Turismo responsabile in Senegal

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Saint-Louis, la vecchia capitale del Senegal che ha saputo conservare l’antico splendore coloniale nonostante la povertà, dista poco più di un’ora di macchina dal Parco di Djoudj, uno dei principali santuari dell’Africa Occidentale per gli uccelli migratori. L’area rappresenta la prima zona di rifornimento d’acqua, dopo un percorso di oltre 200 km sopra il deserto del Sahara, per intere colonie di volatili. Migliaia di fenicotteri rosa qui nidificano regolarmente, così come oltre 5.000 pellicani bianchi, anitre fischiatrici dalla faccia bianca, oche dallo sperone, aironi rossi, nitticore, spatole, cormorani e otarde arabe. In totale quasi 360 specie di uccelli, di cui 58 nidificanti. A cui bisogna aggiungere 92 specie ittiche, e poi coccodrilli, varani, scimmie, facoceri, gazzelle e sciacalli. Una situazione analoga si registra al Parco Nazionale della Langue de Barbarie, una stretta lingua di terra che corre per 60 km, separando il fiume Senegal dall’oceano Atlantico. I 2000 ettari del Parco danno rifugio a numerose specie di uccelli acquatici come sterne, gabbiani, aironi e garzette. In entrambi i parchi gli abitanti che abitano nelle loro adiacenze forniscono guardie ecologiche che organizzano escursioni nel parco e, grazie al comitato, coordina una serie di strutture legate al funzionamento delle aree protette. I profitti generati dalla gestione turistica (il noleggio delle piroghe, il negozio artigianale posto all’ingresso del Parco, il campement) vengono poi reinvestiti per lo sviluppo della comunità e per il ripristino di aree danneggiate. Le occasioni per un turismo responsabile in Senegal non sono limitate al nord del Paese, ma sono in aumento così come è in crescita il turismo internazionale che oggi è arrivato ricoprire un ruolo di primo piano nell’economia del paese, rappresentando circa il 5% del Pil. Le mete affascinanti non mancano. E’ il caso dell’isola delle conchiglie. E’ raggiungibile con un ponte in legno lungo quasi un chilometro, rigidamente pedonale, che divide l’isola di Fadiouth da Joal, un porticciolo scoperto nel XV secolo da alcuni navigatori portoghesi. Dakar è lontana due ore abbondanti di macchina, 150 chilometri più a nord. Joal si è guadagnato un paragrafo sulle guide turistiche per le sue palme da datteri e da cocco e per le sue “tanns”, deliziose piccole ostriche che si trovano tra gli arbusti di mangrovie e crescono aggrappate alle radici sommerse degli alberi paletuviers. Nei libri di storia è citata invece perché ha dato i natali a Leopold Sedar Senghor, poeta e primo presidente del Senegal indipendente. Il ponte porta a un piccolo isolotto lungo 500 metri costituito da un accumulo di conchiglie che si sono depositate nel corso dei secoli. E’ per questo motivo che le strade che attraversano Fadiouth sono foderate di conchiglie. Che il consiglio degli anziani, che regola la vita del villaggio, si riunisce in uno spiazzo ombreggiato coperto da conchiglie. E che le tombe, al cimitero, sono interamente rivestite da conchiglie. Un cimitero dove, promiscuamente, sono sepolti mussulmani e cristiani. Se in Senegal i discepoli del profeta costituiscono il 90% della popolazione, i seimila abitanti di Fadiouth sono quasi tutti cristiani di etnia Sererè. Una convivenza interreligiosa tranquilla e secolare la loro, a tal punto che si protrae oltre l’esperienza terrena…

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Il nuovo waterfront di Marsiglia

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Una trasmissione dedicata alla rivoluzione architettonica che, con il pretesto dello status di Capitale Europea della Cultura 2013, ha modificato radicalmente il Waterfront portuale della città. Di solito le grandi architetture sul mare danno le spalle all’acqua, Marsiglia ha deciso che le sue il mare lo devono guardare. Il primo passo è stato rifare il look al vecchio porto, pedonalizzandolo e ripavimentandolo con dell’arenaria chiara. Ci ha pensato l’architetto britannico Norman Foster, che ne ha addirittura ribaltato l’orizzonte. L’ha fatto grazie a un enorme baldacchino: lo chiamano “Padiglione”, ma è una tettoia in acciaio inox specchiante, supportata da sottili pilastri. Offrirà un tetto a manifestazioni, spettacoli e mercati. L’impatto della struttura sull’ambiente è minimo, in compenso il soffitto riflette tutta la vita sotterranea circostante. Il “quadro” a specchio di questo soffitto riesce a includere nell’immagine anche l’acqua, diventando a sua volta un porto da cui si può intraprendere un viaggio semplicemente con uno sguardo. Arriva sin qui l’ombra della nuova sede della terza compagnia marittima al mondo, la CMA CGM: una torre di vetro di 32 piani per 143 metri di altezza. E’ uno dei primi edifici che è ‘sbocciato’ in questo rinascimento edilizio ed è un lavoro targato Zaha Hadid, la celebre archistar anglo irachena. L’architetto marsigliese Roland Carta invece ha lavorato su un silo per cereali inutilizzato da vent’anni, usato in passato per il deposito del grano che veniva caricato e scaricato dalle navi. Dopo la riconversione operata da Carta al suo interno oggi ci sono uffici, un grande auditorium per la musica, spazi per mostre temporanee e un ristorante panoramico. L’architetto franco-algerino Rudy Ricciotti ha invece lavorato al MuCEM, il Museo delle Civiltà d’Europa, un altro dei landmark della nuova Marsiglia. E’ un parallelepipedo vetrato, rivestito con una rete realizzata con un particolarissimo cemento armato precompresso, traforato. Posizionato sul molo J4, nelle adiacenze dello storico Faro di Marsiglia, questo nuovo spazio mediante una lunga passerella sospesa, che gira attorno all’edificio, è connesso alla vicina fortezza quattrocentesca di Saint Jean. Nelle adiacenze del MuCEM c’è La Villa, una costruzione curata dall’architetto italiano Stefano Boeri. E’ un edificio polifunzionale che ospiterà attività di ricerca e spazi di documentazione sul Mediterrano. La forma a C del nuovo volume ha consentito di ospitare al suo interno anche il mare, saldando ulteriormente il legame tra la città e il Mediterraneo: l’acqua penetra infatti tra i due piani orizzontali dell’edificio, quello della sala congressi e quello della sala espositiva, creando una piazza d’acqua pronta ad ospitare pescherecci, barche a vela, allestimenti e performance temporanee.

Marseille Tourisme  – Marseille-Provence 2013La Villa MèditerranèeLe MuCEMFRAC PACAPavillon M

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Escursioni pasquali

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Il confronto tra due Giuda, figuranti di due storiche Vie Crucis Viventi dell’Italia meridionale: quella di Ravello, un borgo della costiera amalfitana, e quella di Paupisi, nel beneventano. E la Via Crucis con le vittime della camorra al conservatorio di San Pietro a Majella, un’idea di don Tonino Palmese, vicario episcopale per la carità della Diocesi di Napoli e referente campano di Libera. Qui a leggere le meditazioni sono magistrati, rappresentanti delle Forze dell’ordine e vittime innocenti della criminalità. Niente Vie Crucis nel Trentino occidentale, ma la possibilità di adottare un melo in Val di Non. Funziona così: alcuni agriturismi della valle danno la possibilità di visitare i frutteti in compagnia dei loro proprietari, scegliere una pianta e (quando saranno maturate) raccogliere dall’albero un’intera cassa di mele da portare a casa con sé. In attesa che i meli maturino ogni mese il contadino spedirà all’adottante una mail che testimonierà lo stato di salute del suo melo. A Topolò invece, un paesino disperso tra le montagne delle valli del Natisone il cui nome deriva dall’albero del pioppo (in sloveno “topol”) rischia di chiudere per i tagli alla cultura un intrigante esperimento culturale. In questo borgo nell’estrema parte orientale della provincia di Udine, a poca distanza dal confine con la Slovenia, da anni a luglio è attiva “Stazione Topolò-Postaja Topolove” una manifestazione internazionale che tocca vari campi dell’ arte e della comunicazione: filmati, disegno, fotografia, musica, poesia, teatro. Gli artisti vengono ospitati nel piccolo borgo di Topolò dove effettuano un “intervento” sulla base degli stimoli ricevuti dal luogo stesso. Perdere quest’esperienza sarebbe criminale…

Azienda autonoma Turismo di Ravello (link) – Per adottare un melo (link) – Per salvare la stazione di Topolò (link e link)

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Sofia, la Nashville dei Balcani

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Dalla caduta del muro di Berlino la capitale del più sovietico dei paesi dell’est ‘sta studiando’ per diventare la ‘piattaforma di mercato’ verso Russia e Turchia dell’Unione Europea. Lo fa guardando avanti, verso una cultura e un mondo, l’Occidente, agognato per troppo tempo. Ma non può evitare di voltarsi indietro, in cerca delle ombre di un passato ancora troppo recente. In pieno centro si riproduce l’Europa clonando luoghi e loghi. Centri commerciali modulati come i nostri: gallerie di negozi, scale mobili e scaffali di merci occidentali. Ma il cuore della Sofia più verace continua a battere al Mercato delle donne. Zona di fitti commerci, è un susseguirsi di bancarelle dove si vendono, prima di tutto, verdure e frutta: mele rosso fuoco, barbabietole e verze “taglia XXL”, noci già sgusciate… Tutta merce una volta in esclusiva per le tavole dei più ricchi “fratelli” sovietici. Le stradine laterali pullulano di bistrot, “musei enogastronomici” dove vengono custodite tradizioni culinarie antiche di secoli. Una gastronomia figlia dell’impero ottomano, che spazia nel segno della multiculturalità, il tratto distintivo della capitale bulgara. Lo testimonia il fatto che Sofia è capace di far convivere, in poche centinaia di metri, la chiesa ortodossa Sveta Nedelja, la Banja Basi dzarnja, la “moschea dei bagni” eretta nel 1576 dal celebre architetto Sinan e la Central Sinagoga, il tempio sefardita più vasto d’Europa. Una commistione che si respira anche girovagando per le strade, grazie alla colonna sonora, rigorosamente in diretta, offerta da piccole band zingare che con clarini, chitarre, violini e fisarmoniche, vagano tra vicoli, piazzette e ristoranti. E’ la rappresentazione sonora dell’onnivora cultura rom che, da sempre, ha preso e ha dato qualcosa a ogni luogo che ha attraversato. In questi anni il passaggio dal regime socialista al capitalismo è stato foriero di mille sogni: per ora si sono perse certezze e sono nate speranze che spesso rischiano di ridursi a miraggi. Per trasformarli in realtà la strada è ancora lunga. Nell’attesa ogni tentativo è buono, anche puntare sulla riconversione della Bojana Film. E’la Cinecittà bulgara e si trova alle pendici del monte Vitosha, a otto km dal centro di Sofia. Negli anni del socialismo reale gli studi occupavano quasi 3000 persone, e venivano assunti anche gli attori. Oggi a libro paga della New Bojana Film ci sono solo un centinaio di tecnici, ma la struttura sta vivendo un grande rilancio, grazie soprattutto alla crescita delle produzioni internazionali (europee ed americane) a cui vengono affittati set, capannoni e studi. Ci hanno lavorato registi del calibro di Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio e Luc Besson, che per l’occasione hanno portato a Sofia attori del calibro di Catherine Deneuve, Christopher Lambert, Valeria Golino e Daryl Hannah. Frequentando la movida di Sofia potreste incontrare le star hollywoodiane più inaspettate…

Chi è interessato al viaggio a Sofia con Radio Popolare del 7-8-9-10 Giugno per info e dettagli può telefonare allo 02-39241404 dal Lunedì al Venerdì dalle 9.00 alle 16.30 oppure inviare una mail a santambrogio@radiopopolare.it . Chiusura prenotazioni Venerdì 12 Aprile (salvo esaurimento posti)

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Le geografie mediterranee di Napoleone

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Un viaggio, guidati mano nella mano da Saul Stucchi (autore con Federica de Luca de ‘I luoghi di Napoleone’ – Touring Club Editore), che inizia a Mombasiglio, un borgo fra Mondovì e Ceva: un territorio che fece da scenario alle prime fasi della campagna d’Italia dell’allora generale Bonaparte. Qui, oltre al Museo napoleonico che ospita stampe tratte dagli acquarelli, dai disegni e dagli schizzi commissionati dallo stesso generale all’artista embedded Giuseppe Bagetti, scopriamo che Napo alla sera si faceva di ‘minestrina’… Sull’isola di Nelson, nella baia di Abukir, un grande scoglio al largo di Alessandria d’Egitto, abbiamo la conferma che non sempre la morte è una livella. Sull’isola sono sepolti i militari che persero la vita durante l’importante battaglia navale connessa al conflitto fra la Francia rivoluzionaria e la Gran Bretagna: per anni accomunati da una sepoltura ‘promiscua’ oggi hanno un trattamento diverso a seconda della divisa che indossavano. All’isola d’Elba scopriamo che Napoleone amava stare a mollo, ma lo faceva nella vasca della palazzina dove risiedeva, sita nel luogo dove vi erano quattro mulini a vento, opportunamente riempita d’acqua di mare. Scelta originale, come quella che vedeva il Bonaparte dormire raramente nella sua camera da letto della Palazzina dei Mulini: la sua vera reggia era il giardino dove passava ore e ore a dettare ordini, studiare il mare e organizzare una nuova rivincita. Un capitolo tutto suo lo abbiamo dedicato a Maria Giuseppa Rosa de Tascher de la Pagerie, meglio nota come Giuseppina di Beauharnais: vera e propria ‘milf’ ante litteram. In chiusura due dritte su uno dei caffè più pregiati al mondo: quello di sant’Elena. Di cui Napoleone era un fan…

Guida: “I luoghi di Napoleone” di Federica de Luca e Saul Stucchi, Touring Editore – Museo napoleonico di Mombasiglio

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Lisbona, la meticcia

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La Moureria è un quartiere che assomiglia alla lingua portoghese. E’ un universo meticcio, dove piccole strade acciottolate, apparentemente infinite, sfociano in vicoli ciechi, e dove palazzi esteriormente in rovina ospitano complessi abbellimenti a base di azulejos senza tempo. Qui nacque Maria Severa Onofriana, colei che viene identificata come la prima fadista. Una targa su un palazzo del XIX secolo, in Largo Severa, ricorda la sua figura ai passanti. E quasi tutte le sere in una piccola tasquinhas, che non casualmente si chiama Os Amigos da Severa, giovani fadisti fanno rivivere le sue canzoni mentre il pubblico degusta bicchierini di ginginha, il classico liquore portoghese da bere tutto d’un fiato, con o senza ginjia, che è la ciliegia. Oggi ci vive e lavora anche Camilla Watson, una fotografa scozzese. Tra i suoi lavori ce n’è uno dedicato agli anziani habitantes del Beco das Farinhas, un vicolo della Muraria popolato da mini-market pakistani, vecchie osterie e da ristoranti africani. Si chiama Tributo ed è costituito da una serie di serigrafie che sono state incastonate nei muri del Beco das Farinhas, che così è diventato una sorta di museo a cielo aperto. Il bello è che è molto facile incrociare i protagonisti delle fotografie che spesso si prestano a ‘posare’ a fianco del loro ritratto creando così un bizzarro effetto domino. Una ripida ascesa porta in una delle istituzioni culturali di Lisbona: lo Chapitò, un progetto socio-culturale nato circa 30 anni che si auto-definisce “uma retaguarda cultural e uma vanguarda humanista”. E’ nato da una idea di Teresa Ricou, un’artista nota con il nome del personaggio che ha creato, il pagliaccio Tetè. Allo Chapitò conosciamo dei giovani rapper che ci invitano ad andarli a trovare nel loro barrio: Cova da Moura. L’indomani siamo tra le strade di Cova da Moura, scoprendo di essere improvvisamente catapultato in Africa. Anche perché io e Bruno, il fotografo, siamo gli unici bianchi. Sui muri enormi ritratti di Bob Marley e Tupac Shaker. Come in Africa, visto che è un lavoro semplice da fare (in pratica bastano solo un paio di forbici) a Cova de Moura ci sono 31 parrucchieri, con avventori che arrivano da tutta Lisbona per i prezzi estremamente convenienti. Ma ci sono anche 27 ristoranti (rigidamente afro) e molti bar. Se poi ci andate di sabato sera le strade sono piene di bracieri su cui si grigliano spiedini di pollo e frattaglie di maiale. Nei bar improvvisate orchestrine mischiano vecchie coladere importate da Capo Verde con del funky senza tempo. Tirare l’alba, tra un piatto di cachupa (fagioli, miglio e piccoli pezzetti di pesce o di carne) e un bicchiere di succo di tamarindo, cullati da una morna o da un rap creolo, equivale ad avere la conferma definitiva che la Lisbona odierna non è solo fado e baccalà.

Info su LisbonaAssociazione Renovar a MourariaCamilla WatsonChapitòCova da Mourasito Homens da Luta

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Foto di Bruno Zanzottera (Parallelo Zero)

Păh-Tak

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E’ la patria del colpo di sole, un paese così caldo, umido ed esotico da essere definito “l’ascella sudata del Sud-Est asiatico”. Per troppo tempo il Păh-Tak è rimasto isolato dal mondo esterno. Questo paradiso tropicale è stato purtroppo associato a lungo ad atrocità, miseria e massacri (il tutto unito ad un livello molto scarso dei duty-free). Ma per fortuna, oggi è una nazione pacifica e ovunque i cittadini che per anni hanno fatto parte di spietate milizie clandestine vi accoglieranno a braccia aperte (anche solo con uno, nella maggior parte dei casi purtroppo). Con questa puntata Onde Road presenta tutte le informazioni necessarie per programmare un viaggio nella culla dello stiracalzoni e della colite spastica.

Dove alloggiare
Se cercate l’esclusività, il Pãh-Tak offre alberghi sulla costa così lussuosi che il personale viene licenziato ogni giorno solo per garantirne la freschezza.

Gastronomia
L’aggettivo che meglio descrive la cucina patakkese è “esplosiva”, una combinazione saporitissima di peperoncino, aglio e pepe a cui occasionalmente viene aggiunto del cibo.

Attività
Chi visita il Nord del Paese avrà l’opportunità di praticare il rafting lungo alcune delle colate di fango più imponenti del Sudest asiatico.

Shopping
Il Pãh-Tak vanta alcuni dei prodotti contraffatti di miglior qualità al mondo e tutti gli articoli in vendita sono accompagnati da un certificato di non autenticità.

Per un viaggio nel Păh-Tak è indispensabile dotarsi della guida curata da Santo Cilauro, Tom
Gleisner & Rob Sitch: “Păh-Tak”, 2006 Rizzoli.

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Malta

Bow window a La Valletta

Trecento km quadrati e poco più di quattrocentomila anime alla deriva tra Europa ed Africa. Una media di sei ore di sole al giorno in gennaio e una temperature intorno ai 16°C ne fanno una meta ideale anche nei mesi invernali. La rosa dei venti sulle mappe del Mediterraneo l’hanno sempre piazzata qui e qui nel tempo sono passati più o meno tutti. Se l’Union Flag ha sventolato dal 1814 agli anni Sessanta, quando arrivò l’indipendenza, in precedenza avevano sventolato le bandiere di fenici, cartaginesi, romani e bizantini, arabi, normanni e infine il blasone dell’Ordine degli Ospitalieri. Scacciato dalla Terra Santa e poi da Rodi, sopravvisse su queste isole fin quando Napoleone non lo emarginò al ruolo di associazione caritatevole. Oggi i Cavalieri di Malta fanno ancora qualche parata di tanto in tanto, mentre la locale fabbrica di Playmobil, un vanto, smercia migliaia di pupazzetti in plastica con le loro insegne. Malta è unica nel rappresentare l’anello mancante fra lo squallore delle periferie di Beirut, l’architettura coloniale inglese e il barocco siciliano. Con gli stessi colori di Amman, o di Damasco, che raramente si discostano dal beige o dal bianco sporco, e una vegetazione che non riesce mai ad alzare il capo per il troppo sole. Medio Oriente, mischiato a un cattolicesimo di frontiera, abitudini britanniche, e una lingua che è dialetto arabo con una buona dose di vocaboli importati dalla vicina Sicilia. Chi cerca il mare più che le spiagge dell’arcipelago, spesso troppo affollate, deve puntare alle calette, tanto scomode da raggiungere, quanto piacevoli e poco frequentate. Oppure può andare a Gozo, l’ isola in cui Ulisse trascorse ben sette anni con la ninfa Calipso. I luoghi più affascinanti di Malta però sono all’interno delle sue isole, mete estreme nella loro bellezza. Cominciando dalle case di pietra dai bow window in legno, che ricordano l’architettura coloniale dell’India e sopravvivono in aree un tempo troppo povere per partecipare al boom del mattone. Poi ci sono i vicoli della Valletta, certi scorci del villaggio di Naxxar e le strade silenziose di Mdina, la vecchia capitale. Un motivo che da solo vale un viaggio a Malta è incarnato dalla Decollazione di Giovanni Battista, una gigantesca tela del Caravaggio che fa bella mostra di sé nella Cattedrale di San Giovanni, regalando al visitatore una potente riflessione sul dolore umano che accomuna persecutori e vittime.

Link utili:

Ente del Turismo di MaltaInfo sull’arcipelagoFestival ed eventi culturaliMusei, monumenti e siti archeologiciIl sito della capitaleIsola di Gozo

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Viaggio nelle barberie

Il maestro Piscopo da Anatolia

Una incursione in un universo vintage, profumato di brillantina e lozioni d’altri tempi, quando le schedine della sisal servivano a pulire il rasoio dalla schiuma da barba. Lo facciamo oggi che una nuova rivoluzione ha coinvolto chi ogni mattina, davanti allo specchio, litiga con il rasoio per non trasformare il proprio viso in un penoso campo di battaglia. Per loro ora c’è il “sei lame”, sei affilatissime lamette “all in one”, tutte raccolte nel primo e unico al mondo apparecchio con cui ShaveMate – l’azienda fondata da due ragazzoni venuti su dalla Florida, Lou e Peter Tomassetti, ribattezzatisi “The inventor brothers”, i fratelli inventori – ha lanciato la prima guerra mondiale del rasoio. L’obiettivo? In palio c’è un mercato che, solo negli Usa, vale due miliardi e mezzo di dollari, ed è soverchiato dai colossi Gillette e Schick. Ma in gioco c’è anche il futuro di quella scienza maschia che si chiama rasatura e che per un’eternità era rimasta uguale a se stessa: da quando il primo monarca globale, Alessandro Magno, bandì quella barba che poteva diventare una terribile trappola nei corpo a corpo in battaglia fino, al 1904 in cui un certo King C. Gillette, pericolosamente ispirato dal successo dei neonati tappi a corona, primo esempio di prodotto casalingo di massa, non inventò e brevettò il rasoio usa e getta, facendo fortuna con le forniture militari durante la prima guerra mondiale. Da allora, è la corsa al rasoio perfetto. Seguendo le orme di King C. Gillette, The inventor brothers per testare la loro scoperta sono andati dai militari americani, quelli che erano in Iraq. Noi invece ci siamo infilati nel negozio di Antonio, uno dei pochi barbieri attivi sulla piazza di Milano. Aperta dal 1965 la sua barberia è anche un originale museo che ospita più di 200 immagini provenienti dai barbieri di Vietnam, Cuba, Yemen, India, Tibet, Madagascar, Marocco… Una collezione nata quasi per caso che oggi ha il sapore di un primato. Un patrimonio prezioso che racconta di un mestiere davvero senza confini che in alcuni Paesi lontani è oggi come da noi un tempo, senza bottega, ma itinerante al ‘servizio’ del cliente. E a proposito di ‘transumanza’ abbiamo accompagnato i musicisti della Compagnia di canto e musica popolare di Favara da Anatolia, il barbiere curdo di via Mac Mahon, a poche decine di metri da Radio Popolare. E così il maestro Maurizio Piscopo e i suoi musicisti hanno potuto regalare le musiche che accompagnavano i clienti delle barberie siciliane agli immigrati che frequentano Anatolia: “barba, capiddi e mandulinu” in salsa curda…

Le tradizioni musicali dei barbieri siciliani sono raccolte in “Musica dai saloni”, un libro e un cd curati da Gaetano Pennino e Giuseppe Maurizio Piscopo (2008, Casa museo Antonino Uccello). L’ideale è ascoltare il cd leggendo “Il salone di don Nonò” di Andrea Camilleri. Per ‘immergersi’ nel mondo delle barberie sicule guardate le fotografie in b/n di Armando Rotoletti pubblicate nel volume “Barbieri di Sicilia”.

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Ritorno a Liverpool

Un viaggio a Liverpool, quattro anni dopo. Un sacco di cambiamenti, a partire dalla ruota panoramica che 5 anni fa non c’era. La ruota è il simbolo dell’avvenuta rinascita urbana. C’è a Londra (la più grande di tutte), ma anche a Leeds, e poi a Manchester, e qui a Liverpool nell’Albert Dock. Sovrasta il museo dello schiavismo, l’attività economica che la fece grande. Le ruote non portano soldi, ma la dicono lunga sull’idea dei pianificatori inglesi su cosa sia la rinascita urbana: un’idea da giostra, da luna park per bambinoni cresciuti. Anzi, l’idea è ancora più rudimentale: rinascita è costruire un centro commerciale in città, o trasformare il vecchio centro cittadino in un polo commerciale con isole pedonali. E così questa volta ho trovato il LiverpoolOne, che 5 anni fa non c’era. E’ un enorme centro commerciale in pieno centro città, che si stende quasi sulla riva del Mersey: 160 tra negozi e grandi distributori su circa 17 ettari. La società Grosvenor ha investito per questo Mall un miliardo di sterline (1,2 miliardi di euro). Il proprietario di Grosvenor è il Duca di Westminster che, con una fortuna di 6 miliardi di sterline, è il terzo uomo più ricco della Gran Bretagna. Ma la crisi ha colpito anche qui: attorno ai negozi del centro commerciale gli appartamenti di lusso sono ancora sfitti. Migliaia di appartamenti sono vuoti… A proposito di crisi economica la cattedrale protestante di Liverpool ha avuto una grande (???) pensata: sfruttare se stessa. Tanto per cominciare le navate possono diventare una incredibile sala concerti. In cartellone show di musica sacra, ma anche musica classica e concerti di soul music. Si parla ancora un gran bene di una serata omaggio agli artisti dell’etichetta Tamla-Motown e di una strepitosa esibizione di Percy Sledge. Le navate della cattedrale possono essere affittate anche per cene o convention aziendali. Se il cliente cerca qualcosa di più raccolto, nessuna paura. Al piano di sotto c’è la vecchia chiesetta su cui è stata edificata la cattedrale. E’ uno spazio intimo, affascinante e carico di spiritualità. All’occasione può diventare un’ottima VIP area. La cattedrale dispone anche di un caffè e di uno shop. Nel primo pare venga servita una delle migliori minestre della città. Il secondo, vende di tutto. Riproduzioni della cattedrale, memorabilie e cd dei Beatles. Statuine del presepio e tazze per il tè. Copie della bibbia e animaletti di peluche. Lo shop è tappezzato da curiosi manifesti che recitano “Thank god for football”. Colgo l’implicito invito e decido di andare a vedere una partita del Liverpool. Purtroppo ho scelto un fine settimana in cui gioca fuori casa. Poco male. I Reds affrontano lo Stoke, la squadra della città di Stoke On Trent. Un’oretta di distanza da Liverpool. Una partita allo stadio dello Stoke è un’esperienza mistica…

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Link utili: visitbritain.com

 

Merano

Merano, punto d’incrocio tra la Val Venosta, la Val Passiria e la Val d’Adige, è una città double face: architettura tradizionale su una sponda del fiume Passirio, design contemporaneo sull’altra. D’inverno è una meta da cui partire per passeggiate con le ciaspole nel comprensorio sciistico di Merano 2000 situato direttamente sopra la città, oppure dalle parti del monte San Vigilio, un altipiano situato sopra il paese di Lana. E’ anche una buona base per chi vuole castigare il proprio corpo con ai piedi sci e pelli di foca: escursioni di sci alpinismo si possono fare, per esempio, in Val Passiria e in Val d’Ultimo (itinerari che si trovano ad altezze tra 1.200 e 3.700 metri sul livello del mare). Prima di immergersi nella neve è opportuno farsi una idea sulla storia di questa città, capitale della contea tirolese a partire dal XII secolo. Per farlo siamo andati a Castel Tirolo, la residenza avita dei conti di Tirolo che diede il nome alla contea sorta sotto il dominio di Mainardo II, e lì abbiamo incontrato Siegfried de Rachewiltz: storico d’arte, autore, esperto di folclore e nipote di Ezra Pound. Con lui abbiamo scoperto che Merano, ai tempi dell’impero asburgico era una sorta di piccola Sarajevo, dove convivevano austriaci, italiani, russi e una folta comunità ebraica. Tra i frequentatori anche la Principessa Sissi, che alle terme amava bagnarsi nel latte d’asina. Oggi tutti possono emulare Sissi in un’imponente cubo di vetro e acciaio che costituisce il cuore della moderna struttura termale locale, situata lungo la riva meridionale del Passirio. E’ una realtà aliena alla moda che imperversa sulle Alpi, che tende a trasformare le terme in un ‘divertimentificio’. Terme Merano punta su uno slow wellness dove tutto è ‘made in Tirol’: trattamenti a base di mele, d’uva, di siero di latte, di pino mugo, bagni nella lana delle pecore con gli occhiali della val d’Ultimo, nel fieno di erbe aromatiche altoatesine… Originarie delle vallate che circondano Merano anche le merci esposte da “Pur Südtirol”, un mercato ospitato all’interno del Kursaal, l’edificio dalle linee liberty simbolo della città, che propone prodotti regionali di qualità a prezzi onesti e rappresenta anche una vetrina per contadini e produttori locali (pane croccante di segala “Schüttelbrot”, formaggi di montagna, marmellate, aceti di frutta, succhi di mele e d’uva, vini, distillati). Tra questi, uno decisamente originale è Franz Pfeil, un conte vignaiolo che vive a Cermes, in una tenuta a pochi chilometri da Merano che ospita anche un intrigante labirinto vegetale. Il conte ci parla dell’uva e della sua visione ‘mistica’ delle liturgie legate alla produzione del vino: “Non mi limito a produrre materia prima, creo ed elaboro vini con la visione entusiastica e la fantasia di un artista…”

Link utili:

Sito Süd TirolSito di Merano Terme MeranoMercato Pur Süd TirolGiardino Labirinto Kränzel  – Castel Tirolo

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Viaggio tra le ceneri dell’URSS

Un viaggio in Transiberiana, la linea ferroviaria più lunga al mondo, che da Mosca arriva al Giappone. E’ questa l’esperienza che ci racconta Luciana Castellina: un viaggio sino in Siberia, in una terra che per noi si identifica con il gulag, ma per i russi è un Far West dello spirito. Geografie poco battute dal turismo e dai reportage, ci raccontano un paese di cui i media si sono dimenticati. Nižnij Novgorod (nota ai più come Gor’kij): la patria dell’omonimo venerato scrittore amico di Lenin e sede del confino del più celebre e ultimo dissidente sovietico, Sacharov. Kazan, la capitale non di una semplice regione, ma di una repubblica autonoma federata alla Russia: il Tatarstan. Tomsk, la capitale di una regione grande quattro volte la Germania, ma abitata solo da un milione di persone. Una città dove un abitante su quattro è studente universitario e 160 su 10.000 sono ricercatori. Una città che ha sei università più una serie imprecisata di istituti d’eccellenza. Ulan- Udè, capitale della Repubblica Autonoma Buriata, un posto dove Buddha e lo sciamanesimo hanno dovuto misurarsi ieri con il socialismo e oggi con il capitalismo. La prima riga di “Siberiana” (Nottetempo Edizioni), il libro dove la Castellina racconta questa esperienza, recita: “Poiché l’Urss era tanto russa, la Russia assomiglia ancora tanto all’Urss…”. E allora come corollario del viaggio di Luciana Castellina abbiamo incontrato anche Giampiero Piretto, autore de “La vita privata degli oggetti sovietici” (Sironi editore). E’ una sorta di ‘enciclopedia’ che prende in esame una serie di “cose”, oggi quasi del tutto defunzionalizzate della loro utilità, che hanno trovato posto in spazi culturali istituzionali, a salvaguardia della memoria di quanto hanno rappresentato per il cittadino sovietico durante i diversi periodi dell’esperimento socialista. Unendo l’esperienza personale a citazioni letterarie, artistiche e cinematografiche, Piretto ha costruito 25 percorsi che non solo raccontano il passato ma anche il presente di 25 oggetti (materiali e immateriali) made in CCCP, nell’uso e nell’immaginario collettivo. Ai nostri microfoni ci parla del Krasnaja Moskva, la risposta proletaria allo Chanel N.5: la colonna olfattiva dell’era sovietiva… E per contrappasso all’etereità di un profumo ci racconta la storia del bicchierie a faccette: solido resistente, proletario in tutto e per tutto…

Luciana Castellina: “Siberiana” (Nottetempo edizioni)
Gian Piero Piretto: “La vita privata degli oggetti sovietici” (Sironi editore)

Colonna Sonora: “Made in the USSR” by Oleg Gazmanov, la risposta ‘sovietica’ a “Born in the USA”
“Guitar” eseguita da Peter Nalitchi, canzone cult della nuova Russia

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L’isola Ferdinandea

Oggi l’Isola Ferdinandea è una piattaforma di roccia che si trova tra 6 e 8 metri sotto la superficie del marea tra Sciacca e l’isola di Pantelleria. Pare sia la bocca di un vulcano sommerso che di tanto in tanto erutta e riemerge. E’ quel che è successo nel 1831, quando si formò un’isola che crebbe fino ad una superficie di circa 4 km² e 65 m di altezza. Ma l’azione erosiva delle onde e la subsidenza dell’isola stessa fecero si che l’isola non ebbe vita lunga e così scomparve definitivamente sotto le onde nel gennaio del 1832. La sua scomparsa non ha portato però alla risoluzione del problema della sua sovranità perché l’isola faceva gola a chi era alla ricerca di avamposti strategici per gli approdi delle loro flotte mercantili e militari. Così il 2 agosto l’Inghilterra prese possesso dell’isola chiamandola “Graham”, suscitando le proteste dei siciliani. Il 26 settembre anche la Francia inviò un brigantino con a bordo il pittore Edmond Joinville, che realizzò i disegni dell’isola. I francesi la ribattezzarono “Iulia” in riferimento alla sua comparsa avvenuta nel mese di luglio, poi posero una targa a futura memoria e innalzarono sul punto più alto la bandiera francese. Allora Ferdinando II inviò sul posto il capitano Corrao che, sceso sull’isola, piantò la bandiera borbonica battezzando l’isola “Ferdinandea” in onore del sovrano. Da allora sono frequenti le voci di una riemersioni dell’isola che, ad oggi, continua a rimanere sott’acqua. Lo scorso luglio l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, nell’ambito del programma di controllo dei Vulcani sommersi dei mari italiani, ha dato il via a una campagna di monitoraggio multidisciplinare sottomarino nell’area dei banchi del Canale di Sicilia dove risiede la piattaforma della ex Isola Ferdinandea, il Banco Graham per i tecnici dell’INGV. Durante la campagna è stato eseguito un rilievo con un sonar di precisione che ha permesso di identificare 9 distinti crateri. A completamento delle operazioni sono stati deposti tre stazioni sismiche da fondo mare equipaggiate con sismometro. L’analisi dei dati permetterà di capire meglio lo stato di attività del vulcano. Il problema è che a causa dei tagli ministeriali agli istituti di ricerca come l’INGV si corre il rischio che le stazioni sismiche termineranno le loro batteria prima che qualcuno possa andare a ritirarle per leggerne i dati rilevati.

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Andalusia

Siviglia è la città d’Europa con il maggior numero di strade dedicate alla Madonna: 48 tra vie e piazze. Ma nell’Alcazar ha eretto un monumento a un monarca musulmano di tanto tempo fa, la cui stele recita: “La città al suo re Almutamid Ibn Abbad. 900 anni dopo”. Città meticcia come la sua musica, il flamenco: un suono figlio del viaggio del popolo rom dal Rajasthan all’estremo Occidente d’Europa. Siviglia è una città fatta per incontrarsi, per guardarsi, toccarsi, parlarsi. Il rito delle tapas sembra inventato apposta per facilitare tutte queste operazioni. Meglio diffidare dai locali del centro, perennemente battuti da nutrite pattuglie di turisti. Più saggio puntare sui quartieri frequentati dai sevillani, come l’Alameda de Hercules. Posta subito a nord del centro, è un’enorme spazio aperto, originariamente delimitato da pioppi (alamos in spagnolo), il cui suolo era coperto dall’alvero, la tipica terra sabbiosa andalusa di colore giallo. Dello stesso colore sono stati dipinti i mattoni che oggi lastricano la piazza. Frotte di ragazzini giocano a pallone su questo fondo dorato, utilizzando come porte le colonne di un tempio romano. Un’alternativa è offerta da quelli che i sivigliani chiamano Las Setas: i funghi. E’ il Metropol Parasol: una struttura fungiforme alta 30 metri, larga 75 e lunga 150, con sei “gambi” che sorreggono i “cappelli” formati da una “pelle” fatta di miscela di legno e poliuretano. Una architettura in grado di creare, sopra plaza de la Encarnaciòn, un’unica onda d’ombra. Al suo posto, per secoli, c’era un monastero. Successivamente dei mercati, e poi solo dei tristi parcheggi. Oggi grazie al Parasol si può passeggiare sopra plaza de la Encarnaciòn, percorrendo ondulati sentieri tracciati sui suoi tetti che regalano scorci fantastici su Siviglia. Una terza meta per delle ottime tapas è sull’altra sponda del Guadalquivir, a Triana. Qui una volta viveva la comunità gitana, oggi è un microcosmo di autenticità che merita di essere scoperto palmo a palmo. Se non si esagera con la birra si può affittare un kayak e, dopo aver solcato le acque del Guadalquivir, sbarcare nelle adiacenze del Padiglione della Navigazione, sull’isola della Cartuja. Disegnato e revisionato dall’architetto Guillermo Vázquez Consuegra, ospita mostre permanenti e temporanee legate alla navigazione. Lasciata Siviglia ci spingiamo a Marinaleda, una cittadina Andalusa che non conosce disoccupazione e prospera all’ombra della sua cooperativa agricola. E poi a Cordoba, la città della moschea della Mezquita, un gigantesco souvenir di quando i mori, giunti attraverso lo stretto di Gibilterra nel 711 d.C., scelsero Cordoba come capitale di al-Andalus, la Spagna islamica. Petra, una nostra ascoltatrice, ci svela il segreto degli azulejos de papel, e poi visiteremo il museo che ospita i quadri di Julio Romero de Torres, un pittore che dipinse prevalentemente figure femminili, more dal profondo sguardo misterioso, che produssero scandalo nei primi trent’anni del novecento per la potente carica erotica che offrivano attraverso la loro seminudità.

Link utili:

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La via dei lupi

Passo dopo passo, Marco Albino Ferrari ne “La via del lupo. Nella natura selvaggia dall’Appenino alle Alpi”(editore Laterza), ha rintracciato la ‘via’ che da circa quarant’anni il lupo è tornato a percorrere, fra luoghi marginali e misteriosi, dopo essere scomparso alla vista dell’uomo. Una via naturale attraverso foreste, altipiani, praterie d’alta quota, crinali, vallate secondarie e paesi isolati: l’altopiano di Castelluccio di Norcia, le Foreste Casentinesi, l’Appennino parmense, le Alpi Liguri, le Marittime, il Parco del Gran Paradiso, e ancora più in là, sull’arco alpino fino in Trentino. È lì che gli ultimi branchi sono stati avvistati, dove il Canis lupus italicus si incontrerà con altri esemplari in arrivo dalla Slovenia. Un incontro atteso, che forse completerà fino in fondo la via. Marco ci racconta del lavoro, negli anni Settanta, di un gruppo di giovani ricercatori (l’etologo tedesco Erik Zimen, David Mech, lupologo americano, e il romano Luigi Boitani, oggi titolare della cattedra di Zoologia dei Vertebrati all’Università La Sapienza di Roma) impegnati a studiare con metodi sperimentali ciò che all’epoca veniva ancora rappresentato come il “misterioso animale delle foreste” o il “divoratore di bambini”. Ci spiega come oggi viene rilevata e monitorata la presenza dei lupi. E risponde a Caterina, una nostra ascoltatrice che di mestiere alleva pecore e cavalli, che ci spiega perché se ieri i lupi erano in via di estinzione, oggi lo sono gli allevatori di pecore.

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