Il cammino dei Briganti

La Marsica e il Cicolano sono terre di boschi, montagne e storie di briganti. In particolare il territorio attraversato dal cammino è un territorio di confine, oggi tra Abruzzo e Lazio, ieri tra Stato Pontificio e Regno Borbonico. I briganti vivevano sul confine per passare da una parte all’altra a seconda della minaccia. I briganti non erano malviventi, erano più simili ai partigiani, lottavano contro l’invasione dei Sabaudi, che avevano costretto il popolo a entrare nell’esercito. Erano spiriti liberi, che non volevano assoggettarsi ai nuovi padroni, e per questo erano entrati in clandestinità. Una storia fatta anche di rapimenti, riscatti, e tanta violenza. Una storia di 150 anni fa. Oggi l’esperienza dei viaggiatori antichi viene riproposta basata sul viaggiare a piedi da paese a paese lungo questo cammino di 7 giorni, tutto ben percorribile, segnato e con posti tappa attrezzati. E’ qui che si dipana il Cammino dei Briganti: sette giorni di cammino a quote medie (tra gli 800 e i 1300 m. di quota) sulle orme dei briganti della Banda di Cartore tra la Val de Varri, la Valle del Salto e le pendici del Monte Velino. Partenza e arrivo da Sante Marie, vicino a Tagliacozzo (AQ). La guida “Il cammino dei briganti. 100 km a piedi tra paesi medioevali e natura selvaggia” ne dettaglia e illustra storia e percorso. Alberto Liberati, uno degli autori (nonchè guida autorizzata della Regione Abruzzo), lo fa per Onde Road, illustrando la valenza politica e sociale del brigantaggio. Per un approfondimento
“Brigantesse. Storie d’amore e di fucile” di Andrea del Monte (ed. Ponte Sisto) raccoglie tredici poemi che raccontano la vita grama e i riscatti “d’amore e di fucile” di altrettante brigantesse. Tra loro c’è anche Michelina de Cesare, brigantessa nata il 28 Ottobre 1841 a Mignano, in Terra di Lavoro (attuale provincia di Caserta). Figlia di una famiglia poverissima, rimase vedova del primo marito e si sposò con Francesco Guerra nel 1862. Guerra era un soldato borbonico che, come tanti altri, non volle tradire il giuramento di soldato e passare in un esercito nemico, capo di una banda di cui faceva parte anche Michelina e dove, pur essendo donna, ricopriva un ruolo di comando, come dimostrano le armi da lei possedute: una pistola e un fucile a due colpi. Fu tradita dal cugino Giovanni, che condusse i soldati al loro nascondiglio. Lì furono sorpresi nel sonno e uccisi: i corpi di Michelina e Francesco Guerra furono denudati, fotografati e messi in mostra nella piazza principale della città. Tornando ai giorni nostri il pastore Americo, oltre che della sua quotidianità, ci racconta i rischi di estinzione che sta correndo il Lago della Duchessa (situato tra Lazio e Abruzzo, all’interno dell’omonima Riserva Naturale Montagne della Duchessa, con i suoi 1788m è uno dei laghi più alti dell’Appennino). Infine incontriamo il musicista Giacomo Proia, un “ritornante”: dopo anni vissuti a Milano è tornato nella terra dove è nato e ha aperto un ottimo punto di riferimento per i camminatori: l’Ostello Casa Bella.

P.S. Un grande grazie a Fanny, viaggiatrice di Radio Popolare, che ha testato per noi il Cammino dei Briganti dandoci poi le dritte per realizzare questa puntata

RESQ – People Saving People

Una puntata anomala, non solo perchè è prodotta in diretta, ma perchè è legata a un viaggio particolare: quello che migliaia di cittadini del sud del mondo decidono di intraprendere nella speranza di migliorare la qualità della loro vita. Con la puntata di oggi Onde Road vuole dare il suo contributo a “Tra il dire e il mare”, la campagna per mettere in acqua una nuova nave che si aggiunga alle pochissime unità operative nel Mediterraneo. Nella presentazione del progetto RESQ – People Saving People si legge: “…ci siamo uniti per dare un segno concreto e contrastare la cultura dell’indifferenza. Mettendo in mare un’altra nave che sostenga donne, uomini e bambini costretti a spostarsi da situazioni drammatiche o volenterosi di inseguire il proprio sogno, come di diritto. Aggiungendo, con il contributo di chi non è indifferente, una nave alla flotta umanitaria, oggi del tutto insufficiente e spesso ostacolata. Il progetto è avere una nave di circa 40 metri con 10 persone di equipaggio per il funzionamento, e 9 tra medici e infermieri, soccorritori, mediatori, giornalisti e fotografi. Due gommoni veloci, invece, assicureranno gli avvicinamenti alle imbarcazioni in difficoltà e il salvataggio dei passeggeri. Il progetto nasce da un piccolo gruppo di amici, professionisti di varia natura che, stanchi di vedere morire migliaia di migranti nel tentativo disperato di attraversare il Mediterraneo, cercando per sé e per i propri figli un domani migliore, hanno deciso di rompere il muro dell’indifferenza e provare a mettersi in gioco, con un solo obiettivo chiaro: restare umani”.
Ospiti della puntata odierna, per parlare di questo drammatico viaggio:
Gherardo Colombo, ex magistrato, presidente onorario della Onlus ResQ, da quando si è dimesso dalla magistratura, ormai 13 anni fa che si occupa di educazione
Alì Sohna, migrante, nato a pochi chilometri da Banjul, la capitale del Gambia. A quindici anni sua madre e suo fratello maggiore lo hanno portato via, hanno attraversato il deserto e poi il Mediterraneo, ma in Italia è arrivato solo lui.
Don Giuseppe Bettoni, Presidente della Fondazione Arché onlus e titolare di una grossa esperienza di lavoro sociale in un quartiere come Quarto Oggiaro.
Lella Costa, attrice e sostenitrice del progetto RESQ – People Saving People
Massimo Cirri, Caterpillar (Rai 2) e sostenitrice del progetto RESQ – People Saving People

Lessico e nuvole

Che nuvola sarà quella che sta passando sopra la tua testa proprio in questo istante? Quando guardi una nuvola cosa ti viene in mente? Per un tuo ritratto fotografico quale nuvola vorresti come sfondo? Queste sono alcune delle domande che abbiamo fatto a Sarah Zambelli che ha curato i testi (i disegni sono di Susy Zanella) di “Nuvolario. Atlante delle nuvole” (2020, Nomos Edizioni).
Paolo Valisa, che gli ascoltatori di Radio Popolare conoscono per i bollettini metereologici che diffonde dal Centro Geofisico Prealpino, racconta il rapporto con le nuvole di un ricercatore che per lavoro studia quotidianamente le condizioni metereologiche.
Il fotografo Paolo Giocoso ci spiega come fotografare le nuvole, mentre Marco Schiaffino (che a Radio Popolare cura la trasmissione Doppio Click) ci svela i misteri del “cloud”: perché è nato, che cos’è, come funziona, ma è davvero gratis, di chi è, c’è da fidarsi?
Sabrina Peron, avvocatessa milanese, una delle 250 persone al mondo che può esibire la “Triple crown” (riconoscimento che spetta a chi riesce a effettuare il giro dell’isola di Manhattan, la Catalina in California e ad attraversare la Manica) ci racconta le nuvole che incrocia con lo sguardo quando, durante le sue imprese natatorie, alza la testa verso il cielo.
Pedro Armocida, critico cinematografico e direttore del Pesaro Film Festival, ci racconta la genesi di “Che cosa sono le nuvole”, una canzone scritta da Pierpaolo Pasolini, cantata da Domenico Modugno e inserita nella colonna sonora di un episodio, diretto dallo stesso Pasolini, del film “Capriccio all’Italiana” (tra gli attori Totò, Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti e lo stesso Domenico Modugno).
P.S. La puntata è dedicata a Nuvola Rossa, nativo americano che in virtù dei successi ottenuti in vari drammatici scontri con l’avanzata americana verso ovest, conquistò un posto di assoluto primo piano tra i capi Lakota del XIX secolo.

Viaggio “al fresco”

Una puntata che a qualcuno potrà sembrare anomala, fuori contesto. Invece per gran parte della trasmissione parleremo di un viaggio, il viaggio dentro le carceri italiane che Luigi Pagano ha fatto nelle vesti di direttore dei suddetti carceri. La ns guida di viaggio è “Il direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere “, Zolfo editori, il libro con cui Luigi Pagano, storico direttore penitenziario, racconta i suoi quarant’anni passati accanto ai carcerati, una vita spesa cercandodi ottemperare quel famoso articolo 27 della Costituzione che sancisce come ogni detenuto deve essere recuperato alla società vivendo in condizioni umane; ma anche una vita vissuta all’interno della nostra società che spesso dimentica il principio costituzionale. Con questo libro Pagano traccia un resoconto della propria vita professionale tra Francis Turatello e Mario Chiesa, mafiosi e brigatisti. Quarant’anni vissuti a gestire carceri, da Pianosa ai quindici anni di San Vittore passando per Nuoro, Asinara, Piacenza, Brescia e Taranto. Quarant’anni in cui si è sempre battuto per cercare di rendere umane le “dimore” di chi ha un conto da pagare con la società.
Patrizio Gonnella (presidente dell’Associazione Antigone e conduttore, a Radio Popolare, della trasmissione Jailhouse Rock) dopo una fotografia delle carceri in questo periodo di pandemia, ci elenca una serie di ex carceri che potrebbero diventare luoghi di racconto, luoghi della memoria. Come l’ex carcere di Capraia (chiuso a metà degli anni Ottanta) o la fortezza di Santo Stefano a Ventotene (ci vennero incarcerati l’irredentista Settembrini, Gaetano Bresci e Sandro Pertini)… L’esempio è il Museo della Memoria Carceraria realizzato a Saluzzo. Invece la vecchia tenuta agricola del carcere di Procida, in abbandono dal 1988, grazie al lavoro di decine di volontari, si è trasformata in un parco pubblico: il Giardino sul mare dell’incanto. Il dottor Carmelo Cantone, che in passato era stato Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Toscana, ci racconta l’esperienza dell’isola/carcere di Gorgona, dove il muro di cinta della prigione è il mare. Infine Francesco Ravaioli, frate francescano, ci racconta la storia della Chiesa di San Francesco del Prato a Parma, attualmente al centro di un’ambiziosa opera di restauro che mira però a non cancellare gli anni bui in cui questa struttura, di dimensioni paragonabili a quelle della Cattedrale cittadina, venne utilizzata come penitenziario, ossia dall’epoca napoleonica sino al 1992. Per finanziare le opere di restauro è stato messo in vendita un cofanetto eco-sostenibile che contiene il simbolo della “liberazione” della chiesa. L’oggetto, numerato, è alloggiato in un contenitore espositivo unitamente al certificato di autenticità, oltre ad un opuscolo che racconta la storia della chiesa. Per averlo: info su www.sanfrancescodelprato.it/it/cofanetto

Sulla strada

Per anni il numero 69 di Viale Ortles è stato solo un dormitorio per persone senza dimora.
Ora non è più così. E’ questo che racconta il libro “El me indiriss, Ortles 69 – La storia e le
storie della Casa dell’Accoglienza Enzo Jannacci” (di Cinzia Morselli, Il Castello editore): le
storie della trasformazione di Viale Ortles 69 da dormitorio pubblico a Casa dell’Accoglienza Enzo Jannacci.
Un racconto corale della vita e delle tante storie che si intrecciano nella casa della solidarietà
più grande d’Europa. La storia di donne e uomini che hanno avuto uno scampolo di
esistenza, più o meno lungo, sulla strada e poi hanno incontrato Casa Jannacci. E’ un libro
prezioso perchè nessuno si può immaginare cosa c’è dietro il clochard che si incontra sulla
panchina sotto casa. Dando voce a chi in genere non viene data voce, questo libro è uno
schiaffo all’indifferenza. Leggendo queste storie sarà difficile non considerare i clochard
per quello che sono: donne e uomini come noi. Con la differenza che a volte la vita fa brutti
scherzi. I dati della seconda sezione del libro, che raccontano con la cruda chiarezza dei
numeri il lavoro di Casa Jannacci, sono invece un inno alla speranza. Anche le situazioni più
disagiate possono cambiare, basta non dimenticarsi che ci sono donne e uomini più
sfortunati di noi.
Oltre a Cinzia Morselli, autrice del libro, e a Massimo Gottardi, direttore della Casa,
intervengono Pierfrancesco Majorino, oggi deputato al Parlamento europeo, in passato
assessore alle politiche sociali del comune di Milano, e Gabriele Rabaiotti, attuale
responsabile di quell’assessorato. Majorino ricorda che Casa Jannacci non è il museo dei
poveri da visitare dall’alto della propria condizione materiale, magari per mettersi un poco il
cuore in pace. Ale e Franz hanno evidenziato quanto sia facile di questi tempi passare
improvvisamente da ‘persona normale’ a homeless perché oggi la povertà è dietro l’angolo.
Federico Traversa, autore di “Rock is Dead – Il libro nero sui misteri della musica”
(Il Castello edizioni, 2020), ci ha raccontato di Leadbelly, un homeless che ha fatto la storia del
blues. Abbiamo ascoltato la più bella cover di sempre: quella di Creep dei Radiohead
eseguita da Daniel “Homeless” Mustard.
Abbiamo scoperto come la voce di un barbone che canta un frammento di un canto
religioso, dal titolo “Jesus’ blood never failed me yet”, nelle mani di Gavin Bryars & Tom Waits possa scalare le classifiche discografiche. Elisabetta Vergani ci ha letto le pagine del libro che raccontano la storia di Miran, una ex ‘inquilina’ di Casa Jannacci. Mentre Patrizia e Salvatore, detto Moreno, che alla Casa ci vivono ancora, ci raccontano come ci sono finiti e cosa
hanno imparato vivendoci dentro…

Viaggio tra alcune geografie della musica napoletana

A Napoli per capire quanto si è popolari basta andare in San Gregorio Armeno, la via dove decine di artigiani vendono le statuine del celebre presepio partenopeo. Un presepio dove oltre alle classiche statuine con il bue, l’asinello e i re magi ci sono quelle dei personaggi della cronaca e della politica. E’ una sorta di classifica partenopea dei personaggi più pop degli ultimi mesi. Quest’anno le statuine laiche che vanno per la maggiore, sono quelle di De Luca, il presidente della regione Campania ritratto con in mano un lanciafiamme; quelle di Alex Zanardi che pedala sul suo handbike e quelle di Liberato, rappresentato di spalle con la felpa con il suo nome sulla schiena. Liberato è un cantante mascherato di cui non si conosce l’identità: una sorta di Elena Ferrante del pentagramma. La sua musica è un incrocio tra elettronica, trap e afrori neomelodici. Leggendo le sue liriche è sorprendente scoprire analogie con il testo di Carmela, un classico della canzone napoletana. Se è vero che l’amore è il contrario della morte, come recita la canzone di Salvatore Palomba, è a quello che la città deve aggrapparsi per tornare a vivere: all’amore della sua gente, non alla morte sociale voluta da pochi. Oggi per sentire canzoni come Carmela bisogna andare al Trianon Viviani, sede della compagnia stabile della canzone napoletana. In cartellone un repertorio di classici, tra cui qualche canzone scritta al Gran Caffè Gambrinus, il caffè letterario più prestigioso della città. Qui abbiamo incontrato Arturo Sergio, uno dei proprietari. All’hotel Luna Rossa invece abbiamo incontrato Adele Mazzella, nipote di Antonio Viscione, in arte Vian (nick name adottato per omaggiare il grande scrittore e trombettista francese Boris Vian). E’ lui il compositore della canzone che dato il nome all’hotel, una canzone che è stata reinterpretata da decine di artisti: da Claudio Villa a Jovanotti, da Frank Sinatra a Caetano Veloso. C’è un altro albergo che ha contribuito a scrivere la storia della musica napoletana. E’ su una punta della Penisola Sorrentina, “…lì dove il mare luccica e tira forte il vento…”. La “vecchia terrazza davanti al golfo di Sorrento” che Lucio Dalla rese immortale attraverso le note di “Caruso”esiste davvero: è la balconata più celebre della musica italiana (sulla quale fu realmente composto il brano) e appartiene alla suite del Grand Hotel Excelsior Vittoria, un cinque stelle sicuramente accessibile a pochi, ma che condivide con Napoli un’importante pezzo di storia della cultura e della musica italiana. Dalla stazione ferroviaria di Napoli bastano quindici minuti di taxi per raggiungere San Pietro a Patierno, il borgo dell’immediato hinterland napoletano dove è nato Nino D’angelo. Sulla parete di un anonimo palazzone lo street artist Jorit ha appena terminato di realizzare un enorme ritratto del padre putativo della musica neomelodica. La novità dei neomelodici, all’interno della musica partenopea, è la loro provenienza: è tutta gente dei quartieri popolari, come San Pietro a Patierno. Per i testi delle canzoni prendono spunto dalla vita e dai sogni di chi in quei quartieri vive. Canzoni che diventano subito le colonne sonore dei loro momenti di festa, dai battesimi ai matrimoni. A Scampia, altra periferia napoletana, incontriamo e ne parliamo con Daniele Sanzone, scrittore, autore e voce della rock band A67.

Altre puntate di Onde Road su Napoli sono qui:
– La Napoli del Rione Sanità blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=4486

– La Napoli dei Maestri di Strada e del dios umano blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=4322
Una Napoli altra blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=3356

Alpi Occitane

Demonte, Demount in Occitano: un paese della media Valle Stura. Antichissimo borgo alpino di origine romana, ha acquistato lungo i secoli il ruolo di “capitale” della valle.

La valle è segnata in tutto il suo territorio dal fiume Stura, che defluisce dal lago della Maddalena a quasi 2000 metri di altezza, corre impetuoso tra le forre dell’Olla e separa le Alpi Marittime dalle Cozie. Una valle che si presenta con dolci declivi nel tratto iniziale, più aspra e tipicamente alpina nella parte alta. La strada che la percorre culmina ai 1.996 m del Colle della Maddalena che collega il cuneese alla val d’Ubaye, in Francia. Vicino alla sommità si trova una stele in onore di Fausto Coppi, che sulla salita del colle diede inizio alla mitica fuga che lo portò a trionfare nella tappa Cuneo-Pinerolo nel Giro d’Italia del ’49.

A partire dagli anni Sessanta la valle è stata fortemente segnata dallo spopolamento, raggiungendo un picco di calo demografico del 75%. Oggi è un tranquillo borgo che conta circa 2000 abitanti, con un centro storico caratterizzato dalla struttura porticale della via centrale del paese impreziosita da capitelli medioevali. Delle ricchezze di questo borgo, e dei suoi problemi, ne abbiamo parlato con il sindaco Francesco Arata. Roberto, dell’agriturismo Lausè, ci illustra di come si vive in montagna (e di come cambiano i suoi abitanti…). La signora Sescia di Elva, piccolo borgo nell’omonimo vallone laterale della Valle Maira, ci ricorda che per poter vivere i suoi compaesani, sino a pochi decenni fa, si erano inventati un lavoro: quello dei “raccoglitori di capelli” (*). Oggi un piccolo museo illustra la loro storia. Colonna sonora di queste vallate è la musica occitana, una musica senza frontiere. L’Occitania non è uno stato né una regione, ma solo un segmento del pianeta (compreso geograficamente tra le Alpi, i Pirenei, il Mediterraneo e l’Atlantico Francese) contraddistinto da una lingua comune. Abbiamo incontrato Sergio Berardo, il padre della scena musicale occitana italiana.

(*) A proposito di capelli la puntata ospita una intervista a Dina Azzolini, hairstylist milanese, o acconciatrice come si diceva un tempo. Una maestra nel trattare i capelli per farli star bene. Dina, che negli ’60 e ’70 era una protagonista del mondo della moda e spettacolo (era la pettinatrice, tra gli altri, di Mina, Benedetta Barzini, Rosita Missoni), oggi continua il suo lavoro di ‘potatrice dei capelli’.

LA NAPOLI DEL RIONE SANITA’

Il Rione Sanità di Napoli è una delle zone meno considerate dai turisti, invece è un quartiere che ha moltissimo da offrire. La prima cosa che colpisce quando ci si arriva è l’imponente Ponte Maddalena Cerasuolo, che scavalca l’intero rione sovrastando le case e tagliando letteralmente gli edifici circostanti. Edificato agli inizi del 1800 dai francesi, aveva la funzione di collegamento della Reggia di Capodimonte con il resto della città senza dover passare attraverso gli stretti vicoli del vallone della Sanità. La sua esistenza però fece si che la maggior parte della gente potesse spostarsi senza dover scendere nel rione, che diventò di fatto una periferia nel centro della città.
Negli anni passati questa zona è stata teatro di atti di malavita e quindi vittima di pregiudizi, anche da parte degli stessi napoletani. Ma da qualche anno, dopo un lungo processo di apertura e bonifica delle aree più chiuse del quartiere, il Rione Sanità sta vivendo una rinascita che ha permesso a molte realtà locali di riscoprire le bellezze che il quartiere offre e proporle come meta di visita per i turisti.
Una rinascita che deve molto a padre Antonio Loffredo, parroco della basilica di S.Maria della Sanità (nota anche come la Chiesa di San Vincenzo o’monacone). Tra i tanti interventi effettuati vanno citati i lavori che hanno reso agibili le Catacombe di San Gaudioso, situate esattamente “sotto” la Chiesa della Sanità. Lavori svolti dai ragazzi della Comunità Parrocchiale assistiti da un gruppo di professionisti (architetti, storici, designer, etc.), professionisti che hanno donato consulenza ed assistenza ad altissimo livello. Oggi è possibile visitarle , unitamente a quelle di San Gennaro (quest’ultime sono inserite nel tour del “miglio sacro”, un percorso pieno di sorprese). La gestione del tutto è stata affidata alla Cooperativa Paranza, costituita da ragazzi della Sanità. Con il lavoro “generato”, la Cooperativa ha prima creato posti di lavoro per altri ragazzi del quartiere e poi ha ‘filiato’, creando altre cooperative. E quindi altri posti di lavoro.
Ma Don Antonio non si è fermato qui. Ha lavorato molto anche con la cultura e le arti, creando anche qui dei posti di lavoro. Uno dei progetti più sorprendenti è quello dell’Orchestra Giovanile Sanitansamble: oltre 80 giovani, tra bambini e adolescenti dai 7 ai 24 anni, musicisti di due formazioni orchestrali (Orchestra Junior e Orchestra Giovanile). Orchestre dove spesso gli strumenti hanno dimensioni più grandi dei ragazzi che li suonano. La loro sede è nella basilica di San Severo alla Sanità, mentre la chiesa settecentesca dell’Immacolata e San Vincenzo dal 2013 sede del Nuovo Teatro Sanità , anche questo formato da ragazzi del quartiere. La chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi è la sede del laboratorio di Jago, un giovane scultore famoso per la scultura de Il figlio velato (una ‘cover’ del famoso Cristo Velato), mentre nella sacrestia della chiesa principale è stata aperta una palestra dove si svolgono corsi di boxe. Le vie di padre Loffredo (pardon, le vie del Signore) sono infinite…

Altre puntate di Onde Road su Napoli sono qui:
– La Napoli dei Maestri di Strada e del dios umano blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=4322
– Una Napoli altra blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=3356

Genova con i jeans

L’invenzione del jeans non è americana, come spesso si pensa, bensì europea, con l’Italia a giocare un ruolo fondamentale. Infatti il denim, il tessuto da cui tutto è cominciato, è nato a Nîmes, in Francia (l’etimologia del termine deriva per l’appunto da Serge de Nîmes): la svolta si ebbe però attorno al 1860, quando i produttori francesi elessero Genova a loro porto per gli scambi con gli Stati Uniti. È qui, nella capitale ligure, che venne cucito il primo paio di pantaloni fatti di quel cotone robustissimo blu indigo. Il Blue de Gênes o Blu di Genova. Con le grandi emigrazioni, intorno all’Ottocento, la tela blu di Genova arrivò in America dove venne utilizzata per creare abiti da lavoro per i minatori. Nel 1873 un sarto lettone del Nevada, Jacob W. Davis, prese quei primi jeans a modello e fu subito un successo. Davis si trovò sommerso dagli ordini: vendette 200 paia dei suoi jeans in pochi mesi, ma sopraffatto dalla quantità di richieste, si rivolse a un importante mercante della zona, Levi Strauss, proponendogli un accordo. Il commerciante fiutò l’affare e accettò di finanziare la creazione di una filiera produttiva a San Francisco. Ben presto la febbre del jeans contagiò prima l’America, poi il mondo. Una moda che Giuseppe Garibaldi aveva anticipato: nel 1860 infatti, lui e i suoi mille garibaldini, sbarcarono in Sicilia indossando, sotto la famosa camicia rossa, i jeans. Se quelli dell’eroe dei due mondi sono custoditi al Museo del Vittoriano, il Museo Diocesano di Genova ospita i bellissimi “Teli della Passione”: risalenti al 1500, sono quattordici teli raffiguranti Scene della Passione di Cristo e provengono da una delle chiese più amate dall’aristocrazia genovese, l’Abbazia benedettina di S. Nicolò del Boschetto in Val Polcevera, dove alcuni di essi vennero commissionati intorno al 1538, come apparato effimero per la Settimana Santa. Un incanto di lino e indaco. Proprio per questo suo longevo rapporto con questa stoffa la città di Genova ha un progetto ambizioso: creare un “Museo del Jeans”. Una vera e propria anteprima di questo museo è “Autunno blu: dal Blue de Gênes di ArteJeans London all’infinito di Yves Klein: 5 mostre di arte contemporanea col tema del Blu (sino al 17 gennaio 2021 a Villa Croce). Arazzi e broccati, al posto della ‘plebea’ tela jeans, erano invece le stoffe a farla da padrona nei Rolli: alloggiamenti pubblici di Genova ai tempi della “Superba”, erano le liste delle splendide dimore di nobili famiglie che ambivano a ospitare le alte personalità in transito per Genova in occasione delle visite di stato nell’Antica Repubblica. Se i rolli sono aperti al pubblico durante i Rolli Days, ogni giorno è buono per visitare Villa Durazzo Pallavicini a Pegli. un parco – giardino di ispirazione romantica che non ha eguali…

http://www.visitgenoa.it/http://www.museidigenova.it/http://www.villadurazzopallavicini.it

 

Vivere nella Valle dei Mocheni

 

Boschi di larici, l’albero più amato dagli allevatori perché consente la crescita del prato anche sotto la sua chioma, si inerpicano sino alle pendici delle creste degli Agorai, una delle catene più selvagge delle Dolomiti. Giovani arbusti rigogliosi vivono in simbiosi con le piante più vecchie, dai tronchi bitorzoluti e il legno scurissimo. Ripidi sentieri che appaiono e scompaiono nel verde di abetaie che fortunatamente sono state danneggiate solo parzialmente dal Vaia, la tempesta che nella notte tra il 28 e il 29 ottobre 2018 ha modificato il paesaggio delle Dolomiti sfigurando, solo in Trentino, quasi 20 mila ettari di boschi. E poi aceri, pioppi, faggi, castani che, man mano che si sale in quota lasciano spazio ad alpeggi da cartolina. Un territorio che se nei mesi primaverili ed estivi è un’esplosione di fiori, in autunno, con la caduta delle foglie dagli alberi decidui, diventa un fondale ideale per un fall foliage degno delle famose Indian Summer d’oltre oceano. E’ la Valle dei Mocheni, Fersental in tedesco. L’antropizzazione della vallata è sempre stata legata al fiume Fersina, che la attraversa. Il versante destro, quello più comodo (oggi arroccato intorno all’abitato di Sant’Orsola), è stato sempre abitato da popolazione di lingua italiana. E’ il classico insediamento costruito a raggiera intorno alla piazza della chiesa, il canonico centro urbano. Quello sinistro è un’enclave germanofona, identificabile con i centri di Frassilongo, Fierozzo e Palù: micro borghi circondati da prati disseminati da masi tradizionali da dove partono numerose escursioni. Qui, intorno al 1200, in seguito ad un aumento della popolazione della pianura bavarese, i signorotti germanici spronarono parte della loro popolazione contadina ad oltrepassare le Alpi e ad installarsi in alta quota, dove venivano dati loro dei terreni. Una chance, per questi immigrati bavaresi, di passare da servi della gleba a proprietari. Pare che il termine mòcheno derivi dalla parola tedesca “mache” che significa fare. Avendo ricevuto in dono terreni impervi, tra gli 800 e i 1400 metri d’altezza, per viverci dovettero metterci molto impegno. Divennero abili ‘roncadori’, ovvero realizzavano una trincea alla base del terreno da bonificare, profonda mezzo metro, e poi avanzavano liberando con le mani il suolo da sassi, radici, piante… sino a trovarsi con terreni completamente bonificati, pronti per essere coltivati. A questo punto potevano farsi un maso, e rendersi autosufficienti dotandosi di una filiera composta da bosco, terreno per pascolo e coltivazioni. I loro discendenti vivono ancora qui, assieme a ragazzi che hanno scelto di rimanere in valle, optando per le attività lavorative dei loro avi. A partire dall’agricoltura e dall’allevamento. Emil e Debora sono una giovane coppia che ha realizzato il proprio sogno: produrre formaggi di qualità con il latte delle loro vacche. Beatrice è una ragazza di 19 anni che sta vivendo nel maso del nonno, sopra Fierozzo San Felice, a 1600 mt d’altezza. Qui accudisce più di 200 capre, tra cui molte pezzate mochene. Agitu è titolare di una azienda agricola biologica sostenibile. Grazie alla passione ed alle conoscenze apprese dalla nonna materna alleva le capre e lavora il latte con metodi tradizionali producendo formaggi, yogurt e creme cosmetiche: tutto a base di latte caprino. Daniela invece è una giovane signora affiliata al comitato Bollait – Gente della Lana, nato per ridare vita a una filiera corta della lana in Val dei Mocheni. “Ogni anni in valle vengono prodotti tra i 3 e i 4 mila chilogrammi di lana che viene per lo più buttata, rappresentando un rifiuto speciale, costoso da smaltire. Inizialmente gli allevatori ci hanno fornito gratuitamente la lana, risparmiando il fatto di doverla smaltire. Ora grazie ad una serie di esperienze virtuose che abbiamo attivato vendiamo la lana e i nostri manufatti, riuscendo così a pagare la ‘materia prima’ ai pastori”.

www.valledeimocheni.it
www.visittrentino.info
Ascolta anche questa puntata di Onde Road: http://blogs.radiopopolare.it/onderoad/?p=880

E che il vento faccia il resto

«Dopo tanti, tanti libri dedicati alla montagna, quello di Marco Albino Ferrari, dedicato alla madre, è il più intimo e bello che abbia letto. La montagna c’è ancora: non sullo sfondo ma tutt’intorno a questa donna e questo ragazzino, paesaggio del loro amore segreto». Così scrive Paolo Cognetti di “Mia sconosciuta” (Ponte delle Grazie editore), il libro dove Marco Albino Ferrari racconta il suo intenso rapporto con Rosamaria, la madre. È lei – figlia ribelle della migliore borghesia – la sorprendente protagonista di questa storia vera. La passione per i ghiacciai, per gli alberi pionieri, per la grande montagna, per la vita in due, incessantemente in due: lei e il figlio Marco. Colonna sonora le note del repertorio pianistico che questa donna senza freni suona fino a notte fonda. I ricordi si allineano riempiendo un mondo speciale
e perciò carico di nostalgie. L’insospettabile vita a Courmayeur durante la guerra; l’unione clandestina con Edi Consolo, mitico agente segreto della Resistenza;
le notti senza luci della Milano della Ricostruzione, al bar Jamaica, con le avanguardie e i circoli dell’anti-accademia. Non la si sarebbe mai incontrata a un pranzo di nozze o a un veglione di capodanno. E nemmeno a un funerale. Li considerava inutili convenzioni sociali, consuetudini prive di senso. E poi i lunghi mesi estivi in montagna con il piccolo Marco, a cui trasmette il suo amore per la montagna. Tutto filtrato da una critica laica, da uno sguardo che milita contro ogni forma di retorica e di presunta purezza. Infine, alla soglia della morte, il gravoso passaggio del testimone di una madre che non vuole vedere il suo mondo e i suoi insegnamenti dissolversi con lei. “A lei” scrive Marco Albino Ferrari “non piaceva soprattutto l’idea di purezza, le piacevano gli ibridi, quasi per una forma ideologica. Io stesso ero un ibrido, nato da una donna latina e un uomo sconosciuto del Nord Europa; o meglio, ero un bastardo, come aveva detto lo zio Carlo…”

Mia Sconosciuta

Dove abitano gli scrittori

Il castello di Saché, nella valle dell’Indre, è uno dei noti castelli della Loira. Honoré de Balzac vi trascorse brevi soggiorni in fuga dalla stressante vita della società parigina e dal consueto assalto dei creditori. In compenso vi ambientò più di un tomo, tra cui “Il curato di Tours” e “Il Giglio nella valle”. E vi compose altrettanti volumi. Qui Balzac gustava il vino equilibrato e generoso di Vouvray con cui sovente annaffiava i suoi irregolari pasti rablesiani. Era capace, dopo due o tre giorni di digiuno e di scrittura diurna e notturna, di deglutire anche cento ostriche e sei pernici in un solo pranzo. Un altro castello da visitare è quello dove vissero Voltaire e Gabrielle-Emilie de Breteuil. Sposata con il marchese di Chatelet, dal quale ebbe tre figli, era interessata agli studi scientifici, cosa piuttosto insolita per una donna del Settecento. Passione che la mise in rapporto con Voltaire: una conoscenza stimolante per le sue ricerche. Voltaire era considerato un uomo freddo, cinico e calcolatore, alieno alle passioni romantiche e implacabile fustigatore della mentalità del suo tempo. Lo scrittore pagò con frequenti soggiorni in galera la causticità delle sue opere. Fu proprio per sfuggire all’ennesima condanna che si rifugiò a Cirey (allora territorio del ducato di Lorena, indipendente dalla Francia). La dimora di campagna dei coniugi du Chatelet fu rinnovata e sontuosamente rifinita da Voltaire stesso, a proprie spese. Con l’amica Emilie, il filosofo mise a punto un rigoroso piano di studi da attuare nella villa, con orari esattamente definiti per l’attività intellettuale, le conversazioni, i pasti, il teatro e la musica. Non è mai stata chiarita fino in fondo la reale natura dei rapporti fra Voltaire e Madame du Chatelet. Una cosa però è certa: Voltaire non provò per nessun’altra persona un sentimento cosi profondo. Voltaire non ruppe con lei nemmeno quando, nel 1748, Emilie si innamorò del marchese Saint-Lambert e ne restò incinta Ed è certo che la morte della marchesa di Chatelet lo portò quasi alla disperazione. La casa di Samuel Beckett a Ussy-sur-Marne, 60 km dal centro di Parigi, è una abitazione spoglia, una sorta di “capanna arredata” con il telefono abilitato solo a chiamare e non a ricevere. Una villetta isolata, a tre chilometri dal centro. Più che una abitazione fu una cella monastica e qui Beckett si chiuse per scrivere la maggior parte dei suoi capolavori. Quando frequentava questa casa Beckett era sposato con Suzanne Déchevaux-Dumesnil. Però amava già Barbara Bray, giovane produttrice e redattrice inglese che aveva conosciuto a Londra, che per lui aveva lasciato la carriera alla Bbc e a 36 anni si era trasferita a Parigi. In Francia Barbara diventò protagonista della vita intellettuale dell’epoca con le sue traduzioni di Sartre, Robbe-Grillet, Genet e in particolare di Marguerite Duras, della quale era amica. Rimase al fianco di Beckett per quasi trent’anni: compagni intellettuali e anche innamorati. La casa oggi è in Rue Samuel Beckett. “To rue” in inglese significa soffrire, e quella per Barbara era la strada della sofferenza, del suo doloroso amore per Beckett. Un uomo che la amava, ma non aveva mai voluto separarsi dalla moglie. Per lui Barbara era diventata «la donna invisibile». In quella casa Beckett non invitava nessuno. A parte Barbara. Lei lo spronava a scrivere, gli suggeriva i libri da leggere, lo consigliava sulle traduzioni delle sue opere. A volte andava a vedere di nascosto le rappresentazioni dei suoi drammi a teatro, per fargli da «spia». Un’intesa totale, romantica e intellettuale. Dalla casa di Ussy, per la precisione dal suo tavolino in giardino, Beckett scriveva a Barbara e leggeva le sue lettere: se ne sono scambiate migliaia in quasi tre decenni di amore nascosto. Oggi 720 missive di Beckett a Barbara sono state pubblicate nella collana delle sue Lettere della Cambridge University Press: così tutti possono sapere quanto fossero vicini. Ed è grazie a queste lettere che Barbara Bray è un po’ meno la donna invisibile.
Della casa nel Peloponneso di Sir Patrick Leigh Fermor, nella penisola del Mani (frequentata anche da Bruce Chatwin), ne parliamo anche in questa puntata di Onde Road.

Per approfondimenti su queste e altre case di scrittori consiglio “Le case dei miei scrittori”, l’ottimo libro di Évelyne Bloch-Dano (ed. ADD).

Brughiere, foreste e “casette” per i libri

Brughiere, foreste e “casette” per i libri

Camminare dentro un bosco è una magia. E camminare aiuta a riflettere. È forse questo uno dei motivi per i quali alcune delle pagine più belle della letteratura mondiale sono ambientate all’interno di foreste, luoghi magici in cui il nostro essere si fonde con la natura, inducendoci al raccoglimento e alla riflessione. Molti di questi boschi non sono frutto della fantasia degli autori, ma esistono nella realtà e sono visitabili. E’ il caso delle brughiere inglesi dello Yorkshire che fanno da sfondo a “Cime Tempestose”, il capolavoro delle sorelle Brontë. Un magico mondo immerso in un’incantata atmosfera dove il tempo sembra essersi fermato. Le origini del bosco dei cento acri di Winnie Pooh invece pare sia una sintesi tra i ricordi d’infanzia di Alan Alexander Milner (autore della serie di libri con protagonista il celebre orsacchiotto), quelli di suo figlio di quando aveva tra i quattro e gli otto anni, e la topografia del loro terreno idilliaco nel sud dell’Inghilterra. Questo mondo ideale si rispecchia in tre particolari luoghi fisici: la casa di campagna di Milne e il giardino nello stile del XVI secolo; una brughiera di 24 chilometri quadrati, chiamata Ashdown Forest; e il vicino bosco privato, chiamato il Five Hundred Acre Wood, il Bosco da cinquecento acri. Se il Parco Nazionale di Pench  è la residenza di Mowgli, il figlio della giungla. La mitica Foresta Proibita di Harry Potter è la trasposizione letteraria della foresta del Dean , nel Gloucestershire occidentale. Diversa la storia che arriva da una foresta della zona di Nordmarka, nei pressi di Oslo. E’ una foresta di 1000 alberi, destinati a crescere indisturbati fino al 2114. Dal 2014 è parte integrante della costituenda Future Library , un lungimirante progetto culturale di land art concettuale dell’artista scozzese Katie Paterson che prevede che, alla fine della loro crescita, questi alberi vengano destinati a produrre carta per stampare libri. Ogni anno viene richiesto ai maggiori autori contemporanei un loro manoscritto che deve rispondere a semplici regole: la completa originalità delle scritto, che non deve essere noto a nessuno oltre che all’autore. Ovviamente l’autore piena libertà sull’opera, che può essere di qualsiasi lunghezza o genere. Il manoscritto sigillato viene conservato in una specie di capsula del tempo (una Silent Room presso la Biblioteca Deichmann di Oslo) e verrà dato alle stampe in 3000 copie alla scadenza del 2114. Quello delle little free library infine è un fenomeno esploso nel 2009, negli Stati Uniti d’America, quando Todd Bol e Rick Brooks inaugurarono la loro prima impresa sociale. Aprì così, lungo una pista ciclabile in Wisconsin, la prima libreria libera della storia. Oggi le little free library registrate sono migliaia e se ne trovano in tutto il mondo. Anche a Formigine, nel modenese. L’idea è venuta a Elena Barbieri nel 2012: ne installò una, tettuccio spiovente bianco e pareti rigorosamente laccate di rosso, che poteva contenere cinquanta libri. La battezzò Biblioteca del Gufo perchè “è sempre aperta, pure di notte. E in effetti alle 2 o alle 3 possono passare i ragazzi che escono dalla birreria, tanto è sempre illuminata”. Oggi quella casetta dei libri ha sette succursali, più un capannone che fa da magazzino. Dallo scorso 30 marzo, la casetta di via Mazzini 99 a Formigine, con l’autorizzazione del Comune, è diventata anche un punto di solidarietà. Chi non lavora e non può fare la spesa può trovarci beni di prima necessità. Chi è fortunato può lasciare pasta, sughi, biscotti, latte a lunga conservazione, scatolame e prodotti per l’igiene a chi ora non può comprarli.

Viaggio nel deserto marocchino

Prima ancora che un luogo geografico, il Grande Sud del Marocco è uno stato d’animo. Le suggestioni che suscita sono molte e potenti: i colori che da giallo-calcare lanciano improvvisi acuti color ocra, rosso-mattone, viola, nero; poi lo spazio, quello pieno delle montagne dell’Atlante e quello vuoto, che galleggia trasparente e silenzioso ovunque; e, inscindibile dallo spazio, il tempo, che frequentemente è quello passato, a volte prossimo a volte remoto, raramente quello futuro, quasi mai quello presente. Un viaggio nelle terre dell’orgoglioso popolo amazigh, quello che impropriamente chiamiamo berbero. Partenza da Marrakech, dopo una visita al Museo dell’Arte Culinaria. Uscendo dalla città, lungo la strada per Ouarzazate, tappa al Museo d’arte contemporanea africana Al Maaden: oltre 2.000 opere di arte moderna e contemporanea di artisti africani, residenti e della diaspora. Marrakech è la coordinata geografica che separa due realtà marocchine economicamente molto diverse. Le terre da Marrakech al mare, storicamente legate a ricchi proprietari terrieri, da sempre beneficiari di pingui investimenti governativi. Quelle da Marrakeck al deserto invece sono divise tra piccoli appezzamenti di proprietà di famiglie amazigh e qui gli investimenti statali sono pressochè inesistenti. Superato il passo del Tizi’n Tichka c’è una vera e propria curvatura spazio-temporale: il colore diventa quello rosso-mattone della roccia e dei villaggi fortificati (ksour) che si sciolgono alle intemperie come castelli di sabbia abbandonati da un bambino capriccioso. Le strade diventano sterrate e polverose e il passato coloniale mostra le sue cicatrici. Come a Tèlouet, sede di una kasbah dove visse Haj Thami el-Glaoui, ultimo pascià di Marrakech, che qui ospitò personaggi come Yves Saint Laurent, Charlie Chaplin, il generale Patton e Charles de Gaulle. Altre tappe imperdibili sono lo ksar di Aït Benhaddou, lungo la valle dell’Ounila, e l’oasi di Fint (in amazigh “oasi nascosta”), un insieme di 4 piccoli villaggi al confine con uno stretto palmeto, verde e affascinante, che si estende lungo il Wadi Fint per alcuni chilometri. Superata Ouarzazate la strada si inoltra per la valle del Draa, il fiume più lungo e importante del Marocco. La vallata è un interminabile palmeto punteggiato di kasbah secolari, dove una delle più affascinanti è sicuramente quella del Caides (sultano) a Tamnougalt. Zagora, capitale della valle del Draa, è la porta del deserto. A certificarlo ci pensa un cartello stradale, uno dei più fotografati del Marocco, che indica la direzione per Timbuctù informando che la distanza, a dorso di cammello, è di 52 giorni. La vegetazione è sempre più rara. Qualche palma, rade sterpaglie ed immense pietraie. Quando le dune di Merzouga sono già a portata di sguardo il lago Dayet Srij offre le sue acque a rondini, fenicotteri e cicogne. E’ un originale preludio ad uno dei punti più affascinanti del deserto del Sahara: le dune dell’Erg Chebbi. Un mondo fatto solo di albe e tramonti, il resto è sole senza ombra. Le dune, alte sino a 160 metri, vengono instancabilmente modellate dal vento e un occhio attento scopre che qui la natura è morta solo apparentemente. Di notte l’assenza di inquinamento luminoso permette di scrutare un cielo dove la Via Lattea è chiarissima e le stelle sorprendentemente luminose e grandi. Il massimo è assistere, seduti sotto un incredibile baldacchino di stelle, a un concerto di un gruppo gnawa locale: gli Gnawa Khamilia. Un sound dove l’incessante poliritmia delle percussioni e delle nacchere di ferro si amalgama con l’ipnotica melodia del guembri…

La Napoli dei maestri di strada e del Dios umano

Maestro di strada è un nome forse coniato a New York, forse in Israele. I maestri di strada di Napoli lo hanno introdotto nell’uso comune per designare in modo efficace un modo di educare diverso a quello in uso nel nostro sistema scolastico, ma forse più vicino ai modi originari dei maestri. Sono una cinquantina e secondo Cesare Moreno, il loro coordinatore, la loro mission è iniziare una trasformazione educativa nelle scuole, partendo dagli insegnanti. Maestro di strada significa mettersi sulla strada di chi vuole crescere e accompagnarlo – essere dalla sua parte e non di fronte a lui – per mostrargli la strada muovendo i passi per primi o osservandone e guidandone i passi. E’ con Nicola, uno di loro, che abbiamo raggiunto San Giovanni a Teduccio, un ex quartiere operaio, dove abbiamo incontrato Alessandro del Centro Giovanile Asterix che ci raccontato del suo lavoro presso il Centro Informagiovani. San Giovanni a Teduccio è un quartiere dell’area orientale di Napoli dove, secondo alcuni storici, viveva Theodosia, la figlia del grande imperatore romano Teodosio. In effetti, proprio all’interno della contrada, nel corso di alcuni scavi, furono trovati dei resti archeologici, in particolare una colonna, probabilmente una pietra miliare, recante il nome di “Balentiniano Tiudosio et Arcadio” ovvero Valentiniano di Teodosio e del figlio Arcadio. Secondo una leggenda, intorno a queste colonne, si svolgevano grandi feste alle quali partecipavano le maggiori personalità di Napoli. Con il tempo si prese l’abitudine di appellare tutta la zona “at Theodociam, per indicare che tali feste si svolgevano proprio nei pressi della villa di Theodosia. Il toponimo At Theodociam venne poi, con il tempo, trasformato in Teduccio. Oggi, se ci si trova da quelle parti, non si può non andare in via Taverna del Ferro a vedere i giganteschi murales di Jorit Agoch che campeggiano sulle due facciate degli edifici del cosiddetto Bronx di via Taverna del Freddo. “Dios Umano” e “Essere Umani”. Da una parte il volto di Diego Armando Maradona e dall’altra la faccia dello “scugnizzo” Niccolò. Niccolò con il suo volto simboleggia l’essere umano, in contrapposizione con il “volto umano” di chi per tanti napoletani è stato quasi un Dio, ovvero Diego Armando Maradona. Il “Dios umano” è un’opera autofinanziata, un regalo dello stesso Jorit ai napoletani. L’opera fu completata grazie a fondi avuti dal capitano del Napoli Marek Hamsik e da associazioni che operano sul territorio. Ultima sosta alla Pasticceria Lauri, nel quartiere Vicaria: l’unico in città che propone un babà halal, ovvero senza strutto e senza rhum. Un babà che può essere degustato anche dalla comunità islamica.