Cork e gli sport gaelici

‘Saoirse’ in gaelico significa libertà. Ed è con Erika Saoirse B., la nostra basista italo-irlandese, che iniziamo il nostro viaggio a Cork, città d’acqua e di commerci dell’Irlanda sud occidentale. E’ lei a raccontarci le magie di questo luogo, i suoi ponti sul fiume Lee, la sua birra (qui non azzardatevi a ordinare una Guinnes: si bevono la Murphy’s” e la “Beamish”, le due birre stout prodotte in loco), il suo mercato (English Market) dove si possono gustare le specialità gastronomiche locali… E il Cork Butter Museum, che non è una galleria kitch dove si espongono statue fatte di burro, ma un sito strettamente legato alla storia della città. Il museo infatti è ospitato nell’antica borsa del burro, un edificio del 1770 dove gli scambi si tennero fino al 1924. Il museo offre un interessante viaggio nella storia di un alimento che per l’economia della città ha significato molto. Prodotto nel sud dell’Irlanda , il burro veniva portato a Cork attraverso una rete di strade, le butter roads. Ogni mattina alle 11, nella Borsa, la commissione stabiliva il prezzo giornaliero e da qui il burro veniva esportato via nave in tutto il mondo… Imprescindibile una escursione a Cobh. Serve a ricordarci che qui la terra e il mare vivono in stretta connessione: i 15 minuti di treno che dividono Cork da Cobh corrono lungo un argine che non consente di capire dove lentamente scorre il fiume Lee e dove inizia il mare. Qui l’11 aprile 1912 attraccò per l’ultima volta il Titanic, prima della sua celeberrima tragedia. Oggi ci partono navi da crociera, che spesso sono salutate da una dozzina di signore vestite con gli abiti delle comparse del film sul Titanic… Sempre dal porto di Cobh, tra il 1815 e il 1970, partirono 3 milioni di irlandesi. Arrivavano la sera, trascorrevano la notte fra pinte di birra e nostalgia e se ne andavano il mattino dopo. Dicendo addio per sempre a chi -amici o familiari- li aveva accompagnati fin qui. Un’epopea ricordata oggi dalla statua dedicata ad Annie Moore. Situata davanti al Cobh Heritage Center rappresenta una ragazza quindicenne, che salpò sull’SS Nevada verso gli Stati Uniti il 20 dicembre 1891 in cerca di fortuna, e fu la prima nella storia, il 1 gennaio 1892 ad arrivare nel nuovo centro d’accoglienza di Ellis Island appena ufficialmente aperto. Obbligatoria la visita ad uno dei più bei musei d’Irlanda: l’Heritage Centre. Vi è raccontata l’epopea degli emigranti che partirono da Cobh sulle coffin ships, le ‘bare galleggianti’, ma anche l’odissea dei deportati verso l’Australia e dei loro viaggi massacranti, l’evoluzione commerciale del porto e le tragedie –come quella del Lusitania – che segnarono la storia della città.

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Obbligatorio, se siete da queste parti, anche una full immersion negli sport gaelici: una delle quintessenze dell’irishness. Provare a solcare le acque del Lee remando a bordo di un currach (una piccola imbarcazione indigena, costituito da un’ intelaiatura leggerissima, ricoperta in seguito da bitume per impermeabilizzarla) è più che un’attività motoria. E andare ad una partita di calcio gaelico e di hurling (i due sport più praticati, entrambi organizzati dalla GAA, l’Gaelic Athletic Association) significa capire un po’l’anima di un irlandese. Volendo strafare bisogna però assistere a una partita non in un posto qualsiasi, ma a Croke Park. Più che uno stadio, un monumento della storia irlandese. Qui il 21 novembre 1920 la polizia ausiliaria del Regno Unito sparò indiscriminatamente sulla folla durante la partita di calcio gaelico Dublino-Tipperary. I morti furono 12 spettatori ed un giocatore: Michael Hogan, capitano del Tipperary…

Link utili:

Cork Butter MuseumCobh Heritage CenterGaelic Athletic AssociationCroke ParkInfo per viaggi in Irlanda informazioni@tourismireland.com – Info voli per l’ Irlanda

Il bunker segreto di Tito

Nella graduatoria dei luoghi militari top secret il bunker di Konjic era indicato.con la sigla D- 0.Una denominazione che indicava che era il più segreto e il più importante. Per arrivarci da Sarajevo basta un’ora scarsa di macchina. Superato il borgo di Konjicsi costeggia la Neretva per qualche chilometro, poi oltrepassato un ponte, ci si trova davanti a una sbarra e a una casa anonima. Mostrati i documenti che autorizzano la visita si raggiunge una seconda casa, ancora più anonima, che nasconde l’ingresso dell’Atomska Ratna Komanda (ARK), il bunker costruito per Josip Broz Tito, anche se lui non ci mise mai piede. E’ una costruzione colossale, che ha richiesto 26 anni di lavori: dal 1953 al 1979. 6584 metri quadrati scavati dentro una montagna, a 300 metri di profondità. Il costo di quest’opera è astronomica: circa 5 miliardi di dollari. Si trattava di salvare una intera classe dirigente, quella jugoslava, da un ipotetico attacco nucleare. Oggi è un trionfo del vintage, un’orgia analogica. L’intenzione è di utilizzarlo come location per biennali d’arte contemporanea, che prendendo spunto dalla sigla in codice del bunker sono state battezzate “D-0 ARK Underground”. Una iniziativa che ha già ottenuto la targa europea d’attenzione culturale CECEL, un riconoscimento che il Consiglio d’Europa concede ai progetti d’eccellenza culturale. La prima edizione, celebratasi nel 2011, è stata curata da Serbia e Montenegro, la seconda nel 2013 toccherà a Croazia e Turchia (per il futuro si pensa a una biennale tedesco-polacca, e il sogno è di arrivare ad una edizione targata Usa-Russia). C’è molto simbolismo nel fatto che un posto come il bunker, ideato e costruito per rimanere chiuso, segreto, e riservato a un circolo ristretto di prescelti, rinasce e si apre ad un vasto pubblico, grazie all’arte, che per definizione è un concetto totalmente opposto a segreti e isolamenti.

Info pratiche. Gli accessi sono solo su prenotazione il lunedì, mercoledì e venerdì: non si può infatti accedere con mezzi propri, ma partecipare a tour organizzati dall’Ufficio Turistico di Konjić, i cui recapiti sono i seguenti:
Ufficio Turistico Konjić
Varda 1, – 88400 Konjic (BiH)
tel: +387 61 726 030
Biennale d’Arte D-O Ark
tel: +387 62 390 237
e-mail: bhbijenale@gmail.com

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Andare in Montagna in Afghanistan

Ferdinando Rollando è una guida alpina cresciuto sui sentieri e sulle nevi del Monte Bianco. Da qualche anno ha spostato il suo campo d’azione e lavora sulle impervie montagne dell’Afghanistan. Fa la guida ‘alpina’ e si occupa di un programma per la prevenzione delle valanghe (causa di centinaia di morti in quelle vallate). Parlando con lui scopriamo un Afghanistan lontano dalle cronache di guerra a cui siamo abituati. Montagne da scoprire in bicicletta o lungo infiniti sentieri. E, per chi se lo può permettere, arrampicandocisi sopra. Il posto più ‘tranquillo’ è la valle di Bamiyan, famosa in tutto il mondo per il sito archeologico nei suoi pressi: quello delle due enormi statue di Buddha scolpite nella roccia che nel marzo 2001 sono state distrutte ad opera dei talebani ed oggi sono oggetto di un progetto di ricostruzione sotto l’egida dell’UNESCO. Fernando organizza escursioni anche nel Badakhshan, una località dove gli ultimi nomadi kirghisi vivono a quote talmente elevate che secondo Marco Polo non riuscivano nemmeno ad arrivarci gli uccelli. Ferdinando oggi vive in Afghanistan per nove mesi all’anno. Un piccolo scampolo di questi mesi lo vive a Kabul, dove ha trovato il modo di fare da ‘consulente’ agli autori di “Kaboul Kitchen”,una sit com della televisione francese che ha come protagonisti ‘gli internazionali’ che vivono nella capitale afghana.

Per contattare la guida: ferdinando@rollando.com

Alpistan è un’associazione che vuole diffondere i valori e le competenze alpine nelle aree povere del mondo, finalizzata alla crescita dei rapporti interculturali, compatibile con la crescita dei diritti e della qualità di vita in tali aree.

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Gentrificazioni istanbuliote

Da qualche anno Cihangir è uno dei quartieri più trendy di Istanbul, amato da artisti, intellettuali e bohemienne. Il quartiere è nel distretto di Beyoğlu, a due passi dalla centralissima piazza Taksim, dove si concentra gran parte della vita notturna della città. Dalla fine dello scorso secolo Cihangir ha cominciato a diventare un rifugio naturale per gli artisti. Il quartiere era poco sicuro e quindi le case costavano poco: l’ideale per chi naviga sulle acque economicamente incerte dell’arte. Oltre agli artisti arrivarono gli studenti e i primi locali modaioli. Novità che, provocando un aumento degli affitti, che costrinsero (e costringono) i vecchi abitanti del quartiere ad andarsene. Scompaiono le sacche di disagio e la prostituzione, il quartiere perde la sua anima per mutuarla con un maquillage più snob e sofisticato. E’ un classico processo di gentrificazione, tipico di metropoli come Istanbul. In questi anni, nella città più moderna e cosmopolita della Turchia, abbiamo assistito alla scomparsa e successiva rinascita di numerosi quartieri. E’ successo a Sulukule, un vecchio insediamento nell’area della penisola storica di Istanbul, nella municipalità di Fatih, abitata da circa mille anni dalla comunità Rom. Non esiste più, raso al suolo. I Rom scacciati. Sta succedendo a Tarlabaşı (sempre nel distretto di Beyoğlu), un quartiere povero, considerato malfamato, su cui si sta abbattendo un fiume di cemento. Qui nel corso dei secoli hanno abitato levantini, greci, armeni, curdi e ancora oggi propone una notevole ricchezza sociale. Il progetto di riqualificazione prevede la nascita di un centro commerciale, un albergo di dieci piani e un residence: costruzioni che nulla hanno a che fare con il mantenimento del tradizionale carattere residenziale del quartiere, fatto da case che non superano il quinto piano. Il futuro di questi quartieri è una delle scommesse che la Istenbul del terzo millennio deve riuscire a vincere: allinearsi alle esigenze economiche, commerciali e turistiche attuali, evitando pero’ di fare scempio del patrimonio culturale e architettonico esistente. E di peggiorare le condizioni di vita dei residenti di questi storici quartieri. P.S. Proprio nel cuore di Cihangir lo scorso aprile Orhan Pamuk ha aperto un nuovo spazio espositivo: il Museo dell’Innocenza. Lo scrittore l’ha definito un “city museum”, un museo della vita quotidiana di Istanbul, un museo sentimentale della storia d’amore tra Kemal e Füsun, protagonisti del suo romanzo che ha dato il nome al museo. In 83 vetrine tematiche – una per ogni capitolo del libro – sono raccolti oggetti di ogni tipo (bicchieri, posate, saliere, vestiti, foto, cartoline, biglietti della lotteria, orecchini, scatole di fiammiferi, lampade, una mappa, un poster anatomico, modellini di treni e di navi, documentari del Bosforo per un tocco di post-modernità) che in ogni vetrina fermano un mondo a sé. E ogni vetrina è stata disegnata e allestita direttamente da Pamuk: che tra mercatini e abitazioni private ha reperito tutto il materiale esposto. (Indirizzo: Çukurcuma Caddesi 2, Beyoğlu, İstanbul – www.masumiyetmuzesi.org)

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Palermo due

Ovviamente anche per la seconda puntata dedicata a Palermo la nostra guida è “Vicoli vicoli. Palermo. Guida intima ai monumenti umani” di Alli Traina (Dario Flaccovio Editore). Alli ci racconta del rione degli “spersi” e delle geografie dei “Beati Paoli”, una setta segreta le cui origini si perdono nel tempo. Costanza Lanza di Scalea ci parla dei lavori dell’artista austriaco Uwe Jäentsch in piazza Garraffello, nel cuore della Vucciria. Vito, titolare del Gran Sultanato di Abalì, ci racconta che per bere ‘il sangue’ nella Taverna Azzurra (sempre nella Vucciria) non c’è bisogno di essere vampiri. Lo scrittore ed attore palermitano Davide Enia ci regala alcuni consigli sulla sua città (tra cui quello di leggere “Lume Lume” di Nino Vetri, Sellerio editore: ‘un racconto che è fatto con materiale poverissimo, di risulta; che però si rivela un gioiello raro che andrebbe custodito in cassaforte’). Mentre Raiz, musicista napoletano innamorato di Palermo, ci racconta della passione palermitana per la canzone partenopea. Tiziano ci porta nell’Associazione Culturale PaLab, mentre Giovanni, figlio dello storico titolare ci introduce alle magie del teatro Ditirammu, una enclave nella Kalsa dedita al canto e alla tradizione popolare, che con i suoi 52 posti a sedere è uno tra i più piccoli teatri in Italia e certamente l’unico del genere in Sicilia.

Link utili:

PaLabTeatro Ditirammu –  Costanza Lanza di Scalea e Uwe Jäentsch

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Palermo uno

“Palermo non ha una sola anima. Ne ha tante. Una per ogni quartiere storico, e anche di più. Tanti cuori pulsanti nascosti tra vicoli e chiesette, all’interno di piazze e mercati, battono ognuno a un ritmo diverso…”. E’ l’incipit di “Vicoli vicoli. Palermo. Guida intima ai monumenti umani”  (Alli Traina, Dario Flaccovio Editore), un agile volumetto che abbiamo utilizzato per la nostra immersione nelle geografie umane del capoluogo siciliano. Una esplorazione che, per essere raccontata, richiede almeno due puntate di Onde Road.
Nella prima è la stessa Alli Traina a raccontarci differenze e similitudini dei tre storici mercati palermitani: la Vucciria, Ballarò e quello del Capo. Alberto Coppola, che l’ha inventato, ci presenta  il Kursaal Kalesa, un centro polifunzionale che ha contribuito alla rinascita dell’antica cittadella-quartiere di Al-Halisah, la Kalsa. Un altro importante epicentro culturale della Kalsa è il Teatro Garibaldi, nei pressi di Piazza Magione, non lontano dalla Chiesa di Santa Maria dello Spasimo. Chiuso da anni, è diventato il simbolo di incuria e cattiva gestione delle istituzioni. Fabrizio Cammarata, esponente della nuova scena musicale palermitana, ci parla della sua “riapertura”, lo scorso 13 aprile, grazie all’occupazione effettuata da lavoratori dello spettacolo, della cultura e dell’arte. Un’occupazione che ha restituito simbolicamente il Garibaldi  alla città, ridandogli la sua  naturale funzione… Vito infine ci introduce nei locali del Gran Sultanato di Abalì. Sulla carta è un B&B, in realtà molto di più…

Link utili:

Centro polifunzionale Kursaal Kalhesa
Fabrizio Cammarata
Gran Sultanato di Abalì

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Sarajevo

La musica con cui inizia questa puntata è registrata in un istituto secondario di musica, all’interno del conservatorio di Sarajevo. L’aula ha una parete dove è incorniciato un buco, figlio di una granata che l’ha colpita durante i 1395 giorni di assedio. L’originalità è che il buco ha una forma che assomiglia ai confini dello stato bosniaco. A guerra finita incorniciarlo con due lastre di vetro è stato un attimo. Una puntata dove sentiremo la voce di chi abita nella capitale dello stato ‘del buco’. Parleremo delle rose di Sarajevo, delle sue squadre di calcio e dei suoi tanti cimiteri. Del birrificio dove  si produce la Sarajevska, più che una birra un orgoglio nazionale. E del palazzo della storica biblioteca cittadina, la più grande e ricca  di tutti i Balcani, prima di essere bombardata dai serbi nell’agosto del ’92. Ascolteremo la voce di chi in quei giorni lavorava in quel palazzo. E di chi oggi lavora nella nuova biblioteca. Ascolteremo il vicario dell’arcivescovo cattolico, delegato alle relazioni interreligiose. E i ricordi e le riflessioni di Sanja, una ragazza che quando è cominciato l’assedio aveva tre anni…

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La Sarajevo di Kanita Focak

Kanita Focak, architetto, interprete giudiziario per la lingua italiana e per la lingua bosniaco-croata-serba, sarajevese. Di origine dalmate, con nonni veneziani, sposata in prime nozze con un serbo ortodosso, in seconde nozze con un mussulmano, madre di due figli, vittima diretta dell’assedio di Sarajevo che l’ha lasciata vedova. Sarà lei a raccontarci la sua città, una città la cui pluralità culturale si è dimostrata un ottimo materiale incendiario. Di quando ci è arrivata da bambina. Di come se ne è innamorata. Della guerra e dell’assedio. Ma anche della voglia di cultura che c’era durante i 1395 giorni d’assedio. Delle rappresentazioni teatrali al Kamerni Teatar 55, un teatro che non ha mai chiuso i battenti durante l’assedio e che anche oggi ha la sua sede al terzo piano di un condominio. Kanita ci racconta dei politici di oggi e delle speranze per il domani. Infine ci regala una colonna sonora per la Saraievo della sua infanzia, di quella della guerra e di quella odierna.

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Eiger

L’Eiger, una montagna il cui nome in tedesco significa ‘orco’. Una vetta aguzza, un ghiacciaio alla base che, con i suoi 26 chilometri di lunghezza è il più lungo di tutte le Alpi. E poi una Parete Nord senza confronti. Un oltremondo di ghiaccio e roccia, dove si è consumato un corpo a corpo estenuante tra l’uomo e la terribile bellezza che si voleva possedere. Solo nel 1938 venne vinta da una cordata di alpinisti tedeschi e austriaci, dopo numerose vittime. Una parete così ardua che Hitler trasformò in eroi gli uomini che la conquistarono. Una parete diventata famosa anche perché i drammi di chi vi arrampica possono essere seguiti istante dopo istante seduti a un tavolo degli alberghi costruiti alla Kleine Scheidegg, vero e proprio pulpito naturale a 2061 m s.l.m. . Un pulpito su cui ogni anni si celebra il rito laico dello Snowpenair, un festival rock tra le nevi. Kleine Scheidegg è anche il punto da cui parte il prolungamento di una “impossibile” tratta ferroviaria, il cui progetto è stato partorito in una sola notte del 1893 dall’industriale zurighese Adolf Guyer-Zeller. I lavori per la sua costruzione terminarono 100 anni fa, quando il 1° agosto 1912 un convoglio addobbato a festa, carico di passeggeri, raggiunse per la prima volta la stazione “Jungfraujoch”, situata a 3454 metri d’altitudine. Era ed è la stazione più alta d’Europa. Tutto questo ha trasformato l’Eiger in un richiamo per i turisti da tutto il mondo. In particolare dai paesi dell’estremo oriente, terre dove si coltiva con ardore il mito della ‘svizzeritudine’. Un mito, nato nell’Ottocento, che identificava nelle montagne svizzere una sorta di “felice-mondo-alpestre”, preservato dalle brutture del mondo e illuminato dalla bellezza scintillante delle sue cime. Ed è proprio questo il retaggio culturale che sottende a una certa idea stereotipata che oggi si ha della Svizzera. La Svizzera come fabbrica del turismo da cartolina: montagne incorniciate, paesaggi lindi e “apparecchiati” a misura di turista. Un paradiso degli oggetti ricordo, di gadget e souvenir. Ecco la ‘svizzeritudine’, il grande cesto dei luoghi comuni: il trenino rosso, la stella alpina, il formaggio con i buchi, le mucche, gli orologi sinonimo della puntualità svizzera. E certo lo stesso vale per alcune montagne che sono diventate veri e propri simboli: i profili di cime come l’Eiger e il Cervino, una volta stilizzati, diventano “marchi” di garanzia, icone della “svizzeritudine”. E non può non essere un santuario del turismo lo Junfraujoch, rimesso a nuovo per festeggiare i suoi 100 anni e ampliato con nuovi spazi, battezzati ‘Alpine Sensation’, tra cui una commovente galleria che ricorda gli operai morti per costruire questa linea ferroviaria.

Link utili:

– La regione dello Jungfrau [myjungfrauregion.ch]

– Calendario festeggiamenti per il centenario dello Jungfraujoch [myjungfrau.ch]

– Come viaggiare in treno in Svizzera a metà prezzo [SwissTravelSystem.com]

– Occasioni per viaggiare in treno [svizzera.it/]

– Svizzera Turismo [myswitzerland.com]

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L’entroterra del Parco del Cilento

Vallate selvagge dove lo sguardo non riesce a cogliere tracce di presenza umana. Mandrie di cavalli bradi. La carcassa di un equino sbranata da un branco di lupi. Un paio di poiane che percorrono ampi cerchi nel cielo, in attesa di fiondarsi verso una preda. E’ l’entroterra del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diana. Il mare di Palinuro dista decine di chilometri e centinaia di curve. In compenso davanti a me c’è un oceano di orchidee selvatiche. La mia guida è un omone sulla cinquantina. Conosce le erbe medicinali meglio di uno sciamano nativo americano. “Sono farmacista” ci racconta il professor Nicola di Novella “ma non mi è mai piaciuta l’attività dietro il banco”. Così da anni raccoglie le piante spontanee nel loro ambiente naturale. Conosce, una per una, le 184 entità tra specie, sottospecie, variabilità ed ibridi di orchidee che popolano gli assolati valloni calcarei a una manciata di chilometri da Sassano. Non è l’unico incontro ‘magico’ fatto su queste montagne. C’è Giuseppe, l’unico abitante di Roscigno Vecchia: un borgo nel cuore degli Alburni che fu sgomberato agli inizi del ‘900 per via di due ordinanze del Genio Civile per la minaccia di una frana che si credeva potesse radere al suolo l’intera cittadina. Da allora tutto è rimasto uguale. La piazza dedicata a Giovanni Nicotera, su cui si affacciano le basse case, decorate con bei portali, dei contadini e degli artigiani. Una fontana dalle larghe vasche e una chiesa settecentesca dedicata a San Nicola di Bari. Giuseppe, il sindaco virtuale di questa Pompei del XIX secolo, gestisce un piccolo museo dedicato alla civiltà contadina. E c’è un secondo Giuseppe, un residente a Sant’Angelo a Fasanella. E’ l’originale sacrestano della grotta santuario di San Michele Arcangelo. La grotta, che in età paleolitica era abitata, è gigantesca: lunga 75 metri può ospitare 400 persone. Secondo Giuseppe è stata lavorata dagli angeli, ma fossero stati anche dei muratori bergamaschi il risultato finale è di un’eleganza che lascia sconcertati. Un altare dedicato all’Immacolata Concezione, protetto da un baldacchino ligneo. Sarcofaghi e tombe addossate alle pareti. Un vecchio organo. Tutto è pregno di storia e mistero. Altre grotte da visitare sono quelle di Pertosa, che ogni anno a fine agosto ospitano il festival Negro. Qui conosciamo Virgilio Gay, direttore della Fondazione MIdA (un sistema museale integrato attivo in loco) e con lui entriamo nel magico mondo del carciofo di Pertosa…

L’ Ente Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diana è in Piazza Santa Caterina 8, a Vallo di
Lucania (Sa). Tel. 0974.719911. www.cilentoediano.it. MIdA. Musei Integrati dell’Ambiente.
www.fondazionemida.it. Grotte dell’Angelo. Tel. 0975 397037. www.grottedellangelo.sa.it

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La sposa dell’aria

Torino, 8 ottobre 1893. È un giorno speciale per Anna Demichelis, diciotto anni, bellissima, di umili origini. Annetta si sposa con Giuseppe Charbonnet, grande appassionato di aerostatica, discendente di una facoltosa famiglia francese da tempo stabilitasi nel capoluogo piemontese. Tutta la città è in subbuglio. Lo sposo ha promesso che dopo la cerimonia spiccherà il volo con la sua giovane moglie a bordo dell’aerostato Stella. Il Gazometro di Torino è gremito di gente e le aspettative del pubblico non vengono tradite: al grido di “Viva gli sposi aeronauti!”, la Stella si alza in cielo. È un trionfo, ma per l’intraprendente Charbonnet non è abbastanza e per il giorno successivo organizza una nuova spedizione. A bordo, oltre alla moglie, ci sono due fidi collaboratori della sua officina: il signor Botto e Costantino, un giovane segretamente innamorato di Annetta. Sarà un’odissea, tra tempeste, manovre azzardate, un rovinoso atterraggio su una montagna che nessuno conosce…

Un romanzo, questo di Marco Albino Ferrari (“La sposa dell’aria”, Feltrinelli, 14 Euro), che riesce a fotografare con intelligenza l’ incontro / scontro tra positivismo e religiosità ancestrale. Protagonisti, oltre ai leggendari “sposi dell’aria”, la Torino scapitalizzata e un segmento delle Alpi Graie dimenticato dal turismo di massa. Troppo vicino alla città, privo di moderne attrezzature turistiche. Eppure località come Balme, il Pian della Mussa e il ghiacciaio della Bessanese meritano di essere riscoperti…

Il Museo della Montagna è a Torino, in Piazzale Monte dei Cappuccin. Tel 011 660 4104 – Link

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Vacanze in colonia

Per il sottoscritto, figlio di dipendenti dell’ENI di Enrico Mattei, le colonie erano a Borca di Cadore e a Cesenatico, sulla riviera romagnola. In entrambi i casi trattasi di architetture che fotografano la cultura matteiana. Meritano una incursione anche se non ci siete mai stati. E una incursione meritano anche tutte le ex colonie della riviera adriatica: un affascinante itinerario fra i colossi dell’architettura degli anni Trenta, tra Futurismo e Razionalismo. Vincolati come beni storico-artistici, ma per lo più in stato di totale degrado. In buono stato invece, secondo il vicesindaco Mariagrazia Guida, sono le colonie del comune di Milano. Anche se per farle vivere si sono dovuti aumentare i prezzi delle rette… Per chi volesse approfondire l’argomento purtroppo la bibliografia è scarna. Oltre a uno speciale del mensile Domus (numero 659 del marzo 1985), sono da citare il libro Colonie a mare (AA VV, Grafis, Bologna, 1986) e Cities of chilhood, italian colonie of the 1930s (The Architectural Association, London, 1988). Se conoscete altri testi segnalateceli.

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Le strade del blues

Memphis, la città del cotone. Storicamente una delle più alte concentrazioni di popolazione nera degli States. E’ qui che nel 1960 vennero organizzate le prime marce per l’integrazione razziale. Ed è sempre qui che, su un balcone del Lorraine Motel, è stato assassinato Martin Luther King, icona della lotta nonviolenta per i diritti civili. Era il 4 aprile del 1968 e, visitando oggi la città, sembra che tutto si sia fermato quel giorno. A partire dal Lorraine Motel, il cui aspetto esteriore non è più stato toccato. Davanti alla camera di King è ancora posteggiata la sua macchina. L’interno invece è diventato un museo: il Civil Right Museum. Beale Street, la via dove ci si può ubriacare di musica ogni sera, dista pochi blocchi, ma sembra di essere già in periferia. Memphis, la città che è stata patria del blues, culla del rock’n’roll e tempio del soul, sta cercando, grazie a un investimento miliardario, di trasformarsi in una città-museo. E’ il caso degli studi Sun, dove Sam Phillips chiuse in una stanza il leggendario Million Dollar Quartet (Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins) per incidere l’album che generò il rock’n’roll. O degli studi della Stax, l’etichetta che grazie alle incisioni di Otis Redding, Sam & Dave e Isaac Hayes rese grande l’impero del soul. Oggi i due studi aprono le porte ai visitatori che possono accostare le labbra al microfono dove gorgheggiava Johnny Cash o ammirare una ricca documentazione sulla Blaxploitation, il cinema dei ghetti neri. L’augurio è che non si trasformino in piccole Graceland, l’incredidibile casa / mausoleo di Elvis Presley. E’ una specie di Disneyland dell’anima, un luogo dove una quantità incredibile di oggetti inutili, foto e video in cui Elvis si aggira come se fosse nascosto nel giardino. Per scacciare il fantasma di Elvis basta tornare in Beale Street, dove in fondo alla via hanno montato la piccola casetta di legno, dipinta di grigio, dove è nato W.C. Handy, il primo musicista afroamericano a trascrivere su un pentagramma un blues. Quello che è venuto dopo lo si può ascoltare tutte le sere nei cento locali del circondario. Ma anche nella città di St. Louis. Una città che inizia e finisce come quasi tutte le città americane: con una sfilza di centri commerciali e di luoghi di culto. Una sovrabbondanza spirituale chefa da contraltare a una miseria materiale. La stagnazione economica è visibile ad occhio nudo. Il sottile profilo del Gateway Arch segnala l’ingresso in St. Louis, l’ex “cancello del West”, protagonista di mille film Western. Qui è ancora viva la fama dello “Sceriffo dell’Inferno”, un pianista che all’anagrafe si chiamava William Bunch, ma era conosciuto da tutti come Pete Wheatstraw…

Link utili:

National Civil Rights Museum, 450 Mulberry St  – B.B. King’s Blues Club, 143 Beale Street

 

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Malaga

Le processioni iniziano la domenica delle palme, quando ce ne sono in programma ben otto (ma anche gli altri giorni della Settimana Santa non scherzano: 6 processioni il lunedì e il martedì, sette il mercoledì e il giovedì, e addirittura otto il venerdì santo). Ore di marcia che centinaia di ‘nazareni’ seguono indossando lunghe tuniche e il caratteristico lungo cappello a cono, il ‘capirote’. Ogni confraternita ha la sua peculiarità. Quella di ‘Huerto’ sul suo trono issa un ulivo vero, di considerevoli dimensioni. Quella ‘Gitanos’ accoglie dei rom che cantano e ballano. Al contrario la confraternita dei salesiani cammina in silenzio. La Madonna della confrternita della ‘Penas’ dagli anni Quaranta veste un abito fatto di fiori. La processione della ‘Esperanza’ invece è preceduta da un camion che tappezza il cammino di rosmarino, in modo che tronisti e i nazareni si trovino a camminare su un tappeto profumato. Peculiarità della ‘Paloma’ è che una colomba bianca si posi durante la processione sul trono della Madonna. E’ per questo che decine di colombe vengono liberate in Placia de la Constituciòn, con il risultato che anche quest’anno una si è posata là dove la folla voleva si posasse. Chi non sfila per strada assiste come spettatore. Anche il malagueño più laico non si astiene dal farlo. Le modalità sono variegate. Qualcuno si accomoda sulla costosa tribuna d’onore di Plaça della Consitution, molti si accontentano della tribuna de los pobres, la lunga scalinata appoggiata al lungofiume che costa solo la fatica di accaparrarsi un buon posto. Molti affittano una sedia nei luoghi topici delle processioni, ma ancora di più si portano da casa uno sgabellino pieghevole da spiaggia. Entrambi sono equipaggiati con sacchetti di plastica con cibi e bevande da far fuori nei lunghi momenti morti. Chi vuole mettere le gambe sotto un tavolo di un ristorante che si affaccia lungo il percorso delle processioni deve deciderlo con ampio anticipo: le prenotazioni vanno fatte con mesi di anticipo, perche in fondo le processioni sono l’ennesima scusa che gli spagnoli si sono inventati para gozar.

Link utili:

spain.infovisitacostadelsol.com Settimana SantaMuseo della Settimana SantaMuseo Picasso

 

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Piazza Tahrir

Piazza Tahrir, la piazza della rivoluzione egiziana. E’ da lì che il più delle volte partono le telefonate di Laura Cappon, la corrispondente di Radio Popolare al Cairo. Questa puntata di Onde Road è un collage di interviste che Laura ha registrato con alcuni ‘habituè’ di piazza Tahrir. La rivolta delle piazze africane si sta consumando a ritmo di rap: un hip hop che ha saputo dare espressione al malcontento contro disoccupazione e corruzione politica. Due i gruppi intervistati: gli Arabian Knightz (che per il brano ‘Rebel’ si sono avvalsi di un campionamento della voce di Lauryn Hill) e gli Asfalt. La protesta e la voglia di rinnovamento si legge anche sui muri della capitale egiziana: Laura ne ha parlato con Hussem e Ziad, due tra i graffittari più attivi. Ai suoi microfoni un ultras dell’al-Ahly, presente al massacro di Port Said dello scorso febbraio (durante gli scontri tra ultras dell’al-Masry e polizia sono morte 77 persone, un migliaio i feriti) spiega il loro ruolo ‘politico’ in piazza Tahrir. Infine un incontro con Carmine Cartolano, insegnante dell’istituto italiano di cultura al Cairo e dell’università di Helwan sempre al Cairo. 40 anni, è l’autore di Masriano (una crasi con la parola “masri” che significa egiziano e la parola italiano): una raccolta di novelle e situazioni comiche di vita quotidiana egiziana, in distribuzione in tutto l’Egitto. Un libro scritto in dialetto egiziano (in arabo si chiama Ameyya) che consente di entrare in contatto con un Egitto ‘segreto’, invisibile agli occhi del turista.

Link Utili:

Arabian KnightzAsfaltGraffiti della rivoluzioneGanzer

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