odle. Oggi la Val di Funes (composta dalle frazioni di San Pietro, Santa Maddalena, San Valentino, San Giacomo, Colle e Tiso) è un vero gioiello naturale, con i piedi ben saldi nel presente e uno sguardo lungimirante al futuro. Basti pensare che la totalità dell’energia elettrica necessaria in valle è prodotta in loco da tre piccole centrali idroelettriche e un impianto fotovoltaico (un surplus viene venduto al gestore nazionale), mentre due impianti di teleriscaldamento a biomassa riscaldano gli edifici, e tutte le abitazioni (comprese le malghe in quota) dispongono di un cablaggio in fibra ottica. E’ la pratica del turismo mite, una definizione  appropriata per dire quando non si stravolgono un paesaggio e una cultura solo per fare cassa.

Tra le tappe imperdibili nella valle una escursione sino ai 1.996 mt della malga Geisleralm , proprio sotto le Odle, e vicino alla baita di Messner.  La piccola chiesa barocca di San Giovanni e la palazzina di caccia del Trecento , dove si può soggiornare. Il negozio Naturwoll : prende la lana dell’autoctona pecora occhialuta di Funes, la Villnösser Brillenshaft, così chiamata per il pelo nero intorno agli occhi, come una mascherina, e la lavora nel modo più naturale possibile con macchinari che hanno duecento anni. Le pecore con gli occhiali Oskar Messner, titolare del ristorante Pitzock , dopo aver contribuito a salvarle dall’estinzione, le alleva. Mentre Carmen Obexer, ai visitatori del suo giardino, insegna l’utilizzi delle erbe e dei fiori della valle. Günther Pernthaler infine può raccontare come lui e la sua famiglia riescano a vivere in totale ‘autosufficienza’, a stretto contatto con la natura e con ciò che essa offre.
Info:
www.eisacktal.com
www.valleisarco.info
www.villnoess.com

Fischia il vento

“La resistenza ebbe le armi e le canzoni. Impossibile  pensarla senza le une o senza le altre. In quelle canzoni c’erano i vent’anni dei partigiani, la loro freschezza e la loro esuberanza. I fascisti cantavano canzoni allegre nell’apparenza e orrende nei concetti, canzoni pruriginose e morte… Il canto fu riscattato dai partigiani, la canzone si fece arma di liberazione, di denuncia, di verità, e accompagnò la lotta per monti e per valli, azione per azione…”. Così scrive Alessio Lega, autore di “La resistenza in cento canti” (ed. Mimesis). Sottoscriviamo in toto. Ed è per questo che in vista del 25 aprile raccontiamo la storia di Felice Cascione, il partigiano che scrisse “Fischia il vento“.

“Da intorno e sotto aumentarono le insistenze e quello allora intonò ‘Fischia il vento, infuria la bufera’”. Lo scriveva Beppe Fenoglio, ne «Il partigiano Johnny». E Guido Somano, nel diario «Taccuino alla macchia», il 13 febbraio ’44: «Cantano una canzone che non ho mai sentito e che è bellissima e dice… fischia il vento urla la bufera». Era la prima canzone partigiana, diventata poi l’inno delle Brigate Garibaldi. Si racconta che venne intonata, la prima volta, a Curenna di Vendone, vicino ad Albenga, nel Natale 1943. Ma in forma ufficiale fu eseguita ad Alto, nel piazzale della chiesa, nell’Epifania ’44.

Felice Cascione era un medico e per questo motivo il suo nome di battaglia fu ‘U megu‘. Nacque a Porto Maurizio (Imperia) il 2 maggio 1918 e morì in uno scontro con i fascisti sulle montagne del cuneese nel 1944. Quello che c’è stato in mezzo ce lo racconta Donatella Alfonso, autrice del libro “Fischia il vento. Felice Cascione e il canto dei ribelli” (ed. Castelvecchi).  Gli studi di Medicina e l’adesione al Partito comunista, lo sport e la scelta di unirsi alla Resistenza . La genesi della canzone che scrisse pochi giorni prima di essere ucciso. Fischia il vento, un simbolo della lotta partigiana, venne composta da Cascione sulla melodia del canto popolare sovietico Katjusa, suggerito dal partigiano Ivan, che era tornato dalla campagna di Russia. Dopo la morte di Felice, la canzone iniziò a diffondersi spontaneamente, fino a diventare l’inno più cantato della Resistenza. Donatella Alfonso ci ha procurato anche le voci di due partigiani che erano in montagna con Cascione: Miro Genovese, che militava anche nella stessa squadra di pallanuoto di U megu, e Carlo Trucco, il partigiano Girasole, che portò sino a Cuba “Fischia il vento”, facendone dono a Camilo Guevara.