Prima ancora che un luogo geografico, il Grande Sud del Marocco è uno stato d’animo. Le suggestioni che suscita sono molte e potenti: i colori che da giallo-calcare lanciano improvvisi acuti color ocra, rosso-mattone, viola, nero; poi lo spazio, quello pieno delle montagne dell’Atlante e quello vuoto, che galleggia trasparente e silenzioso ovunque; e, inscindibile dallo spazio, il tempo, che frequentemente è quello passato, a volte prossimo a volte remoto, raramente quello futuro, quasi mai quello presente. Un viaggio nelle terre dell’orgoglioso popolo amazigh, quello che impropriamente chiamiamo berbero. Partenza da Marrakech, dopo una visita al Museo dell’Arte Culinaria. Uscendo dalla città, lungo la strada per Ouarzazate, tappa al Museo d’arte contemporanea africana Al Maaden: oltre 2.000 opere di arte moderna e contemporanea di artisti africani, residenti e della diaspora. Marrakech è la coordinata geografica che separa due realtà marocchine economicamente molto diverse. Le terre da Marrakech al mare, storicamente legate a ricchi proprietari terrieri, da sempre beneficiari di pingui investimenti governativi. Quelle da Marrakeck al deserto invece sono divise tra piccoli appezzamenti di proprietà di famiglie amazigh e qui gli investimenti statali sono pressochè inesistenti. Superato il passo del Tizi’n Tichka c’è una vera e propria curvatura spazio-temporale: il colore diventa quello rosso-mattone della roccia e dei villaggi fortificati (ksour) che si sciolgono alle intemperie come castelli di sabbia abbandonati da un bambino capriccioso. Le strade diventano sterrate e polverose e il passato coloniale mostra le sue cicatrici. Come a Tèlouet, sede di una kasbah dove visse Haj Thami el-Glaoui, ultimo pascià di Marrakech, che qui ospitò personaggi come Yves Saint Laurent, Charlie Chaplin, il generale Patton e Charles de Gaulle. Altre tappe imperdibili sono lo ksar di Aït Benhaddou, lungo la valle dell’Ounila, e l’oasi di Fint (in amazigh “oasi nascosta”), un insieme di 4 piccoli villaggi al confine con uno stretto palmeto, verde e affascinante, che si estende lungo il Wadi Fint per alcuni chilometri. Superata Ouarzazate la strada si inoltra per la valle del Draa, il fiume più lungo e importante del Marocco. La vallata è un interminabile palmeto punteggiato di kasbah secolari, dove una delle più affascinanti è sicuramente quella del Caides (sultano) a Tamnougalt. Zagora, capitale della valle del Draa, è la porta del deserto. A certificarlo ci pensa un cartello stradale, uno dei più fotografati del Marocco, che indica la direzione per Timbuctù informando che la distanza, a dorso di cammello, è di 52 giorni. La vegetazione è sempre più rara. Qualche palma, rade sterpaglie ed immense pietraie. Quando le dune di Merzouga sono già a portata di sguardo il lago Dayet Srij offre le sue acque a rondini, fenicotteri e cicogne. E’ un originale preludio ad uno dei punti più affascinanti del deserto del Sahara: le dune dell’Erg Chebbi. Un mondo fatto solo di albe e tramonti, il resto è sole senza ombra. Le dune, alte sino a 160 metri, vengono instancabilmente modellate dal vento e un occhio attento scopre che qui la natura è morta solo apparentemente. Di notte l’assenza di inquinamento luminoso permette di scrutare un cielo dove la Via Lattea è chiarissima e le stelle sorprendentemente luminose e grandi. Il massimo è assistere, seduti sotto un incredibile baldacchino di stelle, a un concerto di un gruppo gnawa locale: gli Gnawa Khamilia. Un sound dove l’incessante poliritmia delle percussioni e delle nacchere di ferro si amalgama con l’ipnotica melodia del guembri…