Negli ultimi anni, il patrimonio industriale è diventato un tema d’interesse anche per il turismo. Sono nati ovunque percorsi locali e regionali, reti di musei e veri e propri sistemi di promozione turistica del territorio. E l’Italia è in prima linea nella valorizzazione di questa grande risorsa che comprende sia l’archeologia industriale – fabbriche dismesse, musealizzate o riconvertite a nuove funzioni – sia la cosiddetta cultura d’impresa, che include i musei e gli archivi aziendali e le visite all’interno di impianti industriali ancora attivi. Jacopo Ibello, cofondatore e presidente dell’associazione Save Industrial Heritage , ha realizzato “Guida al turismo industriale” (Morellini Editore): oltre 200 schede per scoprire i più importanti siti di archeologia industriale, i musei e gli archivi d’impresa che costellano la nostra penisola. Tra questi il Molino di Baggero , nel comasco. I mulini furono per secoli l’attività predominante della Brianza, attori non solo del sistema economico ma anche della trasformazione del paesaggio. A Baggero un attento lavoro di salvaguardia ha preservato un mulino sul Lambro del 1722, dove è stato ricavato un museo che spiega il funzionamento dei macchinari ed è spazio per eventi e attività artigianali. Oggi le ruote del mulino producono l’elettricità che alimenta l’hotel-ristorante alla base dell’Ecofrazione di Baggero, un luogo di accoglienza, artigianato e cultura incentrato sull’ecologia. Il Museo della Civiltà Contadina di Bentivoglio , ospitato nella splendida villa Smeraldi, ci permette di conoscere quello che c’era prima della civiltà industriale. Nei saloni della villa settecentesca è possibile apprendere come viveva una famiglia contadina tradizionale e i tanti mestieri artigianali presenti nelle comunità di campagna. Il Museo Fisogni è il parto di un “visionario”, il signor Guido Fisogni. Per quarant’anni ha costruito stazioni di rifornimento carburanti in tutto il mondo. Non buttava i vecchi impianti, ma li accantonava per conservarli. E’ nato così, in una cascina alle porte di Tradate, un coloratissimo museo che raccoglie pompe di benzina e oggetti riferibili al mondo delle stazioni di servizio. Infine un ex dipendente della Miniera di Montevecchio in Sardegna, oggi aperta ai visitatori, ci racconta la vita in una realtà totalizzante dove tutto, dalla valuta con cui venivano pagati i minatori alla loro squadra di calcio, era governato dal padrone della miniera.
Le rotte dell’arte africana
“La sciabola che vi consegnamo oggi risplende alla luce del sole, è la luce della conoscenza e dell’amicizia che lega i nostri popoli”, aveva detto, in presenza del presidente senegalese Macky Sall, l’ex primo ministro francese Édouard Philippe, il 17 novembre 2019, in visita a Dakar. Interveniva in occasione della restituzione della Francia al Senegal della sciabola di El Hadji Omar Tall, condottiero che si oppose alla dominazione francese in Africa occidentale. Philippe, accompagnato da un’importante delegazione ministeriale, aveva ricordato le circostanze di questa restituzione: “Come sapete il presidente Macron ha sottolineato più volte il suo desiderio di valorizzare il patrimonio africano in Africa. E’ quello che farà il Museo delle Civiltà Nere con il sostegno dei musei francesi”. Il gesto simbolico si è concretizzato un anno dopo l’inaugurazione del nuovo museo di Dakar, che porta il marchio anche di un altro attore internazionale importante, la Cina. Da molti anni Pechino sta sviluppando infatti una “diplomazia del patrimonio culturale”, al cui centro c’è proprio l’Africa e il dibattito sulla restituzione delle opere d’arte africane da parte degli ex colonizzatori. Progettato dal Beijing Institute of Architectural Design, uno studio di architettura di cui è proprietario lo stato cinese, il Museo delle civiltà nere di Dakar è un dono di 30.5 milioni di euro della Repubblica popolare cinese al Senegal. Il Museo è il punto di arrivo di un’idea promossa mezzo secolo fa dal primo presidente del Senegal, il poeta e intellettuale Léopold Sédar Senghor. Un museo panafricano – alla stregua di quello di arte contemporanea inaugurato a Johannesburg nel settembre 2017 – chiamato a diventare un punto riferimento per far conoscere la storia culturale del continente, far emergere la sua identità artistica e il contributo dato al resto dell’umanità. In tutto potrà contenere fino a 18 mila opere che spaziano dalle vestigia dei primi esseri umani apparsi in Africa milioni di anni fa – tra cui teschi, attrezzi in pietra, maschere, pitture e sculture – fino alle creazioni artistiche contemporanee. Va però specificato che nonostante le promesse di Macron ad oggi la Francia ha restituito solo la sciabola di El Hadji Omar Tall. Uno che l’ha presa male è Emery Mwazulu Diyabanza, attivista congolese che ha deciso di ovviare a questo ritardo scendendo in campo in prima persona. Da mesi entra a volto scoperto, disarmato, nei musei d’arte africana francesi, si impossessa di opere d’arte trafugate dai colonialisti comunicando agli astanti che le riporterà in Africa… Un’attività che gli costata più di una denuncia per furto.
La riapertura, e il cambio di politica culturale, dell’AfricaMuseum: il Museo reale dell’Africa Centrale a Tervuren nella periferia di Bruxelles, considerato il più grande museo del mondo consacrato al continente africano
Il punto sulla campagna Decolonize the City a Milano e la storia della statua del rivoluzionario Thomas Sankara che, intallata vicino a quella del giornalista Indro Montanelli, è stata rimossa e sequestrata. Infine Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino ci racconta la vita della struttura che dirige in questi mesi di pandemia e di chiusure forzate.
Info sulla restituzione di tutti i tesori coloniali su colonialismreparation.org/it
Rugby a Maputo
“C’è una strada di asfalto e tutt’intorno viuzze di sabbia che si divincolano tra abitazioni di cemento e lamiera, tra chiese ricavate da vecchi capannoni e da baracche che vendono “tresém”, tre birre a un euro e trenta. Nel mezzo è tutta sabbia, sabbia rossa e sabbia gialla, che s’impantana quando piove e che s’impiglia nei capelli quando tira vento. Magoanine B è un quartiere tra tanti, sorto una quindicina di anni fa da un progetto di ricollocamento degli abitanti di altri quartieri devastati dalle inondazioni che periodicamente mettono in ginocchio il Mozambico. Nel Duemila qui c’erano solo alberi e sabbia, ma era considerata una zona sicura e così ci hanno trasferito la gente e poi sono arrivate le case e le strade ma si sono dimenticati di fare i canali di scolo, e allora il problema degli allagamenti si presenta ogni quindici giorni…
…la scuola primaria di Magoanine B sta nel mezzo delle strade di sabbia, a una decina di minuti a piedi dalla strada: dalla fermata CMC (acronimo di Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna) s’imbocca una larga strada di sabbia da percorrere fino al primo albero di canhu, lì si gira a destra affondando nella sabbia e nei mattoni incastonati nella terra per permettere il passaggio quando piove, e poi al terzo albero di moringa si svolta a sinistra e poco dopo spunta la scuola. È così che spieghiamo agli allenatori come arrivare alla scuola per fare i primi allenamenti di rugby: il popolo Machangana si orienta così, e non si perdono mai”.
E’ così che Irene Bellamio, sul sito www.rugbio.it/maputo/magoanine-b, racconta il luogo dove lavora come allenatrice di una squadra di rugby che oltre a far giocare con la palla ovale decine di ragazze e ragazzi, assolve a un grande compito sociale. Il progetto RugBio Magoanine B ha tanti amici, tra cui l’ASD Rugbio di Cusago: Alessandro Acito ci racconta come in pratica nella periferia di Milano, con i loro ragazzi, fanno lo stesso lavoro che Irene fa a Maputo. Giorgio Terruzzi di Rugby Milano , una realtà che oltre a coinvolgere oltre 600 giocatori dai 5 agli over 50 anni ha portato il rugby nelle carceri milanesi, ci spiega perchè lo sport con la palla ovale è una realtà che genera condivisione e appartenenza come elementi non mercificabili.
Marco Trovato, direttore della rivista Africa , ci aiuta a capire la complessa società mozambicana raccontandoci due ‘comunità’ che vivono per le strade di Maputo: i “motociclisti-indipendentisti” e i ‘madgermanes’ . Infine Martina Zavagli, della ong AVSI , ci racconta di un progetto praticato a Maputo per un uso ‘fiabesco’ della radio…
Per sostenere il progetto RugBio Magoanine B: www.gofundme.com/rugby-for-mozambique
JOSHUA TREE (Foreste 02)
“Gli alberi sono le braccia della terra. Quando avremo tagliato tutti gli alberi il cielo ci cadrà addosso” (proverbio degli Indios dell’Amazzonia)
Francis Hallè, botanico e biologo francese, nel suo imperdibile “Ci vuole un albero per salvare la città” (ed. Ponte alle Grazie) scrive che “ci vuole un albero per salvare le città ormai assediate dall’inquinamento, dal cemento, dal calore, dagli insetti e dal rumore”. Un albero sembra una cosa da poco, una soluzione semplice, da fiaba, per gente un po’ ingenua e pre moderna che non ama la tecnologia. Invece, sempre secondo Francis Hallé “non esiste nessuna tecnologia che sia complessa e perfetta come quella di un albero. Sono esseri viventi che non hanno la possibilità di muoversi e dunque hanno sviluppato strategie estremamente sofisticate per sopravvivere. Vivono a lungo, in modo pacifico, e possono aiutarci a stare meglio: la loro ombra rinfresca le nostre estati estive; aumentano l’umidità dell’aria e dunque abbassano la temperatura; assorbono l’anidride carbonica e le polveri sottili, e molte altre cose ancora. Dobbiamo imparare a rispettarli e ad amarli, pensare a loro come nostri amici e compagni, cittadini del mondo, silenziosi e saggi guardiani delle nostre vite”. Uno che le piante le conosce bene è il dottor Paolo Lassini. Laureato in Agraria presso l’Università degli studi di Milano, e in Scienze forestali all’Università di Padova, ha lavorato come dirigente presso diversi enti. Ha ideato, progettato o realizzato interventi di forestazione urbana, come il Parco Nord Milano, il Bosco delle Querce di Seveso (un’area naturale protetta rinaturalizzata situata nella ex zona A del disastro di Seveso, dove il terreno inquinato dalla diossina fu asportato e sostituito da terra proveniente da altre aree non inquinate), e il programma “Dieci grandi foreste di pianura e di fondovalle”. Tra queste il Bosco del Lusignolo, nel comune di San Gervasio Bresciano, attualmente gestita come parco naturale. La Grande foresta del fondovalle Valtellinese (sito tra Sondrio, Caiolo e Cedrasco) e il Parco Agricolo Urbano della Vettabbia: 37 ettari (di cui più di 26 di nuovo bosco) nel sud Milano.
Tiziano Fratus, cercatore d’alberi e un filosofo, uno dei più originali e importanti scrittori e poeti di natura italiani, ci racconta come costruire una track list per poi ‘inselvarsi’ accompagnati dalla buona musica. Con l’occasione traccia un ricordo del compositore californiano Harold Budd, recentemente scomparso per complicanze da Covid-19.
Federico Pinato ci racconta come grazie al progetto wow nature , oltre a scoprire tutte le aree in cui sta per nascere un nuovo bosco, è possibile adottare o regala un albero, per migliorare la tua città, il tuo paese e il tuo pianeta.
P.S. Per la colonna sonora della trasmissione abbiamo usato un paio di brani di “Botanica”, un lavoro dei DeProducers , il collettivo musicale composto dal tastierista Vittorio Cosma, dal bassista Gianni Maroccolo, dal chitarrista Max Casacci e dal cantautore e produttore Riccardo Sinigallia.
Il cammino dei Briganti
La Marsica e il Cicolano sono terre di boschi, montagne e storie di briganti. In particolare il territorio attraversato dal cammino è un territorio di confine, oggi tra Abruzzo e Lazio, ieri tra Stato Pontificio e Regno Borbonico. I briganti vivevano sul confine per passare da una parte all’altra a seconda della minaccia. I briganti non erano malviventi, erano più simili ai partigiani, lottavano contro l’invasione dei Sabaudi, che avevano costretto il popolo a entrare nell’esercito. Erano spiriti liberi, che non volevano assoggettarsi ai nuovi padroni, e per questo erano entrati in clandestinità. Una storia fatta anche di rapimenti, riscatti, e tanta violenza. Una storia di 150 anni fa. Oggi l’esperienza dei viaggiatori antichi viene riproposta basata sul viaggiare a piedi da paese a paese lungo questo cammino di 7 giorni, tutto ben percorribile, segnato e con posti tappa attrezzati. E’ qui che si dipana il Cammino dei Briganti: sette giorni di cammino a quote medie (tra gli 800 e i 1300 m. di quota) sulle orme dei briganti della Banda di Cartore tra la Val de Varri, la Valle del Salto e le pendici del Monte Velino. Partenza e arrivo da Sante Marie, vicino a Tagliacozzo (AQ). La guida “Il cammino dei briganti. 100 km a piedi tra paesi medioevali e natura selvaggia” ne dettaglia e illustra storia e percorso. Alberto Liberati, uno degli autori (nonchè guida autorizzata della Regione Abruzzo), lo fa per Onde Road, illustrando la valenza politica e sociale del brigantaggio. Per un approfondimento
“Brigantesse. Storie d’amore e di fucile” di Andrea del Monte (ed. Ponte Sisto) raccoglie tredici poemi che raccontano la vita grama e i riscatti “d’amore e di fucile” di altrettante brigantesse. Tra loro c’è anche Michelina de Cesare, brigantessa nata il 28 Ottobre 1841 a Mignano, in Terra di Lavoro (attuale provincia di Caserta). Figlia di una famiglia poverissima, rimase vedova del primo marito e si sposò con Francesco Guerra nel 1862. Guerra era un soldato borbonico che, come tanti altri, non volle tradire il giuramento di soldato e passare in un esercito nemico, capo di una banda di cui faceva parte anche Michelina e dove, pur essendo donna, ricopriva un ruolo di comando, come dimostrano le armi da lei possedute: una pistola e un fucile a due colpi. Fu tradita dal cugino Giovanni, che condusse i soldati al loro nascondiglio. Lì furono sorpresi nel sonno e uccisi: i corpi di Michelina e Francesco Guerra furono denudati, fotografati e messi in mostra nella piazza principale della città. Tornando ai giorni nostri il pastore Americo, oltre che della sua quotidianità, ci racconta i rischi di estinzione che sta correndo il Lago della Duchessa (situato tra Lazio e Abruzzo, all’interno dell’omonima Riserva Naturale Montagne della Duchessa, con i suoi 1788m è uno dei laghi più alti dell’Appennino). Infine incontriamo il musicista Giacomo Proia, un “ritornante”: dopo anni vissuti a Milano è tornato nella terra dove è nato e ha aperto un ottimo punto di riferimento per i camminatori: l’Ostello Casa Bella.
P.S. Un grande grazie a Fanny, viaggiatrice di Radio Popolare, che ha testato per noi il Cammino dei Briganti dandoci poi le dritte per realizzare questa puntata
RESQ – People Saving People
Una puntata anomala, non solo perchè è prodotta in diretta, ma perchè è legata a un viaggio particolare: quello che migliaia di cittadini del sud del mondo decidono di intraprendere nella speranza di migliorare la qualità della loro vita. Con la puntata di oggi Onde Road vuole dare il suo contributo a “Tra il dire e il mare”, la campagna per mettere in acqua una nuova nave che si aggiunga alle pochissime unità operative nel Mediterraneo. Nella presentazione del progetto RESQ – People Saving People si legge: “…ci siamo uniti per dare un segno concreto e contrastare la cultura dell’indifferenza. Mettendo in mare un’altra nave che sostenga donne, uomini e bambini costretti a spostarsi da situazioni drammatiche o volenterosi di inseguire il proprio sogno, come di diritto. Aggiungendo, con il contributo di chi non è indifferente, una nave alla flotta umanitaria, oggi del tutto insufficiente e spesso ostacolata. Il progetto è avere una nave di circa 40 metri con 10 persone di equipaggio per il funzionamento, e 9 tra medici e infermieri, soccorritori, mediatori, giornalisti e fotografi. Due gommoni veloci, invece, assicureranno gli avvicinamenti alle imbarcazioni in difficoltà e il salvataggio dei passeggeri. Il progetto nasce da un piccolo gruppo di amici, professionisti di varia natura che, stanchi di vedere morire migliaia di migranti nel tentativo disperato di attraversare il Mediterraneo, cercando per sé e per i propri figli un domani migliore, hanno deciso di rompere il muro dell’indifferenza e provare a mettersi in gioco, con un solo obiettivo chiaro: restare umani”.
Ospiti della puntata odierna, per parlare di questo drammatico viaggio:
Gherardo Colombo, ex magistrato, presidente onorario della Onlus ResQ, da quando si è dimesso dalla magistratura, ormai 13 anni fa che si occupa di educazione
Alì Sohna, migrante, nato a pochi chilometri da Banjul, la capitale del Gambia. A quindici anni sua madre e suo fratello maggiore lo hanno portato via, hanno attraversato il deserto e poi il Mediterraneo, ma in Italia è arrivato solo lui.
Don Giuseppe Bettoni, Presidente della Fondazione Arché onlus e titolare di una grossa esperienza di lavoro sociale in un quartiere come Quarto Oggiaro.
Lella Costa, attrice e sostenitrice del progetto RESQ – People Saving People
Massimo Cirri, Caterpillar (Rai 2) e sostenitrice del progetto RESQ – People Saving People
Lessico e nuvole
Che nuvola sarà quella che sta passando sopra la tua testa proprio in questo istante? Quando guardi una nuvola cosa ti viene in mente? Per un tuo ritratto fotografico quale nuvola vorresti come sfondo? Queste sono alcune delle domande che abbiamo fatto a Sarah Zambelli che ha curato i testi (i disegni sono di Susy Zanella) di “Nuvolario. Atlante delle nuvole” (2020, Nomos Edizioni).
Paolo Valisa, che gli ascoltatori di Radio Popolare conoscono per i bollettini metereologici che diffonde dal Centro Geofisico Prealpino, racconta il rapporto con le nuvole di un ricercatore che per lavoro studia quotidianamente le condizioni metereologiche.
Il fotografo Paolo Giocoso ci spiega come fotografare le nuvole, mentre Marco Schiaffino (che a Radio Popolare cura la trasmissione Doppio Click) ci svela i misteri del “cloud”: perché è nato, che cos’è, come funziona, ma è davvero gratis, di chi è, c’è da fidarsi?
Sabrina Peron, avvocatessa milanese, una delle 250 persone al mondo che può esibire la “Triple crown” (riconoscimento che spetta a chi riesce a effettuare il giro dell’isola di Manhattan, la Catalina in California e ad attraversare la Manica) ci racconta le nuvole che incrocia con lo sguardo quando, durante le sue imprese natatorie, alza la testa verso il cielo.
Pedro Armocida, critico cinematografico e direttore del Pesaro Film Festival, ci racconta la genesi di “Che cosa sono le nuvole”, una canzone scritta da Pierpaolo Pasolini, cantata da Domenico Modugno e inserita nella colonna sonora di un episodio, diretto dallo stesso Pasolini, del film “Capriccio all’Italiana” (tra gli attori Totò, Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti e lo stesso Domenico Modugno).
P.S. La puntata è dedicata a Nuvola Rossa, nativo americano che in virtù dei successi ottenuti in vari drammatici scontri con l’avanzata americana verso ovest, conquistò un posto di assoluto primo piano tra i capi Lakota del XIX secolo.
Viaggio “al fresco”
Una puntata che a qualcuno potrà sembrare anomala, fuori contesto. Invece per gran parte della trasmissione parleremo di un viaggio, il viaggio dentro le carceri italiane che Luigi Pagano ha fatto nelle vesti di direttore dei suddetti carceri. La ns guida di viaggio è “Il direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere “, Zolfo editori, il libro con cui Luigi Pagano, storico direttore penitenziario, racconta i suoi quarant’anni passati accanto ai carcerati, una vita spesa cercandodi ottemperare quel famoso articolo 27 della Costituzione che sancisce come ogni detenuto deve essere recuperato alla società vivendo in condizioni umane; ma anche una vita vissuta all’interno della nostra società che spesso dimentica il principio costituzionale. Con questo libro Pagano traccia un resoconto della propria vita professionale tra Francis Turatello e Mario Chiesa, mafiosi e brigatisti. Quarant’anni vissuti a gestire carceri, da Pianosa ai quindici anni di San Vittore passando per Nuoro, Asinara, Piacenza, Brescia e Taranto. Quarant’anni in cui si è sempre battuto per cercare di rendere umane le “dimore” di chi ha un conto da pagare con la società.
Patrizio Gonnella (presidente dell’Associazione Antigone e conduttore, a Radio Popolare, della trasmissione Jailhouse Rock) dopo una fotografia delle carceri in questo periodo di pandemia, ci elenca una serie di ex carceri che potrebbero diventare luoghi di racconto, luoghi della memoria. Come l’ex carcere di Capraia (chiuso a metà degli anni Ottanta) o la fortezza di Santo Stefano a Ventotene (ci vennero incarcerati l’irredentista Settembrini, Gaetano Bresci e Sandro Pertini)… L’esempio è il Museo della Memoria Carceraria realizzato a Saluzzo. Invece la vecchia tenuta agricola del carcere di Procida, in abbandono dal 1988, grazie al lavoro di decine di volontari, si è trasformata in un parco pubblico: il Giardino sul mare dell’incanto. Il dottor Carmelo Cantone, che in passato era stato Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Toscana, ci racconta l’esperienza dell’isola/carcere di Gorgona, dove il muro di cinta della prigione è il mare. Infine Francesco Ravaioli, frate francescano, ci racconta la storia della Chiesa di San Francesco del Prato a Parma, attualmente al centro di un’ambiziosa opera di restauro che mira però a non cancellare gli anni bui in cui questa struttura, di dimensioni paragonabili a quelle della Cattedrale cittadina, venne utilizzata come penitenziario, ossia dall’epoca napoleonica sino al 1992. Per finanziare le opere di restauro è stato messo in vendita un cofanetto eco-sostenibile che contiene il simbolo della “liberazione” della chiesa. L’oggetto, numerato, è alloggiato in un contenitore espositivo unitamente al certificato di autenticità, oltre ad un opuscolo che racconta la storia della chiesa. Per averlo: info su www.sanfrancescodelprato.it/it/cofanetto
Sulla strada
Per anni il numero 69 di Viale Ortles è stato solo un dormitorio per persone senza dimora.
Ora non è più così. E’ questo che racconta il libro “El me indiriss, Ortles 69 – La storia e le
storie della Casa dell’Accoglienza Enzo Jannacci” (di Cinzia Morselli, Il Castello editore): le
storie della trasformazione di Viale Ortles 69 da dormitorio pubblico a Casa dell’Accoglienza Enzo Jannacci.
Un racconto corale della vita e delle tante storie che si intrecciano nella casa della solidarietà
più grande d’Europa. La storia di donne e uomini che hanno avuto uno scampolo di
esistenza, più o meno lungo, sulla strada e poi hanno incontrato Casa Jannacci. E’ un libro
prezioso perchè nessuno si può immaginare cosa c’è dietro il clochard che si incontra sulla
panchina sotto casa. Dando voce a chi in genere non viene data voce, questo libro è uno
schiaffo all’indifferenza. Leggendo queste storie sarà difficile non considerare i clochard
per quello che sono: donne e uomini come noi. Con la differenza che a volte la vita fa brutti
scherzi. I dati della seconda sezione del libro, che raccontano con la cruda chiarezza dei
numeri il lavoro di Casa Jannacci, sono invece un inno alla speranza. Anche le situazioni più
disagiate possono cambiare, basta non dimenticarsi che ci sono donne e uomini più
sfortunati di noi.
Oltre a Cinzia Morselli, autrice del libro, e a Massimo Gottardi, direttore della Casa,
intervengono Pierfrancesco Majorino, oggi deputato al Parlamento europeo, in passato
assessore alle politiche sociali del comune di Milano, e Gabriele Rabaiotti, attuale
responsabile di quell’assessorato. Majorino ricorda che Casa Jannacci non è il museo dei
poveri da visitare dall’alto della propria condizione materiale, magari per mettersi un poco il
cuore in pace. Ale e Franz hanno evidenziato quanto sia facile di questi tempi passare
improvvisamente da ‘persona normale’ a homeless perché oggi la povertà è dietro l’angolo.
Federico Traversa, autore di “Rock is Dead – Il libro nero sui misteri della musica”
(Il Castello edizioni, 2020), ci ha raccontato di Leadbelly, un homeless che ha fatto la storia del
blues. Abbiamo ascoltato la più bella cover di sempre: quella di Creep dei Radiohead
eseguita da Daniel “Homeless” Mustard.
Abbiamo scoperto come la voce di un barbone che canta un frammento di un canto
religioso, dal titolo “Jesus’ blood never failed me yet”, nelle mani di Gavin Bryars & Tom Waits possa scalare le classifiche discografiche. Elisabetta Vergani ci ha letto le pagine del libro che raccontano la storia di Miran, una ex ‘inquilina’ di Casa Jannacci. Mentre Patrizia e Salvatore, detto Moreno, che alla Casa ci vivono ancora, ci raccontano come ci sono finiti e cosa
hanno imparato vivendoci dentro…
Viaggio tra alcune geografie della musica napoletana
A Napoli per capire quanto si è popolari basta andare in San Gregorio Armeno, la via dove decine di artigiani vendono le statuine del celebre presepio partenopeo. Un presepio dove oltre alle classiche statuine con il bue, l’asinello e i re magi ci sono quelle dei personaggi della cronaca e della politica. E’ una sorta di classifica partenopea dei personaggi più pop degli ultimi mesi. Quest’anno le statuine laiche che vanno per la maggiore, sono quelle di De Luca, il presidente della regione Campania ritratto con in mano un lanciafiamme; quelle di Alex Zanardi che pedala sul suo handbike e quelle di Liberato, rappresentato di spalle con la felpa con il suo nome sulla schiena. Liberato è un cantante mascherato di cui non si conosce l’identità: una sorta di Elena Ferrante del pentagramma. La sua musica è un incrocio tra elettronica, trap e afrori neomelodici. Leggendo le sue liriche è sorprendente scoprire analogie con il testo di Carmela, un classico della canzone napoletana. Se è vero che l’amore è il contrario della morte, come recita la canzone di Salvatore Palomba, è a quello che la città deve aggrapparsi per tornare a vivere: all’amore della sua gente, non alla morte sociale voluta da pochi. Oggi per sentire canzoni come Carmela bisogna andare al Trianon Viviani, sede della compagnia stabile della canzone napoletana. In cartellone un repertorio di classici, tra cui qualche canzone scritta al Gran Caffè Gambrinus, il caffè letterario più prestigioso della città. Qui abbiamo incontrato Arturo Sergio, uno dei proprietari. All’hotel Luna Rossa invece abbiamo incontrato Adele Mazzella, nipote di Antonio Viscione, in arte Vian (nick name adottato per omaggiare il grande scrittore e trombettista francese Boris Vian). E’ lui il compositore della canzone che dato il nome all’hotel, una canzone che è stata reinterpretata da decine di artisti: da Claudio Villa a Jovanotti, da Frank Sinatra a Caetano Veloso. C’è un altro albergo che ha contribuito a scrivere la storia della musica napoletana. E’ su una punta della Penisola Sorrentina, “…lì dove il mare luccica e tira forte il vento…”. La “vecchia terrazza davanti al golfo di Sorrento” che Lucio Dalla rese immortale attraverso le note di “Caruso”esiste davvero: è la balconata più celebre della musica italiana (sulla quale fu realmente composto il brano) e appartiene alla suite del Grand Hotel Excelsior Vittoria, un cinque stelle sicuramente accessibile a pochi, ma che condivide con Napoli un’importante pezzo di storia della cultura e della musica italiana. Dalla stazione ferroviaria di Napoli bastano quindici minuti di taxi per raggiungere San Pietro a Patierno, il borgo dell’immediato hinterland napoletano dove è nato Nino D’angelo. Sulla parete di un anonimo palazzone lo street artist Jorit ha appena terminato di realizzare un enorme ritratto del padre putativo della musica neomelodica. La novità dei neomelodici, all’interno della musica partenopea, è la loro provenienza: è tutta gente dei quartieri popolari, come San Pietro a Patierno. Per i testi delle canzoni prendono spunto dalla vita e dai sogni di chi in quei quartieri vive. Canzoni che diventano subito le colonne sonore dei loro momenti di festa, dai battesimi ai matrimoni. A Scampia, altra periferia napoletana, incontriamo e ne parliamo con Daniele Sanzone, scrittore, autore e voce della rock band A67.
Altre puntate di Onde Road su Napoli sono qui:
– La Napoli del Rione Sanità blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=4486
– La Napoli dei Maestri di Strada e del dios umano blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=4322
– Una Napoli altra blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=3356
Alpi Occitane
Demonte, Demount in Occitano: un paese della media Valle Stura. Antichissimo borgo alpino di origine romana, ha acquistato lungo i secoli il ruolo di “capitale” della valle.
La valle è segnata in tutto il suo territorio dal fiume Stura, che defluisce dal lago della Maddalena a quasi 2000 metri di altezza, corre impetuoso tra le forre dell’Olla e separa le Alpi Marittime dalle Cozie. Una valle che si presenta con dolci declivi nel tratto iniziale, più aspra e tipicamente alpina nella parte alta. La strada che la percorre culmina ai 1.996 m del Colle della Maddalena che collega il cuneese alla val d’Ubaye, in Francia. Vicino alla sommità si trova una stele in onore di Fausto Coppi, che sulla salita del colle diede inizio alla mitica fuga che lo portò a trionfare nella tappa Cuneo-Pinerolo nel Giro d’Italia del ’49.
A partire dagli anni Sessanta la valle è stata fortemente segnata dallo spopolamento, raggiungendo un picco di calo demografico del 75%. Oggi è un tranquillo borgo che conta circa 2000 abitanti, con un centro storico caratterizzato dalla struttura porticale della via centrale del paese impreziosita da capitelli medioevali. Delle ricchezze di questo borgo, e dei suoi problemi, ne abbiamo parlato con il sindaco Francesco Arata. Roberto, dell’agriturismo Lausè, ci illustra di come si vive in montagna (e di come cambiano i suoi abitanti…). La signora Sescia di Elva, piccolo borgo nell’omonimo vallone laterale della Valle Maira, ci ricorda che per poter vivere i suoi compaesani, sino a pochi decenni fa, si erano inventati un lavoro: quello dei “raccoglitori di capelli” (*). Oggi un piccolo museo illustra la loro storia. Colonna sonora di queste vallate è la musica occitana, una musica senza frontiere. L’Occitania non è uno stato né una regione, ma solo un segmento del pianeta (compreso geograficamente tra le Alpi, i Pirenei, il Mediterraneo e l’Atlantico Francese) contraddistinto da una lingua comune. Abbiamo incontrato Sergio Berardo, il padre della scena musicale occitana italiana.
(*) A proposito di capelli la puntata ospita una intervista a Dina Azzolini, hairstylist milanese, o acconciatrice come si diceva un tempo. Una maestra nel trattare i capelli per farli star bene. Dina, che negli ’60 e ’70 era una protagonista del mondo della moda e spettacolo (era la pettinatrice, tra gli altri, di Mina, Benedetta Barzini, Rosita Missoni), oggi continua il suo lavoro di ‘potatrice dei capelli’.
LA NAPOLI DEL RIONE SANITA’
Il Rione Sanità di Napoli è una delle zone meno considerate dai turisti, invece è un quartiere che ha moltissimo da offrire. La prima cosa che colpisce quando ci si arriva è l’imponente Ponte Maddalena Cerasuolo, che scavalca l’intero rione sovrastando le case e tagliando letteralmente gli edifici circostanti. Edificato agli inizi del 1800 dai francesi, aveva la funzione di collegamento della Reggia di Capodimonte con il resto della città senza dover passare attraverso gli stretti vicoli del vallone della Sanità. La sua esistenza però fece si che la maggior parte della gente potesse spostarsi senza dover scendere nel rione, che diventò di fatto una periferia nel centro della città.
Negli anni passati questa zona è stata teatro di atti di malavita e quindi vittima di pregiudizi, anche da parte degli stessi napoletani. Ma da qualche anno, dopo un lungo processo di apertura e bonifica delle aree più chiuse del quartiere, il Rione Sanità sta vivendo una rinascita che ha permesso a molte realtà locali di riscoprire le bellezze che il quartiere offre e proporle come meta di visita per i turisti.
Una rinascita che deve molto a padre Antonio Loffredo, parroco della basilica di S.Maria della Sanità (nota anche come la Chiesa di San Vincenzo o’monacone). Tra i tanti interventi effettuati vanno citati i lavori che hanno reso agibili le Catacombe di San Gaudioso, situate esattamente “sotto” la Chiesa della Sanità. Lavori svolti dai ragazzi della Comunità Parrocchiale assistiti da un gruppo di professionisti (architetti, storici, designer, etc.), professionisti che hanno donato consulenza ed assistenza ad altissimo livello. Oggi è possibile visitarle , unitamente a quelle di San Gennaro (quest’ultime sono inserite nel tour del “miglio sacro”, un percorso pieno di sorprese). La gestione del tutto è stata affidata alla Cooperativa Paranza, costituita da ragazzi della Sanità. Con il lavoro “generato”, la Cooperativa ha prima creato posti di lavoro per altri ragazzi del quartiere e poi ha ‘filiato’, creando altre cooperative. E quindi altri posti di lavoro.
Ma Don Antonio non si è fermato qui. Ha lavorato molto anche con la cultura e le arti, creando anche qui dei posti di lavoro. Uno dei progetti più sorprendenti è quello dell’Orchestra Giovanile Sanitansamble: oltre 80 giovani, tra bambini e adolescenti dai 7 ai 24 anni, musicisti di due formazioni orchestrali (Orchestra Junior e Orchestra Giovanile). Orchestre dove spesso gli strumenti hanno dimensioni più grandi dei ragazzi che li suonano. La loro sede è nella basilica di San Severo alla Sanità, mentre la chiesa settecentesca dell’Immacolata e San Vincenzo dal 2013 sede del Nuovo Teatro Sanità , anche questo formato da ragazzi del quartiere. La chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi è la sede del laboratorio di Jago, un giovane scultore famoso per la scultura de Il figlio velato (una ‘cover’ del famoso Cristo Velato), mentre nella sacrestia della chiesa principale è stata aperta una palestra dove si svolgono corsi di boxe. Le vie di padre Loffredo (pardon, le vie del Signore) sono infinite…
Altre puntate di Onde Road su Napoli sono qui:
– La Napoli dei Maestri di Strada e del dios umano blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=4322
– Una Napoli altra blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=3356
Genova con i jeans
L’invenzione del jeans non è americana, come spesso si pensa, bensì europea, con l’Italia a giocare un ruolo fondamentale. Infatti il denim, il tessuto da cui tutto è cominciato, è nato a Nîmes, in Francia (l’etimologia del termine deriva per l’appunto da Serge de Nîmes): la svolta si ebbe però attorno al 1860, quando i produttori francesi elessero Genova a loro porto per gli scambi con gli Stati Uniti. È qui, nella capitale ligure, che venne cucito il primo paio di pantaloni fatti di quel cotone robustissimo blu indigo. Il Blue de Gênes o Blu di Genova. Con le grandi emigrazioni, intorno all’Ottocento, la tela blu di Genova arrivò in America dove venne utilizzata per creare abiti da lavoro per i minatori. Nel 1873 un sarto lettone del Nevada, Jacob W. Davis, prese quei primi jeans a modello e fu subito un successo. Davis si trovò sommerso dagli ordini: vendette 200 paia dei suoi jeans in pochi mesi, ma sopraffatto dalla quantità di richieste, si rivolse a un importante mercante della zona, Levi Strauss, proponendogli un accordo. Il commerciante fiutò l’affare e accettò di finanziare la creazione di una filiera produttiva a San Francisco. Ben presto la febbre del jeans contagiò prima l’America, poi il mondo. Una moda che Giuseppe Garibaldi aveva anticipato: nel 1860 infatti, lui e i suoi mille garibaldini, sbarcarono in Sicilia indossando, sotto la famosa camicia rossa, i jeans. Se quelli dell’eroe dei due mondi sono custoditi al Museo del Vittoriano, il Museo Diocesano di Genova ospita i bellissimi “Teli della Passione”: risalenti al 1500, sono quattordici teli raffiguranti Scene della Passione di Cristo e provengono da una delle chiese più amate dall’aristocrazia genovese, l’Abbazia benedettina di S. Nicolò del Boschetto in Val Polcevera, dove alcuni di essi vennero commissionati intorno al 1538, come apparato effimero per la Settimana Santa. Un incanto di lino e indaco. Proprio per questo suo longevo rapporto con questa stoffa la città di Genova ha un progetto ambizioso: creare un “Museo del Jeans”. Una vera e propria anteprima di questo museo è “Autunno blu: dal Blue de Gênes di ArteJeans London all’infinito di Yves Klein: 5 mostre di arte contemporanea col tema del Blu (sino al 17 gennaio 2021 a Villa Croce). Arazzi e broccati, al posto della ‘plebea’ tela jeans, erano invece le stoffe a farla da padrona nei Rolli: alloggiamenti pubblici di Genova ai tempi della “Superba”, erano le liste delle splendide dimore di nobili famiglie che ambivano a ospitare le alte personalità in transito per Genova in occasione delle visite di stato nell’Antica Repubblica. Se i rolli sono aperti al pubblico durante i Rolli Days, ogni giorno è buono per visitare Villa Durazzo Pallavicini a Pegli. un parco – giardino di ispirazione romantica che non ha eguali…
http://www.visitgenoa.it/ – http://www.museidigenova.it/ – http://www.villadurazzopallavicini.it
Vivere nella Valle dei Mocheni
Boschi di larici, l’albero più amato dagli allevatori perché consente la crescita del prato anche sotto la sua chioma, si inerpicano sino alle pendici delle creste degli Agorai, una delle catene più selvagge delle Dolomiti. Giovani arbusti rigogliosi vivono in simbiosi con le piante più vecchie, dai tronchi bitorzoluti e il legno scurissimo. Ripidi sentieri che appaiono e scompaiono nel verde di abetaie che fortunatamente sono state danneggiate solo parzialmente dal Vaia, la tempesta che nella notte tra il 28 e il 29 ottobre 2018 ha modificato il paesaggio delle Dolomiti sfigurando, solo in Trentino, quasi 20 mila ettari di boschi. E poi aceri, pioppi, faggi, castani che, man mano che si sale in quota lasciano spazio ad alpeggi da cartolina. Un territorio che se nei mesi primaverili ed estivi è un’esplosione di fiori, in autunno, con la caduta delle foglie dagli alberi decidui, diventa un fondale ideale per un fall foliage degno delle famose Indian Summer d’oltre oceano. E’ la Valle dei Mocheni, Fersental in tedesco. L’antropizzazione della vallata è sempre stata legata al fiume Fersina, che la attraversa. Il versante destro, quello più comodo (oggi arroccato intorno all’abitato di Sant’Orsola), è stato sempre abitato da popolazione di lingua italiana. E’ il classico insediamento costruito a raggiera intorno alla piazza della chiesa, il canonico centro urbano. Quello sinistro è un’enclave germanofona, identificabile con i centri di Frassilongo, Fierozzo e Palù: micro borghi circondati da prati disseminati da masi tradizionali da dove partono numerose escursioni. Qui, intorno al 1200, in seguito ad un aumento della popolazione della pianura bavarese, i signorotti germanici spronarono parte della loro popolazione contadina ad oltrepassare le Alpi e ad installarsi in alta quota, dove venivano dati loro dei terreni. Una chance, per questi immigrati bavaresi, di passare da servi della gleba a proprietari. Pare che il termine mòcheno derivi dalla parola tedesca “mache” che significa fare. Avendo ricevuto in dono terreni impervi, tra gli 800 e i 1400 metri d’altezza, per viverci dovettero metterci molto impegno. Divennero abili ‘roncadori’, ovvero realizzavano una trincea alla base del terreno da bonificare, profonda mezzo metro, e poi avanzavano liberando con le mani il suolo da sassi, radici, piante… sino a trovarsi con terreni completamente bonificati, pronti per essere coltivati. A questo punto potevano farsi un maso, e rendersi autosufficienti dotandosi di una filiera composta da bosco, terreno per pascolo e coltivazioni. I loro discendenti vivono ancora qui, assieme a ragazzi che hanno scelto di rimanere in valle, optando per le attività lavorative dei loro avi. A partire dall’agricoltura e dall’allevamento. Emil e Debora sono una giovane coppia che ha realizzato il proprio sogno: produrre formaggi di qualità con il latte delle loro vacche. Beatrice è una ragazza di 19 anni che sta vivendo nel maso del nonno, sopra Fierozzo San Felice, a 1600 mt d’altezza. Qui accudisce più di 200 capre, tra cui molte pezzate mochene. Agitu è titolare di una azienda agricola biologica sostenibile. Grazie alla passione ed alle conoscenze apprese dalla nonna materna alleva le capre e lavora il latte con metodi tradizionali producendo formaggi, yogurt e creme cosmetiche: tutto a base di latte caprino. Daniela invece è una giovane signora affiliata al comitato Bollait – Gente della Lana, nato per ridare vita a una filiera corta della lana in Val dei Mocheni. “Ogni anni in valle vengono prodotti tra i 3 e i 4 mila chilogrammi di lana che viene per lo più buttata, rappresentando un rifiuto speciale, costoso da smaltire. Inizialmente gli allevatori ci hanno fornito gratuitamente la lana, risparmiando il fatto di doverla smaltire. Ora grazie ad una serie di esperienze virtuose che abbiamo attivato vendiamo la lana e i nostri manufatti, riuscendo così a pagare la ‘materia prima’ ai pastori”.
www.valledeimocheni.it
www.visittrentino.info
Ascolta anche questa puntata di Onde Road: http://blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=880
E che il vento faccia il resto
«Dopo tanti, tanti libri dedicati alla montagna, quello di Marco Albino Ferrari, dedicato alla madre, è il più intimo e bello che abbia letto. La montagna c’è ancora: non sullo sfondo ma tutt’intorno a questa donna e questo ragazzino, paesaggio del loro amore segreto». Così scrive Paolo Cognetti di “Mia sconosciuta” (Ponte delle Grazie editore), il libro dove Marco Albino Ferrari racconta il suo intenso rapporto con Rosamaria, la madre. È lei – figlia ribelle della migliore borghesia – la sorprendente protagonista di questa storia vera. La passione per i ghiacciai, per gli alberi pionieri, per la grande montagna, per la vita in due, incessantemente in due: lei e il figlio Marco. Colonna sonora le note del repertorio pianistico che questa donna senza freni suona fino a notte fonda. I ricordi si allineano riempiendo un mondo speciale
e perciò carico di nostalgie. L’insospettabile vita a Courmayeur durante la guerra; l’unione clandestina con Edi Consolo, mitico agente segreto della Resistenza;
le notti senza luci della Milano della Ricostruzione, al bar Jamaica, con le avanguardie e i circoli dell’anti-accademia. Non la si sarebbe mai incontrata a un pranzo di nozze o a un veglione di capodanno. E nemmeno a un funerale. Li considerava inutili convenzioni sociali, consuetudini prive di senso. E poi i lunghi mesi estivi in montagna con il piccolo Marco, a cui trasmette il suo amore per la montagna. Tutto filtrato da una critica laica, da uno sguardo che milita contro ogni forma di retorica e di presunta purezza. Infine, alla soglia della morte, il gravoso passaggio del testimone di una madre che non vuole vedere il suo mondo e i suoi insegnamenti dissolversi con lei. “A lei” scrive Marco Albino Ferrari “non piaceva soprattutto l’idea di purezza, le piacevano gli ibridi, quasi per una forma ideologica. Io stesso ero un ibrido, nato da una donna latina e un uomo sconosciuto del Nord Europa; o meglio, ero un bastardo, come aveva detto lo zio Carlo…”