L’Eiger, una montagna il cui nome in tedesco significa ‘orco’. Una vetta aguzza, un ghiacciaio alla base che, con i suoi 26 chilometri di lunghezza è il più lungo di tutte le Alpi. E poi una Parete Nord senza confronti. Un oltremondo di ghiaccio e roccia, dove si è consumato un corpo a corpo estenuante tra l’uomo e la terribile bellezza che si voleva possedere. Solo nel 1938 venne vinta da una cordata di alpinisti tedeschi e austriaci, dopo numerose vittime. Una parete così ardua che Hitler trasformò in eroi gli uomini che la conquistarono. Una parete diventata famosa anche perché i drammi di chi vi arrampica possono essere seguiti istante dopo istante seduti a un tavolo degli alberghi costruiti alla Kleine Scheidegg, vero e proprio pulpito naturale a 2061 m s.l.m. . Un pulpito su cui ogni anni si celebra il rito laico dello Snowpenair, un festival rock tra le nevi. Kleine Scheidegg è anche il punto da cui parte il prolungamento di una “impossibile” tratta ferroviaria, il cui progetto è stato partorito in una sola notte del 1893 dall’industriale zurighese Adolf Guyer-Zeller. I lavori per la sua costruzione terminarono 100 anni fa, quando il 1° agosto 1912 un convoglio addobbato a festa, carico di passeggeri, raggiunse per la prima volta la stazione “Jungfraujoch”, situata a 3454 metri d’altitudine. Era ed è la stazione più alta d’Europa. Tutto questo ha trasformato l’Eiger in un richiamo per i turisti da tutto il mondo. In particolare dai paesi dell’estremo oriente, terre dove si coltiva con ardore il mito della ‘svizzeritudine’. Un mito, nato nell’Ottocento, che identificava nelle montagne svizzere una sorta di “felice-mondo-alpestre”, preservato dalle brutture del mondo e illuminato dalla bellezza scintillante delle sue cime. Ed è proprio questo il retaggio culturale che sottende a una certa idea stereotipata che oggi si ha della Svizzera. La Svizzera come fabbrica del turismo da cartolina: montagne incorniciate, paesaggi lindi e “apparecchiati” a misura di turista. Un paradiso degli oggetti ricordo, di gadget e souvenir. Ecco la ‘svizzeritudine’, il grande cesto dei luoghi comuni: il trenino rosso, la stella alpina, il formaggio con i buchi, le mucche, gli orologi sinonimo della puntualità svizzera. E certo lo stesso vale per alcune montagne che sono diventate veri e propri simboli: i profili di cime come l’Eiger e il Cervino, una volta stilizzati, diventano “marchi” di garanzia, icone della “svizzeritudine”. E non può non essere un santuario del turismo lo Junfraujoch, rimesso a nuovo per festeggiare i suoi 100 anni e ampliato con nuovi spazi, battezzati ‘Alpine Sensation’, tra cui una commovente galleria che ricorda gli operai morti per costruire questa linea ferroviaria.
Link utili:
– La regione dello Jungfrau [myjungfrauregion.ch]
– Calendario festeggiamenti per il centenario dello Jungfraujoch [myjungfrau.ch]
– Come viaggiare in treno in Svizzera a metà prezzo [SwissTravelSystem.com]
– Occasioni per viaggiare in treno [svizzera.it/]
– Svizzera Turismo [myswitzerland.com]




Memphis, la città del cotone. Storicamente una delle più alte concentrazioni di popolazione nera degli States. E’ qui che nel 1960 vennero organizzate le prime marce per l’integrazione razziale. Ed è sempre qui che, su un balcone del Lorraine Motel, è stato assassinato Martin Luther King, icona della lotta nonviolenta per i diritti civili. Era il 4 aprile del 1968 e, visitando oggi la città, sembra che tutto si sia fermato quel giorno. A partire dal Lorraine Motel, il cui aspetto esteriore non è più stato toccato. Davanti alla camera di King è ancora posteggiata la sua macchina. L’interno invece è diventato un museo: il Civil Right Museum. Beale Street, la via dove ci si può ubriacare di musica ogni sera, dista pochi blocchi, ma sembra di essere già in periferia. Memphis, la città che è stata patria del blues, culla del rock’n’roll e tempio del soul, sta cercando, grazie a un investimento miliardario, di trasformarsi in una città-museo. E’ il caso degli studi Sun, dove Sam Phillips chiuse in una stanza il leggendario Million Dollar Quartet (Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins) per incidere l’album che generò il rock’n’roll. O degli studi della Stax, l’etichetta che grazie alle incisioni di Otis Redding, Sam & Dave e Isaac Hayes rese grande l’impero del soul. Oggi i due studi aprono le porte ai visitatori che possono accostare le labbra al microfono dove gorgheggiava Johnny Cash o ammirare una ricca documentazione sulla Blaxploitation, il cinema dei ghetti neri. L’augurio è che non si trasformino in piccole Graceland, l’incredidibile casa / mausoleo di Elvis Presley. E’ una specie di Disneyland dell’anima, un luogo dove una quantità incredibile di oggetti inutili, foto e video in cui Elvis si aggira come se fosse nascosto nel giardino. Per scacciare il fantasma di Elvis basta tornare in Beale Street, dove in fondo alla via hanno montato la piccola casetta di legno, dipinta di grigio, dove è nato W.C. Handy, il primo musicista afroamericano a trascrivere su un pentagramma un blues. Quello che è venuto dopo lo si può ascoltare tutte le sere nei cento locali del circondario. Ma anche nella città di St. Louis. Una città che inizia e finisce come quasi tutte le città americane: con una sfilza di centri commerciali e di luoghi di culto. Una sovrabbondanza spirituale chefa da contraltare a una miseria materiale. La stagnazione economica è visibile ad occhio nudo. Il sottile profilo del Gateway Arch segnala l’ingresso in St. Louis, l’ex “cancello del West”, protagonista di mille film Western. Qui è ancora viva la fama dello “Sceriffo dell’Inferno”, un pianista che all’anagrafe si chiamava William Bunch, ma era conosciuto da tutti come Pete Wheatstraw…



Starck, invece, ha curato la conversione dell’antico magazzino di vini e oli (l’Alhòndiga), in un moderno centro culturale. Per l’atrio il designer francese ha voluto che le colonne rappresentassero le icone delle culture di tutto il mondo in tutte le epoche. 43 pezzi unici: tutte diverse per stile, forma e materiale. Per disegnarle e cercare gli artigiani capaci di modellarle Starck ha chiamato lo scenografo italiano Lorenzo Baraldi , che ha raccontato questa esperienza nel documentario “43 colonne in scena a Bilbao”. Bilbao è anche l’ Athletic Bilbao, la squadra dove possono giocare solo calciatori baschi. Sulla costa adiacente alla città si infrange l’onda di sinistra, un’onda amata dai surfisti di tutto il mondo. Ma Bilbao è anche una meta per gli amanti della buona cucina: txakoli (vino bianco), pintxos (stuzzichini) e le creazioni di Eneko, giovane e creativo chef basco che curiosamente, a differenza di quanti hanno fatto entrare la chimica in cucina, usa la fisica…

