LA NAPOLI DEL RIONE SANITA’

Il Rione Sanità di Napoli è una delle zone meno considerate dai turisti, invece è un quartiere che ha moltissimo da offrire. La prima cosa che colpisce quando ci si arriva è l’imponente Ponte Maddalena Cerasuolo, che scavalca l’intero rione sovrastando le case e tagliando letteralmente gli edifici circostanti. Edificato agli inizi del 1800 dai francesi, aveva la funzione di collegamento della Reggia di Capodimonte con il resto della città senza dover passare attraverso gli stretti vicoli del vallone della Sanità. La sua esistenza però fece si che la maggior parte della gente potesse spostarsi senza dover scendere nel rione, che diventò di fatto una periferia nel centro della città.
Negli anni passati questa zona è stata teatro di atti di malavita e quindi vittima di pregiudizi, anche da parte degli stessi napoletani. Ma da qualche anno, dopo un lungo processo di apertura e bonifica delle aree più chiuse del quartiere, il Rione Sanità sta vivendo una rinascita che ha permesso a molte realtà locali di riscoprire le bellezze che il quartiere offre e proporle come meta di visita per i turisti.
Una rinascita che deve molto a padre Antonio Loffredo, parroco della basilica di S.Maria della Sanità (nota anche come la Chiesa di San Vincenzo o’monacone). Tra i tanti interventi effettuati vanno citati i lavori che hanno reso agibili le Catacombe di San Gaudioso, situate esattamente “sotto” la Chiesa della Sanità. Lavori svolti dai ragazzi della Comunità Parrocchiale assistiti da un gruppo di professionisti (architetti, storici, designer, etc.), professionisti che hanno donato consulenza ed assistenza ad altissimo livello. Oggi è possibile visitarle , unitamente a quelle di San Gennaro (quest’ultime sono inserite nel tour del “miglio sacro”, un percorso pieno di sorprese). La gestione del tutto è stata affidata alla Cooperativa Paranza, costituita da ragazzi della Sanità. Con il lavoro “generato”, la Cooperativa ha prima creato posti di lavoro per altri ragazzi del quartiere e poi ha ‘filiato’, creando altre cooperative. E quindi altri posti di lavoro.
Ma Don Antonio non si è fermato qui. Ha lavorato molto anche con la cultura e le arti, creando anche qui dei posti di lavoro. Uno dei progetti più sorprendenti è quello dell’Orchestra Giovanile Sanitansamble: oltre 80 giovani, tra bambini e adolescenti dai 7 ai 24 anni, musicisti di due formazioni orchestrali (Orchestra Junior e Orchestra Giovanile). Orchestre dove spesso gli strumenti hanno dimensioni più grandi dei ragazzi che li suonano. La loro sede è nella basilica di San Severo alla Sanità, mentre la chiesa settecentesca dell’Immacolata e San Vincenzo dal 2013 sede del Nuovo Teatro Sanità , anche questo formato da ragazzi del quartiere. La chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi è la sede del laboratorio di Jago, un giovane scultore famoso per la scultura de Il figlio velato (una ‘cover’ del famoso Cristo Velato), mentre nella sacrestia della chiesa principale è stata aperta una palestra dove si svolgono corsi di boxe. Le vie di padre Loffredo (pardon, le vie del Signore) sono infinite…

Altre puntate di Onde Road su Napoli sono qui:
– La Napoli dei Maestri di Strada e del dios umano blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=4322
– Una Napoli altra blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=3356

Genova con i jeans

L’invenzione del jeans non è americana, come spesso si pensa, bensì europea, con l’Italia a giocare un ruolo fondamentale. Infatti il denim, il tessuto da cui tutto è cominciato, è nato a Nîmes, in Francia (l’etimologia del termine deriva per l’appunto da Serge de Nîmes): la svolta si ebbe però attorno al 1860, quando i produttori francesi elessero Genova a loro porto per gli scambi con gli Stati Uniti. È qui, nella capitale ligure, che venne cucito il primo paio di pantaloni fatti di quel cotone robustissimo blu indigo. Il Blue de Gênes o Blu di Genova. Con le grandi emigrazioni, intorno all’Ottocento, la tela blu di Genova arrivò in America dove venne utilizzata per creare abiti da lavoro per i minatori. Nel 1873 un sarto lettone del Nevada, Jacob W. Davis, prese quei primi jeans a modello e fu subito un successo. Davis si trovò sommerso dagli ordini: vendette 200 paia dei suoi jeans in pochi mesi, ma sopraffatto dalla quantità di richieste, si rivolse a un importante mercante della zona, Levi Strauss, proponendogli un accordo. Il commerciante fiutò l’affare e accettò di finanziare la creazione di una filiera produttiva a San Francisco. Ben presto la febbre del jeans contagiò prima l’America, poi il mondo. Una moda che Giuseppe Garibaldi aveva anticipato: nel 1860 infatti, lui e i suoi mille garibaldini, sbarcarono in Sicilia indossando, sotto la famosa camicia rossa, i jeans. Se quelli dell’eroe dei due mondi sono custoditi al Museo del Vittoriano, il Museo Diocesano di Genova ospita i bellissimi “Teli della Passione”: risalenti al 1500, sono quattordici teli raffiguranti Scene della Passione di Cristo e provengono da una delle chiese più amate dall’aristocrazia genovese, l’Abbazia benedettina di S. Nicolò del Boschetto in Val Polcevera, dove alcuni di essi vennero commissionati intorno al 1538, come apparato effimero per la Settimana Santa. Un incanto di lino e indaco. Proprio per questo suo longevo rapporto con questa stoffa la città di Genova ha un progetto ambizioso: creare un “Museo del Jeans”. Una vera e propria anteprima di questo museo è “Autunno blu: dal Blue de Gênes di ArteJeans London all’infinito di Yves Klein: 5 mostre di arte contemporanea col tema del Blu (sino al 17 gennaio 2021 a Villa Croce). Arazzi e broccati, al posto della ‘plebea’ tela jeans, erano invece le stoffe a farla da padrona nei Rolli: alloggiamenti pubblici di Genova ai tempi della “Superba”, erano le liste delle splendide dimore di nobili famiglie che ambivano a ospitare le alte personalità in transito per Genova in occasione delle visite di stato nell’Antica Repubblica. Se i rolli sono aperti al pubblico durante i Rolli Days, ogni giorno è buono per visitare Villa Durazzo Pallavicini a Pegli. un parco – giardino di ispirazione romantica che non ha eguali…

http://www.visitgenoa.it/http://www.museidigenova.it/http://www.villadurazzopallavicini.it

 

Vivere nella Valle dei Mocheni

 

Boschi di larici, l’albero più amato dagli allevatori perché consente la crescita del prato anche sotto la sua chioma, si inerpicano sino alle pendici delle creste degli Agorai, una delle catene più selvagge delle Dolomiti. Giovani arbusti rigogliosi vivono in simbiosi con le piante più vecchie, dai tronchi bitorzoluti e il legno scurissimo. Ripidi sentieri che appaiono e scompaiono nel verde di abetaie che fortunatamente sono state danneggiate solo parzialmente dal Vaia, la tempesta che nella notte tra il 28 e il 29 ottobre 2018 ha modificato il paesaggio delle Dolomiti sfigurando, solo in Trentino, quasi 20 mila ettari di boschi. E poi aceri, pioppi, faggi, castani che, man mano che si sale in quota lasciano spazio ad alpeggi da cartolina. Un territorio che se nei mesi primaverili ed estivi è un’esplosione di fiori, in autunno, con la caduta delle foglie dagli alberi decidui, diventa un fondale ideale per un fall foliage degno delle famose Indian Summer d’oltre oceano. E’ la Valle dei Mocheni, Fersental in tedesco. L’antropizzazione della vallata è sempre stata legata al fiume Fersina, che la attraversa. Il versante destro, quello più comodo (oggi arroccato intorno all’abitato di Sant’Orsola), è stato sempre abitato da popolazione di lingua italiana. E’ il classico insediamento costruito a raggiera intorno alla piazza della chiesa, il canonico centro urbano. Quello sinistro è un’enclave germanofona, identificabile con i centri di Frassilongo, Fierozzo e Palù: micro borghi circondati da prati disseminati da masi tradizionali da dove partono numerose escursioni. Qui, intorno al 1200, in seguito ad un aumento della popolazione della pianura bavarese, i signorotti germanici spronarono parte della loro popolazione contadina ad oltrepassare le Alpi e ad installarsi in alta quota, dove venivano dati loro dei terreni. Una chance, per questi immigrati bavaresi, di passare da servi della gleba a proprietari. Pare che il termine mòcheno derivi dalla parola tedesca “mache” che significa fare. Avendo ricevuto in dono terreni impervi, tra gli 800 e i 1400 metri d’altezza, per viverci dovettero metterci molto impegno. Divennero abili ‘roncadori’, ovvero realizzavano una trincea alla base del terreno da bonificare, profonda mezzo metro, e poi avanzavano liberando con le mani il suolo da sassi, radici, piante… sino a trovarsi con terreni completamente bonificati, pronti per essere coltivati. A questo punto potevano farsi un maso, e rendersi autosufficienti dotandosi di una filiera composta da bosco, terreno per pascolo e coltivazioni. I loro discendenti vivono ancora qui, assieme a ragazzi che hanno scelto di rimanere in valle, optando per le attività lavorative dei loro avi. A partire dall’agricoltura e dall’allevamento. Emil e Debora sono una giovane coppia che ha realizzato il proprio sogno: produrre formaggi di qualità con il latte delle loro vacche. Beatrice è una ragazza di 19 anni che sta vivendo nel maso del nonno, sopra Fierozzo San Felice, a 1600 mt d’altezza. Qui accudisce più di 200 capre, tra cui molte pezzate mochene. Agitu è titolare di una azienda agricola biologica sostenibile. Grazie alla passione ed alle conoscenze apprese dalla nonna materna alleva le capre e lavora il latte con metodi tradizionali producendo formaggi, yogurt e creme cosmetiche: tutto a base di latte caprino. Daniela invece è una giovane signora affiliata al comitato Bollait – Gente della Lana, nato per ridare vita a una filiera corta della lana in Val dei Mocheni. “Ogni anni in valle vengono prodotti tra i 3 e i 4 mila chilogrammi di lana che viene per lo più buttata, rappresentando un rifiuto speciale, costoso da smaltire. Inizialmente gli allevatori ci hanno fornito gratuitamente la lana, risparmiando il fatto di doverla smaltire. Ora grazie ad una serie di esperienze virtuose che abbiamo attivato vendiamo la lana e i nostri manufatti, riuscendo così a pagare la ‘materia prima’ ai pastori”.

www.valledeimocheni.it
www.visittrentino.info
Ascolta anche questa puntata di Onde Road: http://blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=880

E che il vento faccia il resto

«Dopo tanti, tanti libri dedicati alla montagna, quello di Marco Albino Ferrari, dedicato alla madre, è il più intimo e bello che abbia letto. La montagna c’è ancora: non sullo sfondo ma tutt’intorno a questa donna e questo ragazzino, paesaggio del loro amore segreto». Così scrive Paolo Cognetti di “Mia sconosciuta” (Ponte delle Grazie editore), il libro dove Marco Albino Ferrari racconta il suo intenso rapporto con Rosamaria, la madre. È lei – figlia ribelle della migliore borghesia – la sorprendente protagonista di questa storia vera. La passione per i ghiacciai, per gli alberi pionieri, per la grande montagna, per la vita in due, incessantemente in due: lei e il figlio Marco. Colonna sonora le note del repertorio pianistico che questa donna senza freni suona fino a notte fonda. I ricordi si allineano riempiendo un mondo speciale
e perciò carico di nostalgie. L’insospettabile vita a Courmayeur durante la guerra; l’unione clandestina con Edi Consolo, mitico agente segreto della Resistenza;
le notti senza luci della Milano della Ricostruzione, al bar Jamaica, con le avanguardie e i circoli dell’anti-accademia. Non la si sarebbe mai incontrata a un pranzo di nozze o a un veglione di capodanno. E nemmeno a un funerale. Li considerava inutili convenzioni sociali, consuetudini prive di senso. E poi i lunghi mesi estivi in montagna con il piccolo Marco, a cui trasmette il suo amore per la montagna. Tutto filtrato da una critica laica, da uno sguardo che milita contro ogni forma di retorica e di presunta purezza. Infine, alla soglia della morte, il gravoso passaggio del testimone di una madre che non vuole vedere il suo mondo e i suoi insegnamenti dissolversi con lei. “A lei” scrive Marco Albino Ferrari “non piaceva soprattutto l’idea di purezza, le piacevano gli ibridi, quasi per una forma ideologica. Io stesso ero un ibrido, nato da una donna latina e un uomo sconosciuto del Nord Europa; o meglio, ero un bastardo, come aveva detto lo zio Carlo…”

Mia Sconosciuta

Dove abitano gli scrittori

Il castello di Saché, nella valle dell’Indre, è uno dei noti castelli della Loira. Honoré de Balzac vi trascorse brevi soggiorni in fuga dalla stressante vita della società parigina e dal consueto assalto dei creditori. In compenso vi ambientò più di un tomo, tra cui “Il curato di Tours” e “Il Giglio nella valle”. E vi compose altrettanti volumi. Qui Balzac gustava il vino equilibrato e generoso di Vouvray con cui sovente annaffiava i suoi irregolari pasti rablesiani. Era capace, dopo due o tre giorni di digiuno e di scrittura diurna e notturna, di deglutire anche cento ostriche e sei pernici in un solo pranzo. Un altro castello da visitare è quello dove vissero Voltaire e Gabrielle-Emilie de Breteuil. Sposata con il marchese di Chatelet, dal quale ebbe tre figli, era interessata agli studi scientifici, cosa piuttosto insolita per una donna del Settecento. Passione che la mise in rapporto con Voltaire: una conoscenza stimolante per le sue ricerche. Voltaire era considerato un uomo freddo, cinico e calcolatore, alieno alle passioni romantiche e implacabile fustigatore della mentalità del suo tempo. Lo scrittore pagò con frequenti soggiorni in galera la causticità delle sue opere. Fu proprio per sfuggire all’ennesima condanna che si rifugiò a Cirey (allora territorio del ducato di Lorena, indipendente dalla Francia). La dimora di campagna dei coniugi du Chatelet fu rinnovata e sontuosamente rifinita da Voltaire stesso, a proprie spese. Con l’amica Emilie, il filosofo mise a punto un rigoroso piano di studi da attuare nella villa, con orari esattamente definiti per l’attività intellettuale, le conversazioni, i pasti, il teatro e la musica. Non è mai stata chiarita fino in fondo la reale natura dei rapporti fra Voltaire e Madame du Chatelet. Una cosa però è certa: Voltaire non provò per nessun’altra persona un sentimento cosi profondo. Voltaire non ruppe con lei nemmeno quando, nel 1748, Emilie si innamorò del marchese Saint-Lambert e ne restò incinta Ed è certo che la morte della marchesa di Chatelet lo portò quasi alla disperazione. La casa di Samuel Beckett a Ussy-sur-Marne, 60 km dal centro di Parigi, è una abitazione spoglia, una sorta di “capanna arredata” con il telefono abilitato solo a chiamare e non a ricevere. Una villetta isolata, a tre chilometri dal centro. Più che una abitazione fu una cella monastica e qui Beckett si chiuse per scrivere la maggior parte dei suoi capolavori. Quando frequentava questa casa Beckett era sposato con Suzanne Déchevaux-Dumesnil. Però amava già Barbara Bray, giovane produttrice e redattrice inglese che aveva conosciuto a Londra, che per lui aveva lasciato la carriera alla Bbc e a 36 anni si era trasferita a Parigi. In Francia Barbara diventò protagonista della vita intellettuale dell’epoca con le sue traduzioni di Sartre, Robbe-Grillet, Genet e in particolare di Marguerite Duras, della quale era amica. Rimase al fianco di Beckett per quasi trent’anni: compagni intellettuali e anche innamorati. La casa oggi è in Rue Samuel Beckett. “To rue” in inglese significa soffrire, e quella per Barbara era la strada della sofferenza, del suo doloroso amore per Beckett. Un uomo che la amava, ma non aveva mai voluto separarsi dalla moglie. Per lui Barbara era diventata «la donna invisibile». In quella casa Beckett non invitava nessuno. A parte Barbara. Lei lo spronava a scrivere, gli suggeriva i libri da leggere, lo consigliava sulle traduzioni delle sue opere. A volte andava a vedere di nascosto le rappresentazioni dei suoi drammi a teatro, per fargli da «spia». Un’intesa totale, romantica e intellettuale. Dalla casa di Ussy, per la precisione dal suo tavolino in giardino, Beckett scriveva a Barbara e leggeva le sue lettere: se ne sono scambiate migliaia in quasi tre decenni di amore nascosto. Oggi 720 missive di Beckett a Barbara sono state pubblicate nella collana delle sue Lettere della Cambridge University Press: così tutti possono sapere quanto fossero vicini. Ed è grazie a queste lettere che Barbara Bray è un po’ meno la donna invisibile.
Della casa nel Peloponneso di Sir Patrick Leigh Fermor, nella penisola del Mani (frequentata anche da Bruce Chatwin), ne parliamo anche in questa puntata di Onde Road.

Per approfondimenti su queste e altre case di scrittori consiglio “Le case dei miei scrittori”, l’ottimo libro di Évelyne Bloch-Dano (ed. ADD).

Brughiere, foreste e “casette” per i libri

Brughiere, foreste e “casette” per i libri

Camminare dentro un bosco è una magia. E camminare aiuta a riflettere. È forse questo uno dei motivi per i quali alcune delle pagine più belle della letteratura mondiale sono ambientate all’interno di foreste, luoghi magici in cui il nostro essere si fonde con la natura, inducendoci al raccoglimento e alla riflessione. Molti di questi boschi non sono frutto della fantasia degli autori, ma esistono nella realtà e sono visitabili. E’ il caso delle brughiere inglesi dello Yorkshire che fanno da sfondo a “Cime Tempestose”, il capolavoro delle sorelle Brontë. Un magico mondo immerso in un’incantata atmosfera dove il tempo sembra essersi fermato. Le origini del bosco dei cento acri di Winnie Pooh invece pare sia una sintesi tra i ricordi d’infanzia di Alan Alexander Milner (autore della serie di libri con protagonista il celebre orsacchiotto), quelli di suo figlio di quando aveva tra i quattro e gli otto anni, e la topografia del loro terreno idilliaco nel sud dell’Inghilterra. Questo mondo ideale si rispecchia in tre particolari luoghi fisici: la casa di campagna di Milne e il giardino nello stile del XVI secolo; una brughiera di 24 chilometri quadrati, chiamata Ashdown Forest; e il vicino bosco privato, chiamato il Five Hundred Acre Wood, il Bosco da cinquecento acri. Se il Parco Nazionale di Pench  è la residenza di Mowgli, il figlio della giungla. La mitica Foresta Proibita di Harry Potter è la trasposizione letteraria della foresta del Dean , nel Gloucestershire occidentale. Diversa la storia che arriva da una foresta della zona di Nordmarka, nei pressi di Oslo. E’ una foresta di 1000 alberi, destinati a crescere indisturbati fino al 2114. Dal 2014 è parte integrante della costituenda Future Library , un lungimirante progetto culturale di land art concettuale dell’artista scozzese Katie Paterson che prevede che, alla fine della loro crescita, questi alberi vengano destinati a produrre carta per stampare libri. Ogni anno viene richiesto ai maggiori autori contemporanei un loro manoscritto che deve rispondere a semplici regole: la completa originalità delle scritto, che non deve essere noto a nessuno oltre che all’autore. Ovviamente l’autore piena libertà sull’opera, che può essere di qualsiasi lunghezza o genere. Il manoscritto sigillato viene conservato in una specie di capsula del tempo (una Silent Room presso la Biblioteca Deichmann di Oslo) e verrà dato alle stampe in 3000 copie alla scadenza del 2114. Quello delle little free library infine è un fenomeno esploso nel 2009, negli Stati Uniti d’America, quando Todd Bol e Rick Brooks inaugurarono la loro prima impresa sociale. Aprì così, lungo una pista ciclabile in Wisconsin, la prima libreria libera della storia. Oggi le little free library registrate sono migliaia e se ne trovano in tutto il mondo. Anche a Formigine, nel modenese. L’idea è venuta a Elena Barbieri nel 2012: ne installò una, tettuccio spiovente bianco e pareti rigorosamente laccate di rosso, che poteva contenere cinquanta libri. La battezzò Biblioteca del Gufo perchè “è sempre aperta, pure di notte. E in effetti alle 2 o alle 3 possono passare i ragazzi che escono dalla birreria, tanto è sempre illuminata”. Oggi quella casetta dei libri ha sette succursali, più un capannone che fa da magazzino. Dallo scorso 30 marzo, la casetta di via Mazzini 99 a Formigine, con l’autorizzazione del Comune, è diventata anche un punto di solidarietà. Chi non lavora e non può fare la spesa può trovarci beni di prima necessità. Chi è fortunato può lasciare pasta, sughi, biscotti, latte a lunga conservazione, scatolame e prodotti per l’igiene a chi ora non può comprarli.

Viaggio nel deserto marocchino

Prima ancora che un luogo geografico, il Grande Sud del Marocco è uno stato d’animo. Le suggestioni che suscita sono molte e potenti: i colori che da giallo-calcare lanciano improvvisi acuti color ocra, rosso-mattone, viola, nero; poi lo spazio, quello pieno delle montagne dell’Atlante e quello vuoto, che galleggia trasparente e silenzioso ovunque; e, inscindibile dallo spazio, il tempo, che frequentemente è quello passato, a volte prossimo a volte remoto, raramente quello futuro, quasi mai quello presente. Un viaggio nelle terre dell’orgoglioso popolo amazigh, quello che impropriamente chiamiamo berbero. Partenza da Marrakech, dopo una visita al Museo dell’Arte Culinaria. Uscendo dalla città, lungo la strada per Ouarzazate, tappa al Museo d’arte contemporanea africana Al Maaden: oltre 2.000 opere di arte moderna e contemporanea di artisti africani, residenti e della diaspora. Marrakech è la coordinata geografica che separa due realtà marocchine economicamente molto diverse. Le terre da Marrakech al mare, storicamente legate a ricchi proprietari terrieri, da sempre beneficiari di pingui investimenti governativi. Quelle da Marrakeck al deserto invece sono divise tra piccoli appezzamenti di proprietà di famiglie amazigh e qui gli investimenti statali sono pressochè inesistenti. Superato il passo del Tizi’n Tichka c’è una vera e propria curvatura spazio-temporale: il colore diventa quello rosso-mattone della roccia e dei villaggi fortificati (ksour) che si sciolgono alle intemperie come castelli di sabbia abbandonati da un bambino capriccioso. Le strade diventano sterrate e polverose e il passato coloniale mostra le sue cicatrici. Come a Tèlouet, sede di una kasbah dove visse Haj Thami el-Glaoui, ultimo pascià di Marrakech, che qui ospitò personaggi come Yves Saint Laurent, Charlie Chaplin, il generale Patton e Charles de Gaulle. Altre tappe imperdibili sono lo ksar di Aït Benhaddou, lungo la valle dell’Ounila, e l’oasi di Fint (in amazigh “oasi nascosta”), un insieme di 4 piccoli villaggi al confine con uno stretto palmeto, verde e affascinante, che si estende lungo il Wadi Fint per alcuni chilometri. Superata Ouarzazate la strada si inoltra per la valle del Draa, il fiume più lungo e importante del Marocco. La vallata è un interminabile palmeto punteggiato di kasbah secolari, dove una delle più affascinanti è sicuramente quella del Caides (sultano) a Tamnougalt. Zagora, capitale della valle del Draa, è la porta del deserto. A certificarlo ci pensa un cartello stradale, uno dei più fotografati del Marocco, che indica la direzione per Timbuctù informando che la distanza, a dorso di cammello, è di 52 giorni. La vegetazione è sempre più rara. Qualche palma, rade sterpaglie ed immense pietraie. Quando le dune di Merzouga sono già a portata di sguardo il lago Dayet Srij offre le sue acque a rondini, fenicotteri e cicogne. E’ un originale preludio ad uno dei punti più affascinanti del deserto del Sahara: le dune dell’Erg Chebbi. Un mondo fatto solo di albe e tramonti, il resto è sole senza ombra. Le dune, alte sino a 160 metri, vengono instancabilmente modellate dal vento e un occhio attento scopre che qui la natura è morta solo apparentemente. Di notte l’assenza di inquinamento luminoso permette di scrutare un cielo dove la Via Lattea è chiarissima e le stelle sorprendentemente luminose e grandi. Il massimo è assistere, seduti sotto un incredibile baldacchino di stelle, a un concerto di un gruppo gnawa locale: gli Gnawa Khamilia. Un sound dove l’incessante poliritmia delle percussioni e delle nacchere di ferro si amalgama con l’ipnotica melodia del guembri…

La Napoli dei maestri di strada e del Dios umano

Maestro di strada è un nome forse coniato a New York, forse in Israele. I maestri di strada di Napoli lo hanno introdotto nell’uso comune per designare in modo efficace un modo di educare diverso a quello in uso nel nostro sistema scolastico, ma forse più vicino ai modi originari dei maestri. Sono una cinquantina e secondo Cesare Moreno, il loro coordinatore, la loro mission è iniziare una trasformazione educativa nelle scuole, partendo dagli insegnanti. Maestro di strada significa mettersi sulla strada di chi vuole crescere e accompagnarlo – essere dalla sua parte e non di fronte a lui – per mostrargli la strada muovendo i passi per primi o osservandone e guidandone i passi. E’ con Nicola, uno di loro, che abbiamo raggiunto San Giovanni a Teduccio, un ex quartiere operaio, dove abbiamo incontrato Alessandro del Centro Giovanile Asterix che ci raccontato del suo lavoro presso il Centro Informagiovani. San Giovanni a Teduccio è un quartiere dell’area orientale di Napoli dove, secondo alcuni storici, viveva Theodosia, la figlia del grande imperatore romano Teodosio. In effetti, proprio all’interno della contrada, nel corso di alcuni scavi, furono trovati dei resti archeologici, in particolare una colonna, probabilmente una pietra miliare, recante il nome di “Balentiniano Tiudosio et Arcadio” ovvero Valentiniano di Teodosio e del figlio Arcadio. Secondo una leggenda, intorno a queste colonne, si svolgevano grandi feste alle quali partecipavano le maggiori personalità di Napoli. Con il tempo si prese l’abitudine di appellare tutta la zona “at Theodociam, per indicare che tali feste si svolgevano proprio nei pressi della villa di Theodosia. Il toponimo At Theodociam venne poi, con il tempo, trasformato in Teduccio. Oggi, se ci si trova da quelle parti, non si può non andare in via Taverna del Ferro a vedere i giganteschi murales di Jorit Agoch che campeggiano sulle due facciate degli edifici del cosiddetto Bronx di via Taverna del Freddo. “Dios Umano” e “Essere Umani”. Da una parte il volto di Diego Armando Maradona e dall’altra la faccia dello “scugnizzo” Niccolò. Niccolò con il suo volto simboleggia l’essere umano, in contrapposizione con il “volto umano” di chi per tanti napoletani è stato quasi un Dio, ovvero Diego Armando Maradona. Il “Dios umano” è un’opera autofinanziata, un regalo dello stesso Jorit ai napoletani. L’opera fu completata grazie a fondi avuti dal capitano del Napoli Marek Hamsik e da associazioni che operano sul territorio. Ultima sosta alla Pasticceria Lauri, nel quartiere Vicaria: l’unico in città che propone un babà halal, ovvero senza strutto e senza rhum. Un babà che può essere degustato anche dalla comunità islamica.

Ancora in cammino: in viaggio con i nomadi Rabari

Elena Dak , antropologa particolarmente interessata alle realtà delle popolazioni nomadi in rapida trasformazione, e il fotografo Bruno Zanzottera dell’agenzia Parallelo Zero hanno seguito una famiglia di nomadi Rabari nel loro spostamento annuale alla ricerca di nuovi pascoli. I Rabari sono un gruppo che abita nel Kutch, un’area del Gujarat, regione indiana ai confini con il Pakistan, dove abitano e da cui partono gruppi di pastori in migrazione. I Rabari (in passato detti Raika) nomadizzano in questi territori e si spostano lentamente per centinaia di chilometri alla ricerca di pascoli. Questo loro peregrinare non si ferma neanche durante la stagione monsonica, sebbene le piogge permettano ai pastori di restare in territori più vicini ai loro villaggi.
Anticamente allevatori di cammelli, oggi i Rabari migrano in piccoli gruppi composti da poche famiglie, le greggi e alcuni dromedari necessari per il carico e il trasporto delle masserizie: letti, oggetti per la cucina, abiti, culle.
Le loro rotte annuali li portano a penetrare all’interno di un tessuto ambientale sempre più antropizzato, urbanizzato e industrializzato, che prevedono l’attraversamento di trafficatissime assi stradali e accampamenti a bordo autostrada.
Elena e Bruno hanno seguito i loro spostamenti per 1 mese nell’autunno 2017 vivendo insieme a loro e condividendo le attività quotidiane dei membri delle famiglie. Sono tornati nel 2018 per seguirne i movimenti durante la stagione dei monsoni e partecipare alle loro cerimonie. Durante questi periodi si sono resi conto di essere i testimoni di un cambiamento epocale nell’India di oggi e di trovarsi insieme all’ultima generazione di nomadi carovanieri di questa parte di mondo.

– Per chi volesse approfondire il lavoro di Elena e Bruno segnaliamo che marzo uscirà in libreria “Ancora in cammino. In viaggio con i nomadi Rabari del Gujarat” (Crowdbooks editore)
– (le fotografie, ovviamente, sono di Bruno Zanzottera)

Parco Naturale della Lessinia

 

Comunemente con Lessinia s’intende la fascia montuosa a nord di Verona che si estende tra la Val d’Adige, la Valle di Ronchi (Vallarsa, Trentino), il gruppo delle Piccole Dolomiti-Pasubio, la Valle dell’Agno-Chiampo e l’alta pianura veronese, dove diverse dorsali collinari si staccano dall’altopiano centrale per immergersi nei depositi alluvionali di pianura formando valli cieche come la Valpolicella, la Valpantena, la Val di Squaranto, la Val d’Illasi, la Val di Mezzane, la Val d’Alpone, la Valle del Chiampo… Nel 1990, nella zona dell’altopiano centrale e delle cime di confine con il Trentino, è stato istituito il Parco Naturale Regionale della Lessinia. Oltre 10 mila ettari coperti da un vasto altipiano prativo dal quale scendono, a pettine, profonde vallate dette localmente ‘vaj’. E’ un grande museo open air perchè l’area racchiude una sorprendente varietà di testimonianze naturalistiche, storiche e archeologiche di inestimabile valore.
Domenica 26 gennaio circa 10 mila persone hanno marciato sui sentieri delle montagne nei dintorni di Bosco Chiesanuova, a una trentina di chilometri da Verona, per protestare contro una delibera della regione Veneto che vuole tagliare una fetta del Parco Naturale dei Monti Lessini (una riduzione di circa un quinto dell’estensione del Parco). Una fiumana umana, che non si esauriva mai, composta da donne e uomini giunti dalle Venezie ma anche da Lombardia ed Emilia. La questione riguarda la provincia scaligera, ma anche quella berica vista la presenza nel parco dei comuni di Altissimo e Crespadoro. I sostenitori della riduzione del parco (il centrodestra regionale, le categorie economiche e le associazioni degli agricoltori) ritengono che questa pur non alterando gli equilibri naturali e paesaggistici garantirà un più robusto sviluppo ecologico. Se invece le tutele e i vincoli, anche edilizi, permanessero, ne soffrirebbero sviluppo economico e libera impresa. Netta invece è l’opposizione del mondo del turismo, dell’alpinismo, della galassia ambientalista ma anche di molti malgari che vedono il ridimensionamento del parco come un qualcosa che potrebbe assestargli un colpo fatale soprattutto perché l’area è già «ben antropizzata di suo». Secondo i detrattori infine, oltre che un favore ai cementificatori, la riduzione del Parco sarebbe un regalo ai cacciatori che in quei 1.700 ettari potrebbero andare tranquillamente a caccia (va ricordato che in Veneto i cacciatori sono una vera e propria lobby, finanziata con fondi regionali e – per quanto riguarda alcune associazioni – schierata apertamente a sostegno dei partiti che fanno parte della maggioranza).

Organizzazione di tutela ambientale Lessinia Futura

https://www.facebook.com/lessiniafutura/

 

Memphis blues

“Con l’autostrada salto da una città all’altra attraversando chilometri di niente, rigidamente a tre corsie, finché arrivo a Memphis. La città del cotone, storicamente una delle più alte concentrazioni di popolazione nera degli States. E’ qui che nel 1960 vennero organizzate le prime marce per l’integrazione razziale. Ed è sempre qui che, su un balcone del Lorraine Motel, è stato assassinato Martin Luther King, icona della lotta nonviolenta per i diritti civili. Era il 4 aprile del 1968 e, visitando oggi la città, sembra che tutto si sia fermato quel giorno. A partire dal Lorraine Motel, il cui aspetto esteriore non è più stato toccato. Davanti alla camera di King è ancora posteggiata la sua macchina. L’interno invece è diventato un museo: il Civil Right Museum .

Beale Street, la via dove ci si può ubriacare di musica ogni sera, dista pochi blocchi, ma sembra di essere già in periferia. Nel museo si ripercorrono le principali tappe della lotta per i diretti civili: dalla color line ai rice riots, da Marcus Garvey a Malcom X, dalla ricostruzione della micro cella deve M.L. King venne rinchiuso nel ’63 al bus di Rosa Parks. L’ultima tappa è nella camera dove era alloggiato King prima dell’assassinio. Nulla è stato toccato da quel giorno. Prima di uscire sul balcone dove venne ucciso una grande scritta: ‘No turning back’. Per andare avanti Memphis, la città che è stata patria del blues, culla del rock’n’roll e tempio del soul, sta cercando, grazie a un investimento miliardario, di trasformarsi in una città-museo. E’ il caso degli studi Sun , dove Sam Phillips chiuse in una stanza il leggendario Million Dollar Quartet (Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins) per incidere l’album che generò il rock’n’roll. O degli studi della Stax , l’etichetta che grazie alle incisioni di Otis Redding, Sam & Dave e Isaac Hayes rese grande l’impero del soul. Oggi i due studi aprono le porte ai visitatori che possono accostare le labbra al microfono dove gorgheggiava Johnny Cash o ammirare una ricca documentazione sulla Blaxploitation, il cinema dei ghetti neri. L’augurio è che non si trasformino in piccole Graceland (https://www.graceland.com/ ), l’incredidibile casa / mausoleo di Elvis Presley. E’ una specie di Disneyland dell’anima, un luogo dove una quantità incredibile di oggetti inutili, foto e video in cui Elvis si aggira come se fosse nascosto nel giardino, mi stordisce per buona parte della visita. Trasportato alle soglie del surreale mi convinco che, ai piani superiori della casa, dove nessuno ha mai messo piede, se non The King, Elvis grasso e impacciato si goda lo spettacolo offertogli dai suoi fedeli. Per scacciare i fantasmi torno in Beale Street, dove in fondo alla via hanno montato la piccola casetta di legno, dipinta di grigio, dove è nato W.C. Handy, il primo musicista afroamericano a trascrivere su un pentagramma un blues. Quello che è venuto dopo lo si può ascoltare tutte le sere nei cento locali del circondario”…
(dal diario di viaggio lungo il Mississippi con gli ascoltatori di Radio Pop)

La vita “a rotelle” di Valentina

“Scorpione a fin di bene, mantovana di nascita dal 1982, cittadina del mondo per adozione, di breve non ho nemmeno il nome e cognome”. Così si auto-definisce Valentina Tomirotti. “Non scrivo mai a caso e amo raccontare tutto da una visuale privilegiata: da un metro d’altezza, a cavallo della mia carrozzina che, spesso, trasformo, in un trono. Laureata in scienze della comunicazione, giornalista pubblicista, mangio comunicazione come pane quotidiano. Indosso perfettamente il rossetto, curo maniacalmente i capelli e nuoto nel web anche controcorrente per lasciare un segno: affronto il tema della disabilità senza essere “un caso”, ma a caso, proprio com’è la vita di tutti”. Online Valentina è conosciuta come Pepitosa e sui social snocciola ruvidi post etichettati #perdire. “La mia vita online è una finestra sul mondo che mi circonda ed è la palestra di storytelling della mia vita ‘a rotelle’. Queste ruote che mi trasportano, ma non mi conducono. Attraverso il mio blog e i canali social, cerco di creare un cocktail analcolico di ruote, sorrisi e parole serviti rigorosamente caldi”. Valentina sul proprio blog parla dell’importanza dell’autonomia personale e di quanto è stato fondamentale prendere la patente per guidare la macchina. Parla dei suoi viaggi: dalla città di Mantova all’impervia Matera, dall’isola di Lampedusa alla vetta del Lagazuoi sulle Dolomiti cadorine. Ma risponde anche a una serie di domande importantissime per un diversamente abile che vuole viaggiare. Leggere le risposte al quesito “ Come viaggiare in aereo se sei in carrozzina?” consente di capire anche ai cosiddetti ‘normali’ la complessità di queste problematiche. Dopo il successo del libro
“Un’altro (d)anno” (Mondadori Electa) Valentina sta preparando una collana di
guide di turismo accessibile delle città italiane capitali della cultura.

 

Amburgo

 

Amburgo, la più ricca, la più ecologica, la più vivibile delle città tedesche. Una città a cui nuovi progetti curati da giovani creativi hanno cambiato il volto. E’ stata eletta European Green Capital grazie a una Road Map che la porterà al pareggio energetico – tra produzioni e consumi – entro il 2050. Una summa delle novità amburghesi sono nel quartiere di Hafen-city, letteralmente città-porto: un quartiere che, con un investimento di oltre 10 miliardi di capitali, ha già cambiato il volto della parte sud di Amburgo. Una delle costruzioni più appariscenti è l’Elbphilharmonie, la Filarmonica dell’Elba, inaugurata tre anni fa dopo anni di polemiche, ritardi e costi rivisti al rialzo. Nei suoi 110 metri di altezza ospita, naturalmente, molti spazi dedicati alla musica, prima fra tutte la grande sala da concerto da 2.100 posti (ci ha messo le mani il mago dell’acustica Yasuhisa Toyota), un hotel da 205 camere e 39 suite, una quarantina di appartamenti, ristoranti e caffè. A 37 metri di altezza si trova la Plaza, punto panoramico aperto al pubblico da cui si gode una vista a 360° sulla città e sul suo immenso porto. Per visitare una città è sempre meglio utilizzare una buona guida. A chi, sapendo della mia passione per Amburgo, mi ha chiesto un titolo io ho suggerito “St. Pauli siamo noi. Pirati, punk e autonomi allo stadio e nelle strade di Amburgo” (ed. Derive Approdi) di Marco Petroni. Chiariamolo subito non è una guida turistica, ma un libro che racconta St. Pauli, un quartiere segnato da mille contraddizioni: da sempre punto di forza dello sviluppo commerciale della città e luogo di lotta; focolaio di resistenza all’ascesa delle squadre naziste e sede di insurrezioni sempre fallite. Nella prima metà degli anni Ottanta il quartiere è segnato da miseria e abbandono, ma rinasce attraverso i palazzi occupati della Hafenstrasse, roccaforte del movimento autonomo e crocevia di tutte le battaglie politiche e sociali dell’epoca, e il Millerntor, piccolo stadio di calcio, all’interno del quale, sotto la bandiera dei pirati e al grido di “Mai più guerra, mai più fascismo, ma più serie C”, prende forma una nuova tifoseria e un nuovo modo di intendere il calcio. Il St. Pauli FC, squadra con la fama di “club di perdenti”, diventa così la bandiera calcistica della sinistra radicale, della scena squat, degli antagonisti e dei punk dell’intera Germania. Grazie ai tifosi e alle loro battaglie contro il razzismo, prima sulle gradinate e poi all’interno della struttura societaria, il St. Pauli FC diventa il simbolo di una comunità sincera, capace di esprimere la passione popolare per un calcio liberato da ogni forma di discriminazione.

www.germany.travel/it

Crans Montana: sciare tra i graffiti…

Crans Montana: meta turistica adagiata su un altopiano soleggiato, a strapiombo sulla Valle del Rodano, a 1500 mt d’altezza. Uno dei suoi punti di forza è l’essere facilmente raggiungibile partendo dalla stazione ferroviaria più vicino alla casa del visitatore (che può lasciare tranquillamente l’auto nel suo box). Dal treno deve scendere a Sierre e dopo poche decine di metri si può imbarcare su una funicolare che in 12 minuti copre un dislivello di 927 metri. Ad attenderlo alla stazione d’arrivo una vista mozzafiato su una corona di cime che si estende dal Breithorn al Monte Bianco, passando per il Weisshorn e il Cervino. Con laghi, boschi, ghiacciai e vigne, il comprensorio di Crans Montana è in grado di offrire tutto quanto gli amanti della natura possono desiderare. D’inverno il comprensorio sciistico sale sino ai 3000 m di altitudine del Ghiacciaio della Plaine Morte, mentre i celeberrimi campi da golf dell’area si trasformano in un paradiso per fondisti e patiti delle passeggiate. Nel resto dell’anno non c’è che l’imbarazzo della scelta: in primis escursionismo e cicloturismo, senza dimenticare cinque laghi balneabili… Per chi preferisce muoversi a ritmo di musica il Caprice Festival è un appuntamento sulla neve per tutti gli amanti della musica elettronica, una vera e proprio Mecca per i cultori della house e della techno underground. Ricca anche l’offerta culturale. La Fondation Opale, in uno spazio museale intrigante anche architettonicamente, ha instaurato un dialogo permanente fra arte aborigena e arte contemporanea. Il Vision Art Festival invece ha portato la street art non solo sui muri di Crans Montana, ma anche sulle piste da sci… E quando dopo l’attività motoria e la cultura è il momento di un pit stop eno-gastronomico le proposte sono variegate: dalla Brisolée Royal (castagne, formaggi, salumi e frutta fresca) alla mitica fondue vallesana. Per il vino c’è solo un problema di abbondanza: nel Vallese, grazie a un territorio caratterizzato da grandi varietà di suoli (granitici, calcarei, scistici e gneis) si coltivano 60 diversi vitigni. Io però non ho alcun imbarazzo nella scelta: ora e sempre Petite Arvine, il grande vino bianco vallesano per antonomasia…

www.crans-montana.ch

Nashville, the music city

Nashville, Tennesee, una città che nel suo nick name nasconde le sue fortune: Music City. A Nashville la musica arriva ovunque. Si spalma come spezia nel breakfast, uova pancetta e salsiccia. Vibra nelle corse dei runner durante la corsa mattutina lungo il ponte sul fiume Cumberland. Esce dai finestrini dei pick-up impolverati e rimbalza tra le pareti dei negozi per cow-boy. E fa la parte del leone nelle feste lungo la Broadway dei numerosi ragazzi americani che adottano questa città per i loro adii al celibato (nubilato). Da queste parti la gente ha poche pretese, perché uno stato come il Tennessee, dove 15 persone su cento vivono sotto il livello di povertà non lascia spazio alle illusioni. Qui per essere felici è sufficiente una costoletta di bue inumidita dalla salsa dolciastra di queste parti, un buon giro di chitarra in sottofondo e una chiesa a portata di mano dove raccomandarsi al signore. Sovente musica e religione si confondono, ed è capitato anche a Johnny Cash: musicista con un tenace attaccamento alle proprie origini, povere ma piene di dignità umana. Con una religiosità profonda e mai bigotta. Mosso dalla ricerca di un riscatto culturale per chi, come lui, viene dal basso. Tutto lo conoscono come The man in black, e il perché lo si capisce ascoltando l’omonima canzone: “Vesto di nero per i poveri e gli sconfitti / che vivono nella parte affamata e disperata della città / Vesto nero per il prigioniero che ha pagato da tempo per il suo crimine / ma è lì perché è una vittima dei tempi. / Vesto nero per quelli che non hanno mai letto / o ascoltato le parole di Gesù / Be’, stiamo andando benissimo, credo / nelle nostre macchine lampeggianti e nei nostri vestiti alla moda / ma almeno così qualcuno ci ricorda di quelli che rimangono indietro…”. Come centinaia di colleghi anche Johnny Cash si è esibito al Grand Ole Opry, il più longevo programma radiofonico del mondo. Tutti i più grandi artisti del country, da quasi 90 anni, vi partecipano andando in onda sui 630 WSM – AM. Lo studio di registrazione è un grande palco ospitato nella Opry House, a 16 km a est dal centro di Nashville, in quella che pomposamente è chiamata Music Valley Opryland. Per avere la conferma di cos’è l’Ameriaca basta visitare il Gaylord Opryland Resort, raggiungibile facilmente a piedi dall’Opry House. Definirlo Hotel o Resort è riduttivo. Si tratta di una città con tanto di servizi, racchiuso in gran parte da un ampolla di vetri gigante. In effetti proprio per questo motivo, all’interna si gode di un clima differente dall’esterno. La struttura comprende 19 ristoranti, da steakhouse di alto livello a semplici pizzerie, e include anche 36.500 m2 di spettacolari giardini interni che ospitano diverse cascate e qualche laghetto su cui si organizzano gite in barca. Per trovare la natura, quella vera, basta raggiungere, alla periferia di Nashville, l’inizio della Natchez Trade: 724 chilometri che collegano Nashville con Natchez, un porto fluviale che sorge poco prima che sterminate paludi accolgano nelle loro acque stagnanti il Mississippi. E’ una sorta di laico Cammino di Santiago a stelle e strisce, percorsa da migliaia di ‘Pellegrini’ che marciano immersi nella natura, guadando torrenti, costeggiando laghi e sostando in prossimità di tumuli di nativi, di monumenti che ricordano protagonisti della storia americana o di sterminate piantagioni di tabacco.