Viaggio tra le ceneri dell’URSS

Un viaggio in Transiberiana, la linea ferroviaria più lunga al mondo, che da Mosca arriva al Giappone. E’ questa l’esperienza che ci racconta Luciana Castellina: un viaggio sino in Siberia, in una terra che per noi si identifica con il gulag, ma per i russi è un Far West dello spirito. Geografie poco battute dal turismo e dai reportage, ci raccontano un paese di cui i media si sono dimenticati. Nižnij Novgorod (nota ai più come Gor’kij): la patria dell’omonimo venerato scrittore amico di Lenin e sede del confino del più celebre e ultimo dissidente sovietico, Sacharov. Kazan, la capitale non di una semplice regione, ma di una repubblica autonoma federata alla Russia: il Tatarstan. Tomsk, la capitale di una regione grande quattro volte la Germania, ma abitata solo da un milione di persone. Una città dove un abitante su quattro è studente universitario e 160 su 10.000 sono ricercatori. Una città che ha sei università più una serie imprecisata di istituti d’eccellenza. Ulan- Udè, capitale della Repubblica Autonoma Buriata, un posto dove Buddha e lo sciamanesimo hanno dovuto misurarsi ieri con il socialismo e oggi con il capitalismo. La prima riga di “Siberiana” (Nottetempo Edizioni), il libro dove la Castellina racconta questa esperienza, recita: “Poiché l’Urss era tanto russa, la Russia assomiglia ancora tanto all’Urss…”. E allora come corollario del viaggio di Luciana Castellina abbiamo incontrato anche Giampiero Piretto, autore de “La vita privata degli oggetti sovietici” (Sironi editore). E’ una sorta di ‘enciclopedia’ che prende in esame una serie di “cose”, oggi quasi del tutto defunzionalizzate della loro utilità, che hanno trovato posto in spazi culturali istituzionali, a salvaguardia della memoria di quanto hanno rappresentato per il cittadino sovietico durante i diversi periodi dell’esperimento socialista. Unendo l’esperienza personale a citazioni letterarie, artistiche e cinematografiche, Piretto ha costruito 25 percorsi che non solo raccontano il passato ma anche il presente di 25 oggetti (materiali e immateriali) made in CCCP, nell’uso e nell’immaginario collettivo. Ai nostri microfoni ci parla del Krasnaja Moskva, la risposta proletaria allo Chanel N.5: la colonna olfattiva dell’era sovietiva… E per contrappasso all’etereità di un profumo ci racconta la storia del bicchierie a faccette: solido resistente, proletario in tutto e per tutto…

Luciana Castellina: “Siberiana” (Nottetempo edizioni)
Gian Piero Piretto: “La vita privata degli oggetti sovietici” (Sironi editore)

Colonna Sonora: “Made in the USSR” by Oleg Gazmanov, la risposta ‘sovietica’ a “Born in the USA”
“Guitar” eseguita da Peter Nalitchi, canzone cult della nuova Russia

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L’isola Ferdinandea

Oggi l’Isola Ferdinandea è una piattaforma di roccia che si trova tra 6 e 8 metri sotto la superficie del marea tra Sciacca e l’isola di Pantelleria. Pare sia la bocca di un vulcano sommerso che di tanto in tanto erutta e riemerge. E’ quel che è successo nel 1831, quando si formò un’isola che crebbe fino ad una superficie di circa 4 km² e 65 m di altezza. Ma l’azione erosiva delle onde e la subsidenza dell’isola stessa fecero si che l’isola non ebbe vita lunga e così scomparve definitivamente sotto le onde nel gennaio del 1832. La sua scomparsa non ha portato però alla risoluzione del problema della sua sovranità perché l’isola faceva gola a chi era alla ricerca di avamposti strategici per gli approdi delle loro flotte mercantili e militari. Così il 2 agosto l’Inghilterra prese possesso dell’isola chiamandola “Graham”, suscitando le proteste dei siciliani. Il 26 settembre anche la Francia inviò un brigantino con a bordo il pittore Edmond Joinville, che realizzò i disegni dell’isola. I francesi la ribattezzarono “Iulia” in riferimento alla sua comparsa avvenuta nel mese di luglio, poi posero una targa a futura memoria e innalzarono sul punto più alto la bandiera francese. Allora Ferdinando II inviò sul posto il capitano Corrao che, sceso sull’isola, piantò la bandiera borbonica battezzando l’isola “Ferdinandea” in onore del sovrano. Da allora sono frequenti le voci di una riemersioni dell’isola che, ad oggi, continua a rimanere sott’acqua. Lo scorso luglio l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, nell’ambito del programma di controllo dei Vulcani sommersi dei mari italiani, ha dato il via a una campagna di monitoraggio multidisciplinare sottomarino nell’area dei banchi del Canale di Sicilia dove risiede la piattaforma della ex Isola Ferdinandea, il Banco Graham per i tecnici dell’INGV. Durante la campagna è stato eseguito un rilievo con un sonar di precisione che ha permesso di identificare 9 distinti crateri. A completamento delle operazioni sono stati deposti tre stazioni sismiche da fondo mare equipaggiate con sismometro. L’analisi dei dati permetterà di capire meglio lo stato di attività del vulcano. Il problema è che a causa dei tagli ministeriali agli istituti di ricerca come l’INGV si corre il rischio che le stazioni sismiche termineranno le loro batteria prima che qualcuno possa andare a ritirarle per leggerne i dati rilevati.

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Andalusia

Siviglia è la città d’Europa con il maggior numero di strade dedicate alla Madonna: 48 tra vie e piazze. Ma nell’Alcazar ha eretto un monumento a un monarca musulmano di tanto tempo fa, la cui stele recita: “La città al suo re Almutamid Ibn Abbad. 900 anni dopo”. Città meticcia come la sua musica, il flamenco: un suono figlio del viaggio del popolo rom dal Rajasthan all’estremo Occidente d’Europa. Siviglia è una città fatta per incontrarsi, per guardarsi, toccarsi, parlarsi. Il rito delle tapas sembra inventato apposta per facilitare tutte queste operazioni. Meglio diffidare dai locali del centro, perennemente battuti da nutrite pattuglie di turisti. Più saggio puntare sui quartieri frequentati dai sevillani, come l’Alameda de Hercules. Posta subito a nord del centro, è un’enorme spazio aperto, originariamente delimitato da pioppi (alamos in spagnolo), il cui suolo era coperto dall’alvero, la tipica terra sabbiosa andalusa di colore giallo. Dello stesso colore sono stati dipinti i mattoni che oggi lastricano la piazza. Frotte di ragazzini giocano a pallone su questo fondo dorato, utilizzando come porte le colonne di un tempio romano. Un’alternativa è offerta da quelli che i sivigliani chiamano Las Setas: i funghi. E’ il Metropol Parasol: una struttura fungiforme alta 30 metri, larga 75 e lunga 150, con sei “gambi” che sorreggono i “cappelli” formati da una “pelle” fatta di miscela di legno e poliuretano. Una architettura in grado di creare, sopra plaza de la Encarnaciòn, un’unica onda d’ombra. Al suo posto, per secoli, c’era un monastero. Successivamente dei mercati, e poi solo dei tristi parcheggi. Oggi grazie al Parasol si può passeggiare sopra plaza de la Encarnaciòn, percorrendo ondulati sentieri tracciati sui suoi tetti che regalano scorci fantastici su Siviglia. Una terza meta per delle ottime tapas è sull’altra sponda del Guadalquivir, a Triana. Qui una volta viveva la comunità gitana, oggi è un microcosmo di autenticità che merita di essere scoperto palmo a palmo. Se non si esagera con la birra si può affittare un kayak e, dopo aver solcato le acque del Guadalquivir, sbarcare nelle adiacenze del Padiglione della Navigazione, sull’isola della Cartuja. Disegnato e revisionato dall’architetto Guillermo Vázquez Consuegra, ospita mostre permanenti e temporanee legate alla navigazione. Lasciata Siviglia ci spingiamo a Marinaleda, una cittadina Andalusa che non conosce disoccupazione e prospera all’ombra della sua cooperativa agricola. E poi a Cordoba, la città della moschea della Mezquita, un gigantesco souvenir di quando i mori, giunti attraverso lo stretto di Gibilterra nel 711 d.C., scelsero Cordoba come capitale di al-Andalus, la Spagna islamica. Petra, una nostra ascoltatrice, ci svela il segreto degli azulejos de papel, e poi visiteremo il museo che ospita i quadri di Julio Romero de Torres, un pittore che dipinse prevalentemente figure femminili, more dal profondo sguardo misterioso, che produssero scandalo nei primi trent’anni del novecento per la potente carica erotica che offrivano attraverso la loro seminudità.

Link utili:

Info Turismo SpagnoloInfo Turismo SivigliaInfo Turismo Cordova

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La via dei lupi

Passo dopo passo, Marco Albino Ferrari ne “La via del lupo. Nella natura selvaggia dall’Appenino alle Alpi”(editore Laterza), ha rintracciato la ‘via’ che da circa quarant’anni il lupo è tornato a percorrere, fra luoghi marginali e misteriosi, dopo essere scomparso alla vista dell’uomo. Una via naturale attraverso foreste, altipiani, praterie d’alta quota, crinali, vallate secondarie e paesi isolati: l’altopiano di Castelluccio di Norcia, le Foreste Casentinesi, l’Appennino parmense, le Alpi Liguri, le Marittime, il Parco del Gran Paradiso, e ancora più in là, sull’arco alpino fino in Trentino. È lì che gli ultimi branchi sono stati avvistati, dove il Canis lupus italicus si incontrerà con altri esemplari in arrivo dalla Slovenia. Un incontro atteso, che forse completerà fino in fondo la via. Marco ci racconta del lavoro, negli anni Settanta, di un gruppo di giovani ricercatori (l’etologo tedesco Erik Zimen, David Mech, lupologo americano, e il romano Luigi Boitani, oggi titolare della cattedra di Zoologia dei Vertebrati all’Università La Sapienza di Roma) impegnati a studiare con metodi sperimentali ciò che all’epoca veniva ancora rappresentato come il “misterioso animale delle foreste” o il “divoratore di bambini”. Ci spiega come oggi viene rilevata e monitorata la presenza dei lupi. E risponde a Caterina, una nostra ascoltatrice che di mestiere alleva pecore e cavalli, che ci spiega perché se ieri i lupi erano in via di estinzione, oggi lo sono gli allevatori di pecore.

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L’ultimo viaggio

Una visita al cimitero Monumentale di Milano, accompagnati da Barbara della Scighera. La genesi di questo cimitero, che non era stato concepito per diventare ‘l’estrema dimora’ della Milano bene. La tomba con la falce e martello al posto della croce e quella dell’armaiolo ‘caduto colpito da mano amica’. E l’Edicola Toscanini, capolavoro liberty eretto su progetto dell’ingegnere Guarnaschelli per ospitare le spoglie del piccolo figlio del musicista, Giorgio, morto nel 1906 a Buenos Aires. La colonna sonora del cimitero di Bovolone, nella bassa veronese: il primo in Italia ad essersi dotato di una sound track d’oltretomba. A proposito di musicisti: il mausoleo di Peter Tosh a Belmont, in Giamaica, e la tomba del bluesman Willie Dixon. Il culto delle ‘anime pezzentelle’ a Napoli, ovvero le anime abbandonate per le quali nessuno prega. Il napoletano che pratica questo culto sceglie con cura la sua “capuzzèlla” (il teschio), la spolvera, la mette al riparo in uno “scaravàttuolo” (una tombìna), la coccola col “refrìsco” (un rito antico e complicato fatto di preghiere e attenzioni, di cui vi parlerò un’altra volta) e le dà un nome. Invece nel piccolo cimitero di Magdiel, a nord di Tel Aviv, c’è un piccolo cimitero con una piccola lapide con una scritta enigmatica, “Il sapone dei martiri”, che rimanda a una drammatica pagina dell’Olocausto. E infine, a proposito di memoria, una riflessione ‘a tema’ sui social network e i beni immateriali.

Il cimitero monumentale di Milano” Guida storico artistica di Giovanna Ginex e Ornella
Selvafolta, Silvana Editoriale

 

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A Piazza Armerina non c’è solo la Villa del Casale…

Piazza Armerina. Entroterra del Golfo di Gela, 700 mt d’altitudine. Nel mondo è conosciuta per i mosaici della Villa Romana del Casale, che dalla scorsa primavera sono tornati ad essere visitabili dopo imponenti operazioni di restauro. Purtroppo quello che tocca Piazza Armerina è solitamente un turismo mordi e fuggi. Un vero peccato perché la città merita una sosta di almeno un paio di giorni per le sue numerose chiese. E per i suoi musei, tra cui quello della Civiltà Mineraria: gestito da ex minatori della locale ospita alcune fotografie che documentano le condizioni infernali con cui dovevano convivere i minatori. La locale pinacoteca invece ospita il ritratto di un suo importante cittadino: il gesuita Prospero Intorcetta. Missionario in Cina nella seconda metà del XVII secolo, aveva come missione la tracciatura di un ponte tra Oriente ed Occidente. Dopo quattordici anni il gesuita armerino tornò in patria, custodendo nel suo modesto bagaglio un fragile e prezioso volume da lui scritto: la prima traduzione in latino di Confucio operata da un occidentale. Questo storico reperto oggi è uno dei preziosi volumi ospitati nella Biblioteca Comunale “Alceste e Remigio Roccella”, sita in quella che nel 1600 era una Casa Professa della Compagnia di Gesù. In luglio il chiostro dello stesso edificio ospita Piazza Jazz, una delle poche rassegne estive di jazz che guardano più alla qualità del cartellone che ai nomi di cassetta. Di grande richiamo è sicuramente la Venere di Morgantina, una scultura greca del V secolo avanti Cristo trafugata 30 anni dal locale sito archeologico, acquistata successivamente dal Paul Ghetty Museum di Malibu, che l’ha restituita dopo una lunga trattativa. La Venere oggi è il pezzo pregiato del Museo Archeologico di Aidone, un borgo a una decina di chilometri da Piazza Armerina che ospita un imponente sito archeologico i cui scavi si estendono in una vallata e sulle due colline che la racchiudono. Un agora, un piccolo teatro, alcuni mosaici al riparo sotto delle tettoie… sono un’infima parte delle ricchezze di quest’area archeologica. Peccato che non ci siano i soldi (e/o la volontà politica) per portare alla luce e sfruttare l’enorme tesoro sepolto da secoli in quest’area.

Link Utili:

Comune Piazza ArmerinaFestival Jazz di Piazza ArmerinaMuseo Archeologico di Aidone

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Il taccuino di viaggio di una ragazza rom

“I Rom hanno una mappa infinita nel palmo della mano. Io cercavo affannosamente la mia, strofinando sotto un filo d’acqua le mani sporche di terra; mio padre vedeva la sua, con più chiarezza. Avevo sei anni, e non sapevo ancora bene cosa volesse dire partire”. Una giovane Rom di nome Rebecca inizia a soli sei anni un forzato e lungo viaggio itinerante, che dal Sud America l’ha portata in Europa e infine in Italia. Una vita la sua, intrisa di drammi e dolori. Sgomberi forzati delle baracche, incendi nei campi di Napoli, lunghe notti all’addiaccio nei giardini pubblici di Milano, all’interno di vagoni abbandonati. Rebecca ha però una capacità fuori dal comune, un dono innato: comunica con i colori. Il fascino per la pittura la attrae fin dalla nascita e disegna usando quello che trova, bastoncini, mattonelle colorate e addirittura sassi. Finché qualcuno non le regala una scatola di tempere… Rebecca è venuta a trovarci a Radio Popolare e ci racconta dei suoi viaggi e della sua passione per la pittura. A qualche anno di distanza dall’ultima volta torna ai nostri microfoni anche Marina, una rom del campo milanese di via Idro. A differenza di Rebecca lei è stanziale da una vita. Ci racconta come si vive in un campo rom e i sogni di una donna madre di cinque figli…

L’arcobaleno di Rebecca” di Rebecca Covaciu (UR Edizioni) – Museo Art Brut di Losanna

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Cork e gli sport gaelici

‘Saoirse’ in gaelico significa libertà. Ed è con Erika Saoirse B., la nostra basista italo-irlandese, che iniziamo il nostro viaggio a Cork, città d’acqua e di commerci dell’Irlanda sud occidentale. E’ lei a raccontarci le magie di questo luogo, i suoi ponti sul fiume Lee, la sua birra (qui non azzardatevi a ordinare una Guinnes: si bevono la Murphy’s” e la “Beamish”, le due birre stout prodotte in loco), il suo mercato (English Market) dove si possono gustare le specialità gastronomiche locali… E il Cork Butter Museum, che non è una galleria kitch dove si espongono statue fatte di burro, ma un sito strettamente legato alla storia della città. Il museo infatti è ospitato nell’antica borsa del burro, un edificio del 1770 dove gli scambi si tennero fino al 1924. Il museo offre un interessante viaggio nella storia di un alimento che per l’economia della città ha significato molto. Prodotto nel sud dell’Irlanda , il burro veniva portato a Cork attraverso una rete di strade, le butter roads. Ogni mattina alle 11, nella Borsa, la commissione stabiliva il prezzo giornaliero e da qui il burro veniva esportato via nave in tutto il mondo… Imprescindibile una escursione a Cobh. Serve a ricordarci che qui la terra e il mare vivono in stretta connessione: i 15 minuti di treno che dividono Cork da Cobh corrono lungo un argine che non consente di capire dove lentamente scorre il fiume Lee e dove inizia il mare. Qui l’11 aprile 1912 attraccò per l’ultima volta il Titanic, prima della sua celeberrima tragedia. Oggi ci partono navi da crociera, che spesso sono salutate da una dozzina di signore vestite con gli abiti delle comparse del film sul Titanic… Sempre dal porto di Cobh, tra il 1815 e il 1970, partirono 3 milioni di irlandesi. Arrivavano la sera, trascorrevano la notte fra pinte di birra e nostalgia e se ne andavano il mattino dopo. Dicendo addio per sempre a chi -amici o familiari- li aveva accompagnati fin qui. Un’epopea ricordata oggi dalla statua dedicata ad Annie Moore. Situata davanti al Cobh Heritage Center rappresenta una ragazza quindicenne, che salpò sull’SS Nevada verso gli Stati Uniti il 20 dicembre 1891 in cerca di fortuna, e fu la prima nella storia, il 1 gennaio 1892 ad arrivare nel nuovo centro d’accoglienza di Ellis Island appena ufficialmente aperto. Obbligatoria la visita ad uno dei più bei musei d’Irlanda: l’Heritage Centre. Vi è raccontata l’epopea degli emigranti che partirono da Cobh sulle coffin ships, le ‘bare galleggianti’, ma anche l’odissea dei deportati verso l’Australia e dei loro viaggi massacranti, l’evoluzione commerciale del porto e le tragedie –come quella del Lusitania – che segnarono la storia della città.

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Obbligatorio, se siete da queste parti, anche una full immersion negli sport gaelici: una delle quintessenze dell’irishness. Provare a solcare le acque del Lee remando a bordo di un currach (una piccola imbarcazione indigena, costituito da un’ intelaiatura leggerissima, ricoperta in seguito da bitume per impermeabilizzarla) è più che un’attività motoria. E andare ad una partita di calcio gaelico e di hurling (i due sport più praticati, entrambi organizzati dalla GAA, l’Gaelic Athletic Association) significa capire un po’l’anima di un irlandese. Volendo strafare bisogna però assistere a una partita non in un posto qualsiasi, ma a Croke Park. Più che uno stadio, un monumento della storia irlandese. Qui il 21 novembre 1920 la polizia ausiliaria del Regno Unito sparò indiscriminatamente sulla folla durante la partita di calcio gaelico Dublino-Tipperary. I morti furono 12 spettatori ed un giocatore: Michael Hogan, capitano del Tipperary…

Link utili:

Cork Butter MuseumCobh Heritage CenterGaelic Athletic AssociationCroke ParkInfo per viaggi in Irlanda informazioni@tourismireland.com – Info voli per l’ Irlanda

Il bunker segreto di Tito

Nella graduatoria dei luoghi militari top secret il bunker di Konjic era indicato.con la sigla D- 0.Una denominazione che indicava che era il più segreto e il più importante. Per arrivarci da Sarajevo basta un’ora scarsa di macchina. Superato il borgo di Konjicsi costeggia la Neretva per qualche chilometro, poi oltrepassato un ponte, ci si trova davanti a una sbarra e a una casa anonima. Mostrati i documenti che autorizzano la visita si raggiunge una seconda casa, ancora più anonima, che nasconde l’ingresso dell’Atomska Ratna Komanda (ARK), il bunker costruito per Josip Broz Tito, anche se lui non ci mise mai piede. E’ una costruzione colossale, che ha richiesto 26 anni di lavori: dal 1953 al 1979. 6584 metri quadrati scavati dentro una montagna, a 300 metri di profondità. Il costo di quest’opera è astronomica: circa 5 miliardi di dollari. Si trattava di salvare una intera classe dirigente, quella jugoslava, da un ipotetico attacco nucleare. Oggi è un trionfo del vintage, un’orgia analogica. L’intenzione è di utilizzarlo come location per biennali d’arte contemporanea, che prendendo spunto dalla sigla in codice del bunker sono state battezzate “D-0 ARK Underground”. Una iniziativa che ha già ottenuto la targa europea d’attenzione culturale CECEL, un riconoscimento che il Consiglio d’Europa concede ai progetti d’eccellenza culturale. La prima edizione, celebratasi nel 2011, è stata curata da Serbia e Montenegro, la seconda nel 2013 toccherà a Croazia e Turchia (per il futuro si pensa a una biennale tedesco-polacca, e il sogno è di arrivare ad una edizione targata Usa-Russia). C’è molto simbolismo nel fatto che un posto come il bunker, ideato e costruito per rimanere chiuso, segreto, e riservato a un circolo ristretto di prescelti, rinasce e si apre ad un vasto pubblico, grazie all’arte, che per definizione è un concetto totalmente opposto a segreti e isolamenti.

Info pratiche. Gli accessi sono solo su prenotazione il lunedì, mercoledì e venerdì: non si può infatti accedere con mezzi propri, ma partecipare a tour organizzati dall’Ufficio Turistico di Konjić, i cui recapiti sono i seguenti:
Ufficio Turistico Konjić
Varda 1, – 88400 Konjic (BiH)
tel: +387 61 726 030
Biennale d’Arte D-O Ark
tel: +387 62 390 237
e-mail: bhbijenale@gmail.com

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Andare in Montagna in Afghanistan

Ferdinando Rollando è una guida alpina cresciuto sui sentieri e sulle nevi del Monte Bianco. Da qualche anno ha spostato il suo campo d’azione e lavora sulle impervie montagne dell’Afghanistan. Fa la guida ‘alpina’ e si occupa di un programma per la prevenzione delle valanghe (causa di centinaia di morti in quelle vallate). Parlando con lui scopriamo un Afghanistan lontano dalle cronache di guerra a cui siamo abituati. Montagne da scoprire in bicicletta o lungo infiniti sentieri. E, per chi se lo può permettere, arrampicandocisi sopra. Il posto più ‘tranquillo’ è la valle di Bamiyan, famosa in tutto il mondo per il sito archeologico nei suoi pressi: quello delle due enormi statue di Buddha scolpite nella roccia che nel marzo 2001 sono state distrutte ad opera dei talebani ed oggi sono oggetto di un progetto di ricostruzione sotto l’egida dell’UNESCO. Fernando organizza escursioni anche nel Badakhshan, una località dove gli ultimi nomadi kirghisi vivono a quote talmente elevate che secondo Marco Polo non riuscivano nemmeno ad arrivarci gli uccelli. Ferdinando oggi vive in Afghanistan per nove mesi all’anno. Un piccolo scampolo di questi mesi lo vive a Kabul, dove ha trovato il modo di fare da ‘consulente’ agli autori di “Kaboul Kitchen”,una sit com della televisione francese che ha come protagonisti ‘gli internazionali’ che vivono nella capitale afghana.

Per contattare la guida: ferdinando@rollando.com

Alpistan è un’associazione che vuole diffondere i valori e le competenze alpine nelle aree povere del mondo, finalizzata alla crescita dei rapporti interculturali, compatibile con la crescita dei diritti e della qualità di vita in tali aree.

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Gentrificazioni istanbuliote

Da qualche anno Cihangir è uno dei quartieri più trendy di Istanbul, amato da artisti, intellettuali e bohemienne. Il quartiere è nel distretto di Beyoğlu, a due passi dalla centralissima piazza Taksim, dove si concentra gran parte della vita notturna della città. Dalla fine dello scorso secolo Cihangir ha cominciato a diventare un rifugio naturale per gli artisti. Il quartiere era poco sicuro e quindi le case costavano poco: l’ideale per chi naviga sulle acque economicamente incerte dell’arte. Oltre agli artisti arrivarono gli studenti e i primi locali modaioli. Novità che, provocando un aumento degli affitti, che costrinsero (e costringono) i vecchi abitanti del quartiere ad andarsene. Scompaiono le sacche di disagio e la prostituzione, il quartiere perde la sua anima per mutuarla con un maquillage più snob e sofisticato. E’ un classico processo di gentrificazione, tipico di metropoli come Istanbul. In questi anni, nella città più moderna e cosmopolita della Turchia, abbiamo assistito alla scomparsa e successiva rinascita di numerosi quartieri. E’ successo a Sulukule, un vecchio insediamento nell’area della penisola storica di Istanbul, nella municipalità di Fatih, abitata da circa mille anni dalla comunità Rom. Non esiste più, raso al suolo. I Rom scacciati. Sta succedendo a Tarlabaşı (sempre nel distretto di Beyoğlu), un quartiere povero, considerato malfamato, su cui si sta abbattendo un fiume di cemento. Qui nel corso dei secoli hanno abitato levantini, greci, armeni, curdi e ancora oggi propone una notevole ricchezza sociale. Il progetto di riqualificazione prevede la nascita di un centro commerciale, un albergo di dieci piani e un residence: costruzioni che nulla hanno a che fare con il mantenimento del tradizionale carattere residenziale del quartiere, fatto da case che non superano il quinto piano. Il futuro di questi quartieri è una delle scommesse che la Istenbul del terzo millennio deve riuscire a vincere: allinearsi alle esigenze economiche, commerciali e turistiche attuali, evitando pero’ di fare scempio del patrimonio culturale e architettonico esistente. E di peggiorare le condizioni di vita dei residenti di questi storici quartieri. P.S. Proprio nel cuore di Cihangir lo scorso aprile Orhan Pamuk ha aperto un nuovo spazio espositivo: il Museo dell’Innocenza. Lo scrittore l’ha definito un “city museum”, un museo della vita quotidiana di Istanbul, un museo sentimentale della storia d’amore tra Kemal e Füsun, protagonisti del suo romanzo che ha dato il nome al museo. In 83 vetrine tematiche – una per ogni capitolo del libro – sono raccolti oggetti di ogni tipo (bicchieri, posate, saliere, vestiti, foto, cartoline, biglietti della lotteria, orecchini, scatole di fiammiferi, lampade, una mappa, un poster anatomico, modellini di treni e di navi, documentari del Bosforo per un tocco di post-modernità) che in ogni vetrina fermano un mondo a sé. E ogni vetrina è stata disegnata e allestita direttamente da Pamuk: che tra mercatini e abitazioni private ha reperito tutto il materiale esposto. (Indirizzo: Çukurcuma Caddesi 2, Beyoğlu, İstanbul – www.masumiyetmuzesi.org)

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Palermo due

Ovviamente anche per la seconda puntata dedicata a Palermo la nostra guida è “Vicoli vicoli. Palermo. Guida intima ai monumenti umani” di Alli Traina (Dario Flaccovio Editore). Alli ci racconta del rione degli “spersi” e delle geografie dei “Beati Paoli”, una setta segreta le cui origini si perdono nel tempo. Costanza Lanza di Scalea ci parla dei lavori dell’artista austriaco Uwe Jäentsch in piazza Garraffello, nel cuore della Vucciria. Vito, titolare del Gran Sultanato di Abalì, ci racconta che per bere ‘il sangue’ nella Taverna Azzurra (sempre nella Vucciria) non c’è bisogno di essere vampiri. Lo scrittore ed attore palermitano Davide Enia ci regala alcuni consigli sulla sua città (tra cui quello di leggere “Lume Lume” di Nino Vetri, Sellerio editore: ‘un racconto che è fatto con materiale poverissimo, di risulta; che però si rivela un gioiello raro che andrebbe custodito in cassaforte’). Mentre Raiz, musicista napoletano innamorato di Palermo, ci racconta della passione palermitana per la canzone partenopea. Tiziano ci porta nell’Associazione Culturale PaLab, mentre Giovanni, figlio dello storico titolare ci introduce alle magie del teatro Ditirammu, una enclave nella Kalsa dedita al canto e alla tradizione popolare, che con i suoi 52 posti a sedere è uno tra i più piccoli teatri in Italia e certamente l’unico del genere in Sicilia.

Link utili:

PaLabTeatro Ditirammu –  Costanza Lanza di Scalea e Uwe Jäentsch

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Palermo uno

“Palermo non ha una sola anima. Ne ha tante. Una per ogni quartiere storico, e anche di più. Tanti cuori pulsanti nascosti tra vicoli e chiesette, all’interno di piazze e mercati, battono ognuno a un ritmo diverso…”. E’ l’incipit di “Vicoli vicoli. Palermo. Guida intima ai monumenti umani”  (Alli Traina, Dario Flaccovio Editore), un agile volumetto che abbiamo utilizzato per la nostra immersione nelle geografie umane del capoluogo siciliano. Una esplorazione che, per essere raccontata, richiede almeno due puntate di Onde Road.
Nella prima è la stessa Alli Traina a raccontarci differenze e similitudini dei tre storici mercati palermitani: la Vucciria, Ballarò e quello del Capo. Alberto Coppola, che l’ha inventato, ci presenta  il Kursaal Kalesa, un centro polifunzionale che ha contribuito alla rinascita dell’antica cittadella-quartiere di Al-Halisah, la Kalsa. Un altro importante epicentro culturale della Kalsa è il Teatro Garibaldi, nei pressi di Piazza Magione, non lontano dalla Chiesa di Santa Maria dello Spasimo. Chiuso da anni, è diventato il simbolo di incuria e cattiva gestione delle istituzioni. Fabrizio Cammarata, esponente della nuova scena musicale palermitana, ci parla della sua “riapertura”, lo scorso 13 aprile, grazie all’occupazione effettuata da lavoratori dello spettacolo, della cultura e dell’arte. Un’occupazione che ha restituito simbolicamente il Garibaldi  alla città, ridandogli la sua  naturale funzione… Vito infine ci introduce nei locali del Gran Sultanato di Abalì. Sulla carta è un B&B, in realtà molto di più…

Link utili:

Centro polifunzionale Kursaal Kalhesa
Fabrizio Cammarata
Gran Sultanato di Abalì

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Sarajevo

La musica con cui inizia questa puntata è registrata in un istituto secondario di musica, all’interno del conservatorio di Sarajevo. L’aula ha una parete dove è incorniciato un buco, figlio di una granata che l’ha colpita durante i 1395 giorni di assedio. L’originalità è che il buco ha una forma che assomiglia ai confini dello stato bosniaco. A guerra finita incorniciarlo con due lastre di vetro è stato un attimo. Una puntata dove sentiremo la voce di chi abita nella capitale dello stato ‘del buco’. Parleremo delle rose di Sarajevo, delle sue squadre di calcio e dei suoi tanti cimiteri. Del birrificio dove  si produce la Sarajevska, più che una birra un orgoglio nazionale. E del palazzo della storica biblioteca cittadina, la più grande e ricca  di tutti i Balcani, prima di essere bombardata dai serbi nell’agosto del ’92. Ascolteremo la voce di chi in quei giorni lavorava in quel palazzo. E di chi oggi lavora nella nuova biblioteca. Ascolteremo il vicario dell’arcivescovo cattolico, delegato alle relazioni interreligiose. E i ricordi e le riflessioni di Sanja, una ragazza che quando è cominciato l’assedio aveva tre anni…

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La Sarajevo di Kanita Focak

Kanita Focak, architetto, interprete giudiziario per la lingua italiana e per la lingua bosniaco-croata-serba, sarajevese. Di origine dalmate, con nonni veneziani, sposata in prime nozze con un serbo ortodosso, in seconde nozze con un mussulmano, madre di due figli, vittima diretta dell’assedio di Sarajevo che l’ha lasciata vedova. Sarà lei a raccontarci la sua città, una città la cui pluralità culturale si è dimostrata un ottimo materiale incendiario. Di quando ci è arrivata da bambina. Di come se ne è innamorata. Della guerra e dell’assedio. Ma anche della voglia di cultura che c’era durante i 1395 giorni d’assedio. Delle rappresentazioni teatrali al Kamerni Teatar 55, un teatro che non ha mai chiuso i battenti durante l’assedio e che anche oggi ha la sua sede al terzo piano di un condominio. Kanita ci racconta dei politici di oggi e delle speranze per il domani. Infine ci regala una colonna sonora per la Saraievo della sua infanzia, di quella della guerra e di quella odierna.

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