La via incantata verso il grande nord

“La via incantata” (Ponte alle Grazie) è il titolo dell’ultimo libro di Marco Albino Ferrari, un lavoro con cui l’autore torna a parlare del navigatore ed esploratore italiano Giacomo Bove. Nella puntata di Onde Road dello scorso 5 marzo ci aveva raccontato perchè proprio a Bove è stato dedicato il lungo sentiero che percorre  le creste della Val Pogallo in Valgrande, la più grande wilderness italiana. Oggi invece ci parla del tentativo di Bove di aprire il Passaggio a Nord Est. Ai suoi tempi  la navigazione tra i due oceani era un’impresa che aveva contato solamente fallimenti e sulle acque ghiacciate che cingono la Siberia da Nord si disegnava un cimitero di buone intenzioni. Navigare dalla Norvegia allo Stretto di Bering significava aprire una nuova via commerciale che poteva risparmiare la via più lunga circumnavigando l’Africa o pagando pedaggio agli inglesi per il nuovo Canale di Suez. Partiti il 18 luglio del 1878,  Bove e l’equipaggio dell’ammiraglia Vega, una nave civile rinforzata in metallo a prua e dotata di tutti gli strumenti scientifici più moderni dell’epoca, a partire dal 29 settembre rimasero per 294 giorni bloccati tra i ghiacci prima di poter riprendere la strada verso il Giappone. Se Marco Albino Ferrari ci racconta le interminabili giornate di Giacomo Bove tra i ghiacci,  Alberto della Rovere, a lungo capo dell’odierna spedizione italiana in Antartide, ci racconta la sua quotidianità tra i ghiacci. Il prof Franco Brevini, studioso delle tradizioni letterarie in dialetto nonchè alpinista, ci spiega cos’è l’idea del grande nord che tanto ha affascinato la cultura occidentale.  Lo scrittore Davide Sapienza infine ci regala una bibliografia dedicata al camminare e viaggiare verso e nel Grande Nord.

Ascolta il podcast:

Terre promesse

01_Betlemme

Hamed è l’insegnante di scienze della scuola di bambù di Abu Hindi. La scuola si chiama così perché dovendola ristrutturare, con il divieto da parte dell’esercito israeliano di toccare la preesistente struttura in lamiera, si è pensato di realizzare una copertura della stessa con delle canne di bambù. Il villaggio è un casuale susseguirsi di baracche su cui sventolano tappeti impolverati e sacchi di plastica. Hamed ha vissuto negli Stati Uniti dal 2000 al 2010. Lavorava, si è sposato, ha guadagnato la Green Card, si è separato ed ha deciso di tornare in Palestina. Da 7 anni lavora alla scuola di Abu Hindi. Lo stipendio è di circa 3000 shekel al mese (circa 750 Euro). Oggi ha perso il bus che porta alla scuola tutti gli insegnanti e il taxi gli è costato 30 shekel. Solo andata. Il 3% del suo salario mensile. Per arrivare all’accampamento beduino bisogna percorrere un paio di km dalla strada che porta a Gerusalemme. E’ una polverosa  strada sterrata, che costeggia una discarica a cielo aperto, con una ripida discesa che sprofonda a tradimento nel fondo della vallata. Non è stato Hamed a decidere di venire qui, lo ha mandato il ministero palestinese dell’istruzione. E come si può intuire non c’è la coda per venire ad insegnare alla scuola di bambù. E’ stanco di vivere in una situazione così al limite. “Mi sono arreso” mi confessa.  Hamed aspetta la fine dell’anno scolastico, poi tornerà a San francisco. “Un posto di commesso in un supermercato dovrei riuscire a trovarlo”. E’ il blues del prof. di scienze, una plastica (e sconsolata) fotografia della situazione vissuta dal popolo palestinese, sempre più schiacciato dalla rapacità di terra dei coloni. Quella israeliana è una realtà complessa, popolata non solo da fondamentalisti. Ci sono quelli che abitano nei kibbutz, un sogno socialista che oggi fa i conti con il terzo millennio. E quelli che vivono a Gerusalemme, insieme agli arabi. La città è piena di pellegrini prevenienti da mezzo mondo: è una città santa, ma nel settore israeliano è ricca di piaceri profani. L’epicentro di questa Gerusalemme è tra i banchi di un antico mercato trasformato in tempio della movida: il Mahane Yehuda Market. Invece il mercato di Qalqilya, città palestinese completamente circondata da un muro che ne limita confini e crescita, è tristemente vuoto. Come Shuhada Street a Hebron. E’ tra le quattro città sante per l’ebraismo e l’Islam. La seconda città più grande della Cisgiordania, sotto occupazione militare dal 1967. Gli insediamenti israeliani si trovano nel cuore del centro storico palestinese: 800 coloni vivono oggi all’interno della città vecchia, dove l’esercito israeliano impone ai palestinesi un sistema di restrizioni, checkpoint e divieti che hanno trasformato questo fiorente segmento della città in una “Ghost Town”, una città fantasma. Per cercare di navigare in un mare così drammaticamente tribolato ci affidiamo alla saggezza della scrittrice ed architetto Suad Amiry che, oltre alle sue tre vite, ci racconta cosa significa oggi vivere in Palestina.

ONG Vento di TerraBlog ItIsrael

Ascolta il podcast:

Sentieri etilici vallesani

Per gli amanti delle sensazioni forti un week end nel Vallese può iniziare prendendo la funivia a Blatten, poco lontano da Briga, e con una breve camminata raggiungere  l’hotel Belalp e la sua cappella. Qui ci si trova al cospetto del ghiacciaio dell’Aletsch: una visione che lascia senza fiato. Poi con calma ci si può spostare verso la vallata del Rodano, dove si coltivano oltre 60 vitigni differenti. L’85% del territorio è coltivato a Pinot Noir, Chasselas (da cui si ricava il bianco più comune, il Fendant) e Gamay,  ma sempre più si cerca di piantare vitigni autoctoni ed esclusivi, come i rari Petite Arvine, Amigne, l’HumagneBlanche (per quanto riguarda i bianchi) e Cornalin e Humagne Rouge (per i rossi). I vigneti sono ricavati da vasti terrazzamenti che si arrampicano dalle sponde del Rodano, spesso ripidamente. Il lavoro è particolarmente difficile perché i muri a secco richiedono una costante manutenzione per evitare frane e anche tutti i lavori in vigna devono essere effettuati rigorosamente a mano, con l’unica eccezione in alcuni casi dell’impiego di particolari monorotaie mobili che permettono di trasportare le gerle con i grappoli vendemmiati. E’ un’enologia che si può definire eroica anche perché gli appezzamenti sono in genere piccoli, se non minuscoli. A dar una mano ai vigneron ci pensa il clima. “Stretto” tra le alte montagne dell’Oberland Bernese a nord e le Alpi a sud, la valle del Rodano è protetta dalle piogge e così in Vallese piove mediamente quanto ad Algeri. Tanto è vero che l’irrigazione è fornita da una lunga rete di canali (le “Bisses“) che portano a valle l’acqua di scioglimento della neve dalle montagne. Lungo le bisses sono stati ricavati dei percorsi escursionistici affascinanti, sentieri che attraversano i vigneti costeggiando i muri a secco. Uno dei più belli è la Bisse de Clavau, nei pressi di Sion.  Si parte dal centro città e superato lo strappo che porta ai vigneti, si percorre un sentiero pianeggiante che regala viste strepitose sulla vallata e sul Rodano, che per via dei minerali che trasporta dal ghiacciaio da cui nasce ha un incredibile color turchese. A rendere ancora più interessante la camminata sono le tappe che si possono fare presso alcune garitte che spuntano in mezzo ai vigneti. Qui si possono accompagnare i vini locali con stuzzichini del territorio, raclette vallesana a volontà e torte di stagione della casa. Per saziare lo spirito invece c’è la vigna di Farinet. Joseph Samuel Farinet a metà del XIX secolo era famoso come falsario delle monete da 20 Centesimi di Franco che distribuiva generosamente tra la popolazione in cambio di cibo e protezione dalle autorità. Nonostante tutti sapessero che le monete erano false, nondimeno queste circolavano liberamente. Farinet, braccato, arrestato, evaso subito dopo e poi fuggiasco, morì in circostanze non chiarite e divenne una specie di eroe popolare. Ritenuto una sorta di Robin Hood locale, c’è chi si spinge a presentarlo come il Che Guevara del Vallese. La vigna che porta il suo nome, oggi  di proprietà del Dalai Lama, è un oasi di pace spirituale visitata ogni anno da migliaia di persone. E Farinet, pur non dispensando miracoli, è diventato una sorta di laico Padre Pio.

vallese.ch  –  belalph.ch  –  siontourisme.ch

Ascolta il podcast:

Esplorando la Guascogna: eresie, foie gras e jazz

01_Jazz in Marciac

Francia sud-occidentale. La capitale è Tolosa, la ville en rose, la città rosa, per il profluvio di coppi e mattoni dei suoi vecchi palazzi. In realtà non è una città monocromatica, ma un arcobaleno di racconti ed emozioni: crocevia della storia e del mondo, antica e moderna. Esoterica ed aeronautica, sportiva e colta, golosa e discreta. Giovane di tanti studenti (115.000) e di 150 nazionalità, felicemente indecisa tra provincia e metropoli, cresciuta negli ultimi anni fino a diventare il quarto centro di Francia. Multietnica (Garcia è il secondo cognome) e metamorfica (oggi affidata agli architetti Juan Busquets e Rem Koolhaas) tra prossime ramblas e un futuro parco delle esposizioni. Siamo non lontano dai Pirenei e dal confine spagnolo, alla confluenza della Garonna e del Canal du Midi. E’ la città degli Zebda, gruppo rock talmente radicato in città che una lista elettorale ispirata dalla band (Motivé-e-s)  presentatasi alle elezioni municipali del marzo 2001 riscosse il 12,8 % dei voti, ottenendo quattro seggi in consiglio municipale. Siamo nella regione dei Catari, l’eresia medievale per eccellenza: la più importante e diffusa in tutto l’occidente cristiano. Quella per cui è stata istituita l’inquisizione, frutto della reazione decisa da parte della Chiesa. Nato qui, nel Midi della Francia, il catarismo si diffuse con grande velocità in tutta Europa, Italia compresa (la capitale fu Concorezzo alle porte di Milano). 80 km ad ovest di Tolosa sorge Auch: capitale della Guascogna, è incastonata in un paesaggio collinare, in una provincia prettamente rurale, e rappresenta la città in campagna. La regione, da un punto di vista paesaggistico, è una garanzia di scoperte e relax. Ed è in mezzo a questo universo rurale, tra chiese medioevali, castelli e grandi dimore che un piccolo paese di nome Marciac ospita uno dei jazz festival più importanti al mondo. E’ una sorta di Woodstock del jazz: il pubblico ha qualche anno in più di quello del mitico festival americano, ma la passione è la stessa. Concerti per migliaia di persone sotto lo chapiteau, esibizione più intime tra le vigne e nelle cantine. Il Jazz in Marciac richiama ogni anno più di 200mila persone, dura una quindicina di giorni e si celebra nella prima metà di agosto. 

tourism-occitania.co.uk  –  toulouse-visit.com  –  tourisme-gers.com

Per info sul catarismo in Italia: Archivio Storico della Città di Concorezzo
Associazione culturale. Via Santa Marta, 20 – Concorezzo (MB) – Tel:  039.62800307

Ascolta il podcast:

Sardegna “minore”

01_stagno di Cabras cabras

La Sardegna non è solo resort stellati e spiagge da cartolina. Ci sono scampoli di territorio, ingiustamente considerati minori, che nascondono tesori ed eccellenze regali. A partire da Sa Reina, La Regina. Per andarla a trovare non bisogna chiedere un appuntamento: basta raggiungere l’uliveto storico di S’Ortu Mannu (l’orto grande), nelle adiacenze di Villamassargia nel Sulcis Iglesiente. Seguendo la strada che porta al Castello di Acquafredda (SP2) improvvisamente, protetto da una staccionata circolare, appare un bosco di ulivi secolari dove ad attirare l’attenzione è il grande patriarca, un albero che i locali chiamano proprio Sa Reina.  La sua mole è impressionante: la circonferenza alla base è di 16 metri, mentre a un metro e mezzo d’altezza il tronco misura 1144 cm. Al suo confronto gli altri ulivi sembrano piccoli, figli di un Dio Minore. Uno sguardo più attento certifica però che sono dotati di forme disparate e hanno un’età venerabile. Ma la regina è la regina. La sua carta d’identità certifica che ha vissuto quasi mille primavere. Lo conferma anche un esame della sua corteccia: un capolavoro di disegni, istoriazioni e commenti di Madre Natura. Regale è anche il profilo del Monte Arci, raggiungibile in meno di un’ora di macchina da S’Ortu Mannu. È un massiccio isolato di natura vulcanica che si erge nella piana di Uras, nella pianura del Campidano. Durante il neolitico era molto battuto a causa dei suoi ricchissimi giacimenti di ossidiana, un minerale vetroso utile per la produzione dell’utensileria e delle armi preistoriche.  Per saperne di più basta raggiungere Pau, località dove è stato aperto un museo  dedicato interamente all’ossidiana e alle storie millenarie che ha contribuito a far nascere. Un altro tesoro è figlio dello stagno di Cabras, 2.200 ettari di superficie umida che lambisce il paese omonimo. Collegato, grazie a 4 canali, con il Golfo di Oristano, vanta la presenza di una ricca vegetazione e di una notevole componente avifaunistica. Non a caso per estensione e per rilevanza della biodiversità è una delle più importanti aree umide della Sardegna. E dallo stagno arriva anche l’oro di Cabras: la bottarga ricavata dalle uova dei cefali che lo popolano. Un altra prelibatezza indigena è la ricotta prodotta dall’Azienda agricola biologica Fattorie Cuscusa: 168 ettari (più altri 70 in affitto), di terreno fertile particolarmente adatto all’allevamento ovino. La ricotta è così eccellente che vengono a prendere lezioni private alcuni mastri casari giapponesi. Invece il tesoro del Parco naturale regionale Molentargius-Saline (un territorio di circa 1600 ettari tra Cagliari e Quartu Sant’Elena, affacciato sul Lungomare Poetto) è il sale. Conosciuto per  i fenicotteri rosa che lo popolano, il Parco ha una storia strettamente legata a quella delle Saline. Non a caso deve il suo nome a is molentargius, i conduttori di asini – su molenti, in sardo significa appunto asino – che caricavano il sale raccolto nei bacini. Cosa cantassero is molentargius durante il lavoro  non è dato sapere. In che lingua lo facessero si: il sardo. E proprio a Cagliari ogni anno si celebra il Premio Parodi, l’unico concorso italiano dedicato alla World Music. L’edizione di quest’anno, la decima, è dal 12 e il 14 ottobre.

Ascolta il podcast:

In bocca al lupo… viva il lupo

01_Life Wolf

“In Italia il lupo era diffuso sull’intera penisola fino alla metà del XIX secolo; è stato poi deliberatamente eradicato dall’uomo sia dall’intero arco alpino sia dalla Sicilia all’inizio del XX secolo. È sopravvissuto nel Centro-Sud Italia lungo gli Appennini e nelle zone confinanti dei Carpazi e delle Alpi Dinariche dove ha raggiunto un minimo storico negli anni Settanta. Il lupo, dagli anni Settanta ad oggi, ha recuperato parte del suo territorio originale sull’Appennino e ha iniziato a ricolonizzare naturalmente le Alpi sud-occidentali di Italia e Francia per naturale dispersione dalla popolazione appenninica” (documento di Life Wolf Alps).

Dopo la puntata dell’11 novembre 2012 dedicata alla “Via dei lupi” Onde Road torna a parlare di lupi e del loro viaggio dagli Appennini alle Alpi. In studio Marco Albino Ferrari, scrittore e direttore di Meridiani e Montagne (il suo libro “La via del lupo”, editore Laterza, 2012, era servito da traccia per la nostra trasmissione del 2012).

Ospiti Francesca Marucco, del Centro Conservazione e Gestione Grandi Carnivori, Parco Naturale Alpi Marittime e attivista del progetto Life Wolf Alps e il cantastorie dei lupi Mario Ferraguti, di cui consigliamo il libro “Sulle tracce del lupo che mi gira in testa”, Fedelo’s Editrice, 2014.

Clicca qui per approfondire la strategia, i criteri e i metodi per il monitoraggio dello stato di conservazione della popolazione di lupo sulle Alpi italiane.

Ascolta il podcast:

Sapore di Sal

01_Spiaggia sull'isola di Sal (2)

Il toponimo Capoverde viene da un dito di spelacchiata terra senegalese che dalla costa africana, seicento chilometri più a est, sembra indicare senza esitazione le isole. E’ un arcipelago fatto di dieci isole, di cui nove abitate, più vari scogli e isolotti che non lo sono, o non lo sono più. Hanno contorni, contenuti e ovviamente colori diversi, ma a parte poche baie riparate da parentesi di roccia, lottano tutte contro i capricci dei venti. L’arcipelago è talmente battuto dalla variante locale dall’harmattan (il leste) e dalle onde che i primi che lo trovarono sul loro cammino – pescatori senegalesi, esploratori genovesi e veneziani – decisero di non stabilirsi su queste terre deserte. Dopo essere state a lungo disabitate, nel sedicesimo secolo sono diventate uno scalo sulla rotta per l’America, poi il crocevia del commercio degli schiavi. Una terra di emigrazione e di miseria. Se non ci fossero state le infinite spiagge con la sabbia fine, il vento, il windsurf e Cesaria Evora, l’arcipelago sarebbe rimasto tagliato fuori dal mondo. Corinna Agostoni, titolare del blog oltreilbalcone.com, ci racconta un’isola del distretto di Sopravento: l’Ilha do Sal, l’Isola del Sale. In passato era conosciuta come Ilha Plana, isola piatta. Entrambi i termini descrivono puntualmente questo coriandolo di terra baciato dal sole in mezzo all’Oceano Atlantico. La sua essenza selvatica è a rischio perchè è l’isola di Capo Verde più gettonata dai turisti di tutto il mondo, che vengono qui per le sue spiagge da cartolina. Corinna l’ha percorsa in lungo e in largo, da Kite Beach, il paradiso dei surfisti, a Santa Maria, vivace centro urbano sulla punta meridionale dell’isola, senza dimenticare la duna solitaria di Ponta Preta (dove risiede un bar che spaccia la miglior caipirinha dell’isola), e ci elenca dove fare tappa. Ma ci racconta anche la storia di alcuni dei tanti italiani che hanno deciso di trasferirsi qui per viverci. Tra questi anche Libero, 50enne romagnolo, titolare di Tribal Surf, una delle scuole di kite surf più importanti di Sal. Libero, cittadino del mondo, con i capelli rasta e l’animo libero (gli amici lo chiamano “Free“), ci introduce i grandi campioni di kite che ha allevato, portando ai nostri microfoni cultori dell’onda perfetta come  Matchu Lopes e Airton

Ascolta il podcast:

Scoprire le Marche

01_Parco Naturale del Monte San Bartolo

Economia rampante, stile conservatore. Le Marche sono la regione più ottimista, quella in testa alle classifiche di inglesi e americani (il New York Times l’ha definita la regione dove “sopravvive l’Italia che non c’è più”). Ha sedotto scrittori ed artisti come Enzo Cucchi e Tullio Pericoli che è tornato a dipingere nella sua casa di Rosara, vicino ad Ascoli Piceno. Qualcuno parla di nuovo Rinascimento marchigiano… E nemmeno il terremoto è riuscito a privare la gente di questa terra della loro voglia di vivere. E’ per questo che abbiamo deciso di organizzare un viaggio targato Radio Popolare proprio nelle Marche. E di farlo nel periodo migliore , a cavallo tra primavera ed estate. La costola marchigiana di Viaggi e Miraggi ha studiato un itinerario che noi abbiamo integrato. Conosceremo così la Bicipolitana di Pesaro: una metropolitana di superficie, dove le rotaie sono i percorsi ciclabili e le carrozze le biciclette. Lo schema utilizzato è quello delle metropolitane di tutto il mondo. Vi sono delle linee (gialla, rossa, verde, arancione….) che collegano diverse zone della città, permettendoti uno spostamento rapido, con zero spesa, zero inquinamento, zero stress. E con la certezza che sulla Bicipolitana di Pesaro non si perde neanche un bambino. Andremo a Ca’ del Santo, una grande casa rurale del XII secolo, che sorge tra alberi monumentali e un’ara preistorica, dove è conservata l’Arca dei Semi di “Civiltà Contadina”, uno scrigno di biodiversità alimentare a livello europeo. Avremo un incontro (molto) ravvicinato con la cultura enogastronomica marchigiana, il risultato di diverse civiltà e popolazioni che si sono succedute nel corso dei secoli e della mescolanza tra la tradizione contadina, fatta di ingredienti semplici e pasti frugali, e l’opulenza dei banchetti di nobili e clero, dove l’abbondanza e la ricercatezza dei cibi rappresentavano vere e proprie manifestazioni di potere. Le Marche sono una regione poco conosciuta dal punto di vista enogastronomico, eppure può vantare una varietà di prodotti tipici davvero straordinaria: ciauscolo, lonzino di fico, tacconi, cicerchia, vernaccia, vino cotto. La lista è davvero lunga, e la scopriremo insieme ascoltando un brano del nuovo lavoro dei Gang

civiltacontadina.it – viaggiemiraggi.org

Ascolta il podcast:

Pellegrini 2.0

01_Camminando a Creta

Decine di migliaia di persone ogni anno percorrono a piedi la via per Santiago e la via Francigena. Nuovi pellegrini che rinnovano la secolare tradizione del viaggio nei luoghi santi per trovare risposte nuove a domande eterne. Antichi tracciati che costituiscono la memoria profonda di un continente e che sono in grado di raccontarci quello che siamo stati e come potremmo essere. A fianco di queste ‘camminate’ spirituali in questi ultimi anni sono nati decine, centinaia di sentieri ‘laici’. O, molto più semplicemente, ci si rapporta laicamente ai grandi cammini ‘mistici’. In entrambi i casi trattasi di cammini veri, lunghi. Che affaticano e sfiancano. E trasformano chi li pratica. Non è (solo) un’esperienza spirituale, ma un modo diverso di conoscere un territorio. La gente che ci vive. Un viaggio in cui emergono con forza inaudita i sentimenti più profondi: paura, spaesamento, nostalgia, disillusione, stupore e allegria. La viandanza diventa uno straordinario modo per conoscere anche se stessi. E’  una grande metafora… c’è tanta vita dentro.   In questa puntata di Onde Road ne parliamo con Luigi Nacci, insegnante, giornalista, guida escursionistica ed ideatore del Festival della Viandanza (quando non viaggia a piedi da solo lo fa con The Rolling Claps, gruppo che ha fondato per riscoprire le antiche vie). Con Marco Albino Ferrari, scrittore e direttore di Meridiani e Montagne. Con Luca Gianotti, scrittore che con la Compagnia dei Cammini da oltre vent’anni diffonde in Italia la cultura del cammino, il turismo responsabile e il movimento lento. E con Nicoletta Cesari, una pellegrina 2.0.

Ascolta il podcast:

Vale un viaggio

01_Ex Seccatoi Tabacco_Città di Castello

Il pretesto del viaggio odierno è l’uscita del libro della giornalista e critica d’arte Beba Marsano: “Vale un viaggio. 101 meraviglie d’Italia da scoprire” (Cinquesensi Editore). Un libro che è al tempo stesso una guida di resoconti di viaggi e un testo antologico di divulgazione critica. Una collezione di inaspettati capolavori. Il volume è diviso in 20 capitoli, tanti quante le regioni italiane. Per ogni capitolo, un elenco di luoghi da visitare attraverso un percorso d’arte, senza dimenticare preziosi indirizzi gourmet e posti dove alloggiare. “ Non una semplice collezione di luoghi – racconta l’autrice Beba Marsano – ma un’antologia di emozioni che ho vissuto in prima persona quando in queste meraviglie mi sono imbattuta. A volte per caso, altre per scelta, altre ancora per una felice intuizione del cuore”. Dalla casa Museo di Luciano Pavarotti agli ex Seccatoi di Tabacco di Città di Castello. Dal quadro di Giuseppe de Nittis “Colazione in Giardino” al Parco Nazionale dell’Alta Murgia. Tra le mete che da sole valgono un viaggio c’è anche Palazzo Biscari a Catania, splendido palazzo barocco che è anche il più importante palazzo privato etneo. Ce lo siamo fatto raccontare da Ruggero Moncada, il suo proprietario. Altra meta il Santuario della Madonna della Corona, descritto nell’ “Atlante dei Luoghi Insoliti e Curiosi“, di Alan Horsfield e Travis Elborough pubblicato da Rizzoli. E’ un volume che celebra la varietà degli scenari terrestri e le eccezionali capacità dell’immaginazione umana raccontando città perdute, regioni abbandonate, destinazioni remote, edifici visionari e isole sommerse. Il tutto accompagnato da fotografie e mappe appositamente realizzate. Infine, in occasione dei 150 anni di storia della Società Geografica Italiana, abbiamo incontrato il Prof. Franco Salvatori, Presidente Emerito della SGI. Tra le singole mete che valgono un viaggio anche la sede romana della SGI, presso il cinquecentesco Palazzetto Mattei in Villa Celimontana.

Ascolta il podcast:

Lanzarote, quando il paesaggio si fa architettura

01_Jardin de cactus_Lanzarote

Lanzarote è un’isola vulcanica dell’arcipelago delle Canarie che dista 170 km dalle coste africane. Il viaggiatore milanese può raggiungerla tranquillamente in tre ore e mezza prendendo un volo diretto Ryanair dall’aeroporto di Bergamo-Orio al Serio. Bastano pochi chilometri  e ci si ritrova in un nulla spiazzante. “Spiazzante” perché non assomiglia a nessun nulla di cui abbiamo esperienza. Spiazzante perché questo nulla, in realtà, è già stracolmo di cose, ma inerti: pietre nere, colate di lava rafferma, sterpaglie già morte alla nascita… E vulcani, continui. E’ un paesaggio con pochi eguali al mondo, ma è una bellezza frutto di un dramma, di un disastro. In una notte terribile dell’anno 1730, la terra si aprì e spuntò all’improvviso una montagna. L’isola per giorni interi, per mesi, per anni, fu devastata da eruzioni incessanti che l’hanno lasciata ricoperta di lava solidificata, sassi sputati come bombe che hanno formato crateri imponenti. Al termine della fase eruttiva la fisionomia dell’isola sarà completamente diversa da quella fino ad allora conosciuta. E’ questa la Lanzarote che vediamo oggi. E se non la vediamo massacrata da grattacieli e bulimici centri vacanza bisogna ringraziare Cesar Manrique. Pittore, scultore, architetto, artista multidisciplinare, anima e grande coscienza critica dell’isola. Un artista che ha usato l’isola come tela su cui plasmare le proprie idee artistiche e di difesa dei valori ambientali. L’amore che provava per la sua terra e la sua travolgente personalità hanno fatto il resto. Grazie all’appoggio delle istituzioni, è riuscito a far promulgare una ferrea tutela ambientale dell’isola in cui gli interventi umani si armonizzano con l’unicità dei paesaggi. La natura, punto di partenza dei suoi progetti, è  anche il punto di arrivo. Per sincerarsene basta visitare la sua casa,  ricavata all’interno di 5 bolle vulcaniche (oggi sede della Fondazione Cesar Manrique ), o il Giardino dei Cactus, recente vincitore del Premio Internazionale Carlo Scarpa. Tra i numerosi ‘must’ dell’isola segnaliamo gli innumerevoli piccoli crateri dove si coltivano le uve utilizzate per i i vini locali (per visita e degustazione consigliamo la Bodegas Rubicón.  Il Museo Agricola El Patio, dove German vi racconterà di come si calmano i cammelli nervosi. La Caleta de Famara, un imperdibile paradiso per gli amanti del surf (scuola consigliata).  Il ristorante El Diablo, all’interno del Parco di Timanfaya, che per la preparazione dei piatti sfrutta  il calore geotermico del vulcano dormiente sul quale sorge la struttura. Il Nautilus Lanzarote, un complesso di appartamenti immersi in 1200mq di giardini impreziositi da numerose opere d’arte (l’unico sull’isola ufficialmente certificato dalla consultora Equalitas Vitae come libero da barriere architettoniche).

Ascolta il podcast:

Rifugi montani: riparo collettivo o strutture “alberghiere” di qualità?

Rifugio Walter Bonatti (Val Ferret)

Il nuovo bivacco Gervasutti, installato su uno sperone roccioso a 2.835 metri di altezza, sotto le spettacolari pareti delle Grandes e Petites Jorasses. Il rifugio Oberholz a Obereggen, caratterizzato da un concetto contemporaneo di design legato a spazi aperti nel rispetto della Natura e realizzato con materiali eco-sostenibili. Strutture hi tech. Chef stellati. I menù e l’accoglienza “alberghiera” sono sempre più importanti nei rifugi di montagna. Una analisi contro cui si scagliano i cultori della ‘sobrietà alpina’: nostalgici dei tempi in cui erano semplici e spartane capanne di legno con il tetto in lamiera, mimetizzate tra le rocce e quasi invisibili agli alpinisti alla ricerca del bivacco per riposare, prima dell’assalto alla vetta. Bastano tavolacci di legno e una stufa, il resto meglio cercarlo a fondovalle. E accusano il CAI,  che tra rifugi e bivacchi è proprietario 774 strutture, di voler trasformare queste realtà in alberghi e ristoranti con cucina stellata. Mauro che da 23 anni gestisce il Rosalba – storico rifugio sulla Grigna meridionale, in posizione panoramica su un dosso naturale alla base della famosa Cresta Segantini – ci parla della sua esperienza come gestore di un rifugio alpino. E di come si sia trovato spiazzato quando il CAI gli ha comunicato che dal prossimo anno non avrà il rinnovo della gestione. Motivazione: non aveva presentato un piano accettabile per il potenziamento della funzionalità della struttura. Massimo Minotti, presidente del CAI Milano, è l’uomo accusato di voler trasformare i rifugi in quota in una macchina acchiappa soldi. Lui risponde che oggi i rifugi non sono prevalentemente frequentati da alpinisti, ma da escursionisti, e questi ultimi vogliono uno standard di un certo livello. E poi chiosa “Se oggi si va in montagna con attrezzature iper tecniche che anni fa ci si sognava, perchè le strutture d’ospitalità montana devono essere scomode?”.  Giorgia Battocchio, che ha curato molte delle interviste di questa puntata, ha sentito anche il gestore del Rifugio Brioschi, sulla cima del Grignone in Valsassina, che ci racconta la quotidianità di chi vive e lavora in un rifugio d’alta montagna. La sign.ra Mara, che lavora al Rifugio Walter Bonatti, invece ci racconta l’emozione del grande alpinista ed esploratore ogni volta che transitava dal rifugio che porta il suo nome.

Ascolta il podcast:

La Val Grande: l’Amazzonia alle porte di Milano

Dal Passo al bivacco, Vel Grande

Il Parco Nazionale della Val Grande si estende nel cuore della provincia del Verbano Cusio Ossola, tra creste dirupate e cime solitarie, ed è parte del Sesia-Val Grande Geopark, una più grande area di interesse geologico entrata a far parte della rete mondiale di geoparchi, patrocinata dall’Unesco. E’ l’area selvaggia più vasta d’ltalia, una wilderness a due passi dalla civiltà.  Un santuario dell’ambiente dove la natura sta lentamente recuperando i suoi spazi, dove boschi senza fine, acque trasparenti e silenzi incontrastati accompagnano ogni passo del visitatore. Ma la Val Grande è anche storia. Il lungo racconto di una civiltà montanara narrato dai luoghi e dalla gente dei paesi che circondano quest’area fra Ossola, Verbano, Val Vigezzo, Valle Intrasca e Cannobina. Percorrendo i sentieri della Val Grande si scoprono i segni lasciati dall’uomo nei secoli passati quando la valle era meta di pastori e boscaioli, tracce di una vita faticosa, testimonianza della capacità di adattarsi a un territorio impervio e inaccessibile. La verticalità era il principale elemento di sopravvivenza: tutta l’economia della comunità montana era basata sugli spostamenti altitudinali stagionali, in base ai ritmi della natura. Ne sono testimonianza le ciclopiche opere di terrazzamento destinate alla coltivazione ed una fitta rete di strade e sentieri che segnavano i versanti vallivi collegando il fondovalle ai maggenghi e agli alpeggi. Su queste montagne, inoltre, è stata scritta una pagina importante della Resistenza italiana. Nel giugno del 1944 la Val Grande e la Val Pogallo furono teatro di aspri scontri tra le formazioni partigiane e le truppe nazifasciste (nelle adiacenze va visitata la Casa della Resistenza -www.casadellaresistenza.it-, un importante luogo di memoria). Di questo e molto altro ne parlano Marco Albino Ferrari, direttore e giornalista, e Massimo Gocci, presidente del Parco Nazionale della Val Grande. Invece la naturalista Valentina Scaglia ci racconta del suo commovente incontro con Gianfry, l’eremita della Val Grande.

Ascolta il podcast:

Belgrado, la Berlino dei Balcani

Cinema Komunisto (02)

Vecchia capitale della Jugoslavia di Tito, crocevia di civiltà e imperi come quello Austro-Ungarico e Ottomano divisi qui solamente dalle acque del Danubio, Belgrado è oggi tra i centri più vivaci dell’Europa sud-orientale. “Città-fenice”, è risorta per l’ennesima volta dai conflitti degli anni novanta e dal tragico bombardamento Nato del 1999 grazie soprattutto alla creatività dei suoi abitanti. Il fascino retrò delle kafane, le vecchie osterie serbe in cui sorseggiare un bicchiere di slivovitz, un’acquavite ottenuta dalla distillazione del succo di prugne, convive con le più ricercate sonorità jazz o elettroniche provenienti dai numerosi localini nascosti nei cortili degli edifici del centro oppure adagiati lungo la Sava, che proprio qui confluisce nel Danubio sotto le mura della fortezza di Kalemegdan. Una vivacità che inizia a destare più di un appetito immobiliare (e non solo…).  E’ quello per esempio che sta succedendo a Savamala, all’ombra del ponte di Branko. E’ uno dei quartieri più interessanti della città, rivitalizzato negli ultimi anni da artisti e ragazzi che hanno aperto locali ed atelier in edifici vecchi e cadenti. Proprio alcuni di questi edifici sono stati espropriati con una legge speciale da parte del governo, obbligando i proprietari a sgomberare l’area per far posto ad una opera di “pubblica utilità”. Si tratta della costruzione del nuovo complesso “Belgrado sull’acqua”, operato dalla Eagle Hills di Abu Dhabi, controllata da uno dei più grandi colossi immobiliari al mondo: la Emaar Properties. Una decisione contro cui si batte il comitato “Non (affon)diamo Belgrado”, che cerca di impedire la distruzione di Savamala. In pieno centro città enormi cartelloni pubblicitari con i rendering del progetto “Belgrado sull’acqua” cercano di nascondere i capannoni fatiscenti dove centinaia di profughi pakistani e afgani sono ‘parcheggiati’ in attesa che cerchino di raggiungere l’Europa. Storie diverse che si incrociano e che meriterebbero un film che le racconti perchè Belgrado, e la ex Jugoslavia tutta, ha da sempre una passione per il cinema. Lo testimoniano il Museo della Cineteca Jugoslava di Belgrado (che non a caso si definisce ancora ‘jugoslava’) e i resti degli Avala Studios. Negli anni in cui Cinecittà era la Hollywood sul Tevere il maresciallo Tito creò la Hollywood dei Balcani, attirando investimenti e capitali stranieri: gli Avala Studios appunto. Vi iniziarono ad arrivare le star, da Alfred Hitchock a Sophia Loren e Carlo Ponti, da Alain Delon a Kirk Douglas, alloggiati all’Hotel Metropol di Belgrado e accolti nella residenza estiva di Tito e della moglie Jovanka a Brioni, con tutto lo sfarzo del caso. Un’epoca raccontata in Cinema Komunisto, un lavoro della giovane regista Mila Turajlic. E’  la storia di un’immagine. Di come sia costruita, di quanto sia potente, della memoria di sé che lascia un’immagine: in questo caso quella della Jugoslavia, un paese unito solo e soltanto sotto il governo di Tito, che è collassato rovinosamente poco dopo la sua morte.

Ascolta il podcast:

La traversata delle Alpi con Walter Bonatti

 

SERATA BONATTI

Walter Bonatti, il tenente degli alpini Luigi Longo e alcuni compagni che via via condivisero tratti del percorso, tra il 14 marzo e il 18 maggio 1956, compirono un’impresa senza precedenti nella storia delle Alpi. Facendo affidamento solo sulle loro gambe e senza mai aver preso strappi da mezzi meccanici, Bonatti e Longo riuscirono in 66 giorni ad attraversare l’intero arco alpino. Partenza: Stolvizza (573 m), Alpi Carnie. Arrivo: Colle di Nava (934 m), Alpi Marittime. 1795 chilometri e 73mila metri di dislivello. Per quest’impresa Bonatti dismise i panni dell’alpinista estremo che tutti conoscevano, e divenne un viandante della neve. Rifare oggi, passo passo, questo percorso è impossibile: le Alpi sono troppo cambiate. Secondo il geografo Franco Michieli è difficile capire se le Alpi siano mutate di più da quando l’uomo le ha abitate dopo l’ultima glaciazione o negli ultimi sessant’anni. Fotografie, appunti  ed oggetti di questa impresa oggi sono reperibile al Museo della Montagna di Torino.

Ascolta il podcast: