Cascine sociali

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Milano dista una trentina di chilometri. L’uscita dell’Ikea della tangenziale ovest ancora meno. Eppure la campagna che circonda il triangolo Gaggiano, Abbiategrasso e Bereguardo nasconde paradisi campestri inaspettati.

Qui le fabbriche non hanno mai preso piede, è un territorio che continua ad avere una vocazione preminentemente agricola. Vecchie certose e grandi cascinali ospitano realtà che sul rapporto con la terra stanno costruendo economie, ma anche percorsi sociali importanti, quanto poco pubblicizzati. Se cascina Caremma a Besate sta dimostrando che si può tirare il fiato in mezzo alla natura anche a un passo da Milano, la certosa di Vigano (Gaggiano), sede dell’associazione Mambre, dimostra che si può agire sul sociale senza limitarsi a perenni lamentazioni. Esattamente come fa la comunità che vive in cascina Contina di Rosate, dove Cesare e Rosa ci raccontano una storia iniziata più di quarant’anni fa in Ecuador. Tre realtà che ci insegnano che il nostro quotidiano può essere diverso… bisogna volerlo.

A Istanbul con Radio Popolare

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Un viaggio a Istanbul con 36 ascoltatori di Radio Popolare. Cinque giorni di full immersion in una metropoli frenetica e in continua evoluzione.

Il concerto / cena / dibattito alla ‘Casa Verde’ (Yesil Evi): un centro culturale all’ultimo piano di un palazzo dalle parti di Piazza Taxim. L’occasione per farsi raccontare che fine ha fatto il movimento di Gezi Park e per apprezzare la musica dei Kara Günes. La visita dei quartieri di Fener e Balat, quartieri storicamente meticci, religiosamente e culturalmente, che stanno diventando enclave di fondamentalisti islamici. Il Museo d’arte moderna e quello di Orhan Pamuk (Museo dell’innocenza). Lo splendore della moschea di Rustem Pasha e la ‘rivoluzione contemporanea’ della Moschea Sakirin. I binari morti della stazione ferroviaria di Haydarpaşa, un contraltare neoclassico alle moschee della costa asiatica di Üsküdar. Il mercato organico di Sisli e le infinite bancarelle del Gran Bazar. I cortei dei curdi per i fratelli di Kobane e la visita notturna di Ortaköy, uno degli angoli più romantici di Istanbul. E poi le cene nelle meyhane di Beyoglu. Le bevute di raki e di ayran.  I tram, la nuova metropolitana, le lunghe camminate. La simpatia di Yudum, la nostra guida, e la pazienza di Francesca, l’accompagnatrice di Viaggi e Miraggi. E la scoperta che Istanbul ha una sua piccola Radio Popolare: la trovate sui 94.9 di Açik Radyo…

Ghost town

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E’ una realtà diffusa a macchia di leopardo in tutta Italia, il preambolo di un processo che inesorabilmente porta all’abbandono. Borghi disabitati, villaggi fantasma, rioni crollati. Insediamenti urbani avvinghiati su scoscese pendici alpine e piccoli centri adagiati su falsopiani appenninici. Nella Puglia del boom turistico e nella Basilicata del Petrolio. Ma anche enormi cascine della Padania e ataviche urbanizzazioni su isolotti dell’arcipelago veneziano. Tramite Google Earth sono stati mappati circa 1.500 borghi abbandonati: luoghi in grado di mandare in crisi anche il più efficiente dei navigatori satellitari. In alcuni casi, come a Calsazio, ai piedi del Gran Paradiso, viene messo all’asta su eBay l’intero paese (o quel che ne resta).  Altrove si cerca di sfruttare i ruderi a scopo turistico, come a Craco in Lucania: un borgo abbandonato diventato famoso per essere stato utilizzato come location per più di una pellicola cinematografica. Non ci hanno girato nessun film, eppure sembra estratto dalle scenografie di un lavoro di Tim Burton, anche Consonno (Lecco), il mirabolante progetto di un costruttore visionario (e, per alcuni, senza scrupoli): Mario Bagno. Nei primi anni Sessanta si mise in testa di creare una Las Vegas brianzola. Un incrocio tra Disneyland e il paese dei balocchi: con tanto di parco dei divertimenti, il salone delle feste, negozi… Un posto dove l’edificio principale ha un’architettura bizzarra e arabeggiante ed è sormontato da un minareto. Oggi, dopo tre giorni di orgia chimica durante un rave party che nel 2007 ha completato la devastazione operata dal tempo, è l’ennesima ghost town del Bel Paese. E anche qui la natura, in precedenza cacciata dall’antropizzazione, è ritornata con prepotenza cercando di reinstallarsi tra le macerie e le opere d’ingegno abbandonate dagli umani…

Dresda: ritorno al futuro

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A Dresda, uno scampolo di ex DDR confinante con la Polonia e la Repubblica Ceca, è stata scritta una delle pagine più drammatiche della seconda guerra mondiale. Nel febbraio del 1945, quando le sorti della guerra erano ormai segnate, 2350 bombardieri inglesi e americani inondarono con tonnellate di bombe al fosforo una città che non aveva nessun obiettivo militare. Sulla lapide di un monumento campeggiano due domande: “Quanti morirono? Chi conosce il numero?”. Alcuni storici calcolano 135000 decessi, ma altre ricostruzioni arrivano a 200000 morti. Più delle vittime di Hiroshima e Nagasaki messi assieme. Con gli uomini venne distrutta anche la ‘Firenze dell’Elba’, la città nata all’inizio del ‘700 quando Augusto il Forte, con un immane sforzo urbanistico, aveva trasformato il borgo gotico dei Principi elettori in una Versailles germanica. Certo, tra le vittime di una guerra l’arte e la cultura sono le più difficili da quantificare, ma non sono le meno gravi. Subentrato al Terzo Reich, il regime comunista della DDR ne era tanto consapevole che lasciò le macerie così com’erano a perpetua memoria della “barbarie occidentale”. E così nel secondo dopoguerra, Dresda si è andata sviluppando attorno a quel centro vuoto, come una barriera corallina attorno a un vulcano spento. Fino al 1989 quando, con la riunificazione tedesca, il destino della città è diventato il suo ‘ritorno al futuro’.  Oggi è tornata ad essere una capitale europea della cultura, ricca di monumenti (miracolosamente rimessi in piedi) e di appuntamenti. Appoggiata su entrambe le sponde dell’Elba, che la taglia in due, basta percorrere per un’oretta il suo fiume per scoprire le Rocky Mountain europee: il Parco Nazionale della Svizzera Sassone, una piccola enclave fatta di bizzarre formazioni rocciose e di imponenti tavolare. Un vero paradiso per chi ama la natura selvaggia e per chi ama arrampicarsi. Non a caso è qui che sono state stilate le regole da cui è nato il free climbing…

www.sassoniaturismo.it

A Zanzibar “sognando” il sultano

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A Zanzibar anche oggi si respira l’aroma ipnotico del chiodo di garofano, che riempie l’aria e sa d’Africa e d’Oriente. Ma l’arcipelago zanzibarino non è né l’uno, né l’altra. E’ uno strano pesce.

E’ geograficamente africano, ma ‘nuota’ nel naturale punto di approdo delle grandi rotte provenienti dall’India e dalla penisola arabica. Etnicamente è misto: un incrocio di tra neri, arabi e indiani. Culturalmente e religiosamente è islamico: più del 90% della popolazione  è musulmano osservante. Amministrativamente, invece,  è una sorta di ibrido: sotto il profilo formale Zanzibar fa parte della confederazionetanzaniana, di cui ostenta la bandiera. Oggi però molti zanzibarini sognano il passato per addolcire un presente che non piace. Costoro da tempo pensano che è meglio stare da soli, staccarsi da Daar es Salaam e tornare a prima della rivoluzione del 1964: Zanzibar di qua e il Tanganica di là e amici come prima. O quasi. Nell’attesa le sue spiagge si riempiono di turisti e i vicoli della sua capitale, Stone Town, sono sempre più brulicanti di traffici. La ‘città di pietra’,  è una vera e propria trappola del tempo. La sua pianta topografica è un reticolo impazzito tracciato da secoli di architetture senza regole: forti e torrioni dalle mura merlate, i palazzi dei satrapi omaniti, hammam persiani rivestiti di fine marmo bianco, chiese d’un gotico eclettico, le volute del barocco indiano, ordini di colonne doriche a sorreggere edifici coloniali inglesi… Come sempre il nostro consiglio è di praticare il cosiddetto ‘turismo responsabile’. A Zanzibar lo si può fare grazie al progetto Why, un’associazione Onlus di volontariato internazionale che ha la sua base a Jambiani, sulla costa orientale dell’isola: un villaggio che si estende per oltre un chilometro su un incantevole tratto di costa. Un libro da leggere mentre si prende il sole è ‘Memorie di una principessa araba di Zanzibar’ (2004, The Gallery Publications), il diario della principessa Salomè, l’ultima discendente dei sultani omaniti, nata da una relazione del sultano Seyyid Said Busaid con una sua concubina circassa.

Ulteriori link, indirizzi ed info nella sezione Moleskine.

Foreste Casentinesi

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L’Alta via dei Parchiè una cavalcata lungo il crinale appenninico di circa 500 chilometri, da coprire in 27 tappe, attraverso due parchi nazionali, cinque parchi regionali e uno interregionale. Uno dei segmenti più intriganti è il Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. Qui, come in molte altre aree appenniniche,un territorio colonizzato per secoli dall’uomo negli anni Sessanta, con le sirene del benessere, ha subito un processo di spopolamento. Oggi la natura si è presa una rivincita ed è ritornata padrona… Gli insediamenti antropici avevano la caratteristica del borgo sparso. L’epicentro era costituito dalla chiesa, che spesso oltre alla canonica prevedeva anche i locali destinati alla scuola. Le case erano isolate, talvolta piazzate su versanti opposti della montagna. “Io ero fortunata” ricorda la signora Lorenza, mitica ristoratrice dell’agriturismo il Poderone (Campigna) “perché per andare a scuola avevo solo mezz’ora di cammino, mentre alcuni compagni di classe abitavano a più di un paio d’ore dalla scuola. E il percorso era così tortuoso che in caso di nevicata abbondante non provavano nemmeno ad uscire di casa”. Le abitazioni ospitavano delle famiglie allargate ed erano concepite per essere autosufficienti. La vita era dura, talvolta spesa in condizioni estreme. I pochi appezzamenti coltivabili dovevano essere strappati a una montagna sassosa e brulla. Dura. L’autosufficienza era la parola d’ordine. Pur vivendo in casolari isolati c’era una forte rete di solidarietà.  I momenti di socialità erano scarni, sostanzialmente legati al tempo passato al mulino per ricavare le farine dai prodotti della terra e a quello dedicato alle funzioni religiose. Un’esistenza che a Vallucciole, un borgo sul versante aretino del parco delle Foreste Casentinesi, è stata interrotta violentemente il 13 aprile 1944 quando i suoi abitanti vennero uccisi in massa da una rappresaglia nazi-fascista…

Sentieri di pace in Trentino

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Con la Prima Guerra Mondiale il Trentino ha vissuto uno dei momenti cruciali della propria storia: nell’agosto 1914 gli uomini, all’epoca cittadini austro-ungarici, furono mandati a combattere sul fronte russo, ma dal maggio 1915, con l’entrata in guerra dell’Italia, il conflitto investì direttamente i suoi paesi e le sue città. Dal 1915 al 1918 questa terra di confine fu un campo di battaglia, un lungo fronte che ha attraversato valli, montagne e cime alpine, dove gli uomini sono stati impegnati in una continua sfida con gli elementi naturali, prima ancora che contro il nemico. Per rendere possibile questi aspri confronti, sulle montagne del Trentino sono stati tracciati centinaia di chilometri di strade, che hanno “colonizzato” i paesaggi in quota: nei decenni successivi quelle stesse strade avrebbero aperto la via ad un’intensa frequentazione delle montagne alla popolazione civile e al turismo. Il fronte del Trentino non fu decisivo per le sorti del conflitto mondiale, ma nelle sue trincee, in scenari impervi, hanno combattuto soldati di molte nazioni europee. Oggi l’intero Trentino, con i suoi musei e i suoi monumenti, costellato di forti, trincee, camminamenti, gallerie e altre opere ingegneristiche, spesso ardite che raccontano con immediatezza le vicende di un secolo fa, può essere considerato un Parco della Memoria. Luogo e monumento simbolo di questo percorso non può che essere la Campana di Rovereto, realizzata nel 1925 fondendo il bronzo dei cannoni delle nazioni partecipanti al Primo conflitto mondiale. Seguendo i 530 km del Sentiero della Pace, che si dipana dal Passo del Tonale fino alla Marmolada, si possono incontrare i luoghi nei quali i due eserciti si sono fronteggiati. Da Rovereto si possono raggiungere facilmente le trincee del Nagià Grom e il Forte Pozzacchio in Vallarsa, di cui parliamo in questa puntata. Escursioni che, per arrivarci preparati, è opportuno far precedere da una visita al Museo storico italiano della Guerra, domiciliato nel quattrocentesco castello di Rovereto.

trentinograndeguerra.it

Montreux

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Eravamo andati tutti a Montreux
Sulla spiaggia del lago di Ginevra
Per fare dischi con un furgoncino
Non avevamo molto tempo
Frank Zappa e i Mothers
Erano in una posizione migliore
Ma qualche stupido con una pistola a razzi
Incendiò l’edificio radendolo al suolo
Fumo sull’acqua, fuoco nel cielo

Hanno bruciato quella casa da gioco
È perita con un suono orribile
Claude, adirato, correva dentro e fuori
Tirando fuori dall’edificio i bambini
Quando fu tutto finito
Noi dovemmo trovarci un altro posto
Ma il tempo svizzero stava volando via
Sembrava che dovessimo perdere la gara
Fumo sull’acqua, fuoco nel cielo

E’ il testo di una delle canzoni che hanno fatto la storia del rock: Smoke on the Water dei Deep Purple. Racconta un episodio realmente accaduto a Montreux, nella Svizzera francese, nel 1971, quando verso la fine di un concerto di Frank Zappa e delle Mothers Of Invention uno spettatore sparò un razzo segnaletico che incendiò il Casinò. “Smoke on the Water” (letteralmente fumo sull’acqua, titolo accreditato al bassista Roger Glover) evoca il fumo del casinò in fiamme che si spandeva sopra il lago di Ginevra. E’ solo uno degli episodi che lega la storia del rock a Montreux, la città dove passò gli ultimi anni della sua vita Freddie Mercury (lo studio di registrazione dei Queen era in città) e dove Michael Jackson, approfittando della celeberrima La Clinic, una delle più prestigiose cliniche di chirurgia estetica e medicina contro la vecchiaia, cercò di comprarsi una nuova faccia. In Smoke on the Water, a un certo punto, viene nominato “funky Claude”. E’ il nickname di Claude Nobs, lo storico inventore del Montreux Jazz Festival, che con la sua sua ‘invenzione’ ha rivoluzionato la nomea di Montreux, che prima del festival era nota solo come meta turistica di anziani economicamente agiati. Scomparso nel 2013, Nobs può essere salutato con un brindisi di un vino del Lavaux, la regione viti-vinicola che da Montreux si estende sino a Losanna. Qui ogni centimetro quadrato di terra è stato sfruttato e pendenze ripidissime sono state terrazzate con l’ausilio di chilometrici muri in pietra. Lungo i sentieri, numerosi cartelli didattici, oltre a ricordare che sono ben sette i vigneti del Lavaux che possono vantare la denominazione di origine controllata e cru (Lutry, Villette, Epesses & Calamin, Dézaley, St. Saphorin, Chardonne, Vevey-Montreux), spiegano i misteri della vigna e del vino…

A cura di Matteo Villaci

La Lucania lunare dei calanchi

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Un viaggio nel cuore più nascosto e solitario della Basilicata. E’ la Lucania, il luogo magico e pieno di spiritualità descritto da Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”. Borghi come Aliano, la cittadina dove Levi trascorse il suo periodo di confino. Ferrandina, una città fondata nel 1400 da Federico e Isabella d’Aragona. Craco, un suggestivo borgo fantasma che sorge fra paesaggi da film western, e che, per la sua bellezza, è stato inserito nella lista del World Monuments Fund. E Pisticci, il borgo famoso per le casette bianche allineate sul Rione Dirupo, sorto sulla frana che nel 1688 devastò il borgo. E’ il paese della brigantessa Maria la Pastora, mitica compagna del leggendario bandito Ninco Nanco (Ninghe Nanghe in dialetto), devoto luogotenente di Carmine Crocco, il “Napoleone dei Briganti”, uno dei più temuti e ricercati fuorilegge del periodo post-unitario. Pisticci galleggia sui calanchi: concrezioni dalle forme incredibili create da ignote coordinate fisico-chimiche. Profondi canyon, aride dune bianche che si sbriciolano per colpa degli agenti atmosferici, pinnacoli naturali ed enormi sculture d’argilla impastata dal sole che si sgretolano sotto il peso del tempo. Il calanco, per la cultura contadina, era un luogo sacro e demoniaco. Demoniaco perché non avendo humus non è terra fertile. Sacro perché nei calanchi venivano seppelliti i defunti. Si scava con facilità nei calanchi, entità che non sono mai state soggette a vincoli di proprietà perché, in quanto composti da terra non fertile, non sono mai stati allettanti per i contadini. Su questa terra, non riuscendo a crescere in altezza, alcune piante si stirano, si allungano, creando così disegni che si intersecano con le crepe dell’argilla. Ma dove, improvvisamente, si stagliano baldanzose alcune orchidee selvatiche.

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Foto di Bruno Zanzottera/Parallelozero ©

Oberland Bernese, il cuore delle Alpi

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Eiger, Jungfrau, Monch. Immersi in un oceano di neve da Murren si gode il panorama di uno dei massicci più autoritari delle Alpi. Oggi Onde Road fa tappa in questo paesino di 300 abitanti dell’Oberland Bernese. Murren è terra di ispirazione per i grandi di Hollywood: nel 1975 Clint Eastwood girò il suo Assassinio sull’Eiger e qui è ambientato il sesto film della saga di James Bond, Al servizio segreto di sua maestà. La spia inglese, interpretata da George Lazenby, si ritrova nel covo della Spectre abbarbicato sui 3000 metri dello Schiltorn. Ribattezzato Piz Gloria in onore della pellicola questo luogo ora ospita un ristorante rotante e un museo dedicato a 007. Da qui si parte per chilometri e chilometri di sciate. A Murren non si possono ammirare solo le tracce dei freeriders , ma anche quella che la storia italiana ha lasciato in dote dagli anni del conflitto. Negli alberghi della località tra il 1944 e il ’45 hanno trovato rifugio più di mille italiani, per lo più antifascisti. Il campione di sci Zeno Colò, Amintore Fanfani e Giorgio Strehler furono qui, come Dino Risi che a Murren si è sposato con la sua Claudia. E’ Barbara Mosca, la sorella, a accompagnarci tra le vetrine che raccontano la storia degli internati.

Da Murren, attraverso trenini e vertiginose funivie approdiamo sull’altro versante della vallata. Proseguendo si può arrivare alla Jungfraujoch comodamente seduti sul trenino più alto d’Europa. Noi però ci fermiamo a Wengen dove la Coppa del Mondo di sci mette in palio la discesa libera più bella che ci sia. Sina Cova, ex azzurra della disciplina, ci fa entrare nella vita di questa perla alpina dal divano dell’hotel Falken, dove ancora oggi alloggia la nazionale italiana di sci.

jungfrauregion.ch

A cura di Dario Falcini

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Chicago: un museo a cielo aperto

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“La prima sorpresa arriva a bordo dell’aereo che sta per atterrare all’Internazional O’Hara Airport di Chicago. La città di Obama, nella nostra mente, è sempre stata ‘vissuta’ come una città continentale, al centro del Nordamerica. Sotto di noi invece si palesa una città marina. Se pensiamo a un grande lago l’immagine va a quello di Garda. Il più delle volte la parola ‘lago’ evoca nella nostra mente le pozze alpine o le gocce dei castelli romani. Chicago è su una delle rive del Lago Michigan: 60.000 kmq di superficie, 150 chilometri per 400. In pratica la stessa superficie dell’Adriatico. Le tempeste si abbattono sui frangiflutti e a volte gli spruzzi delle onde invadono il lungolago, che da queste parti è un’autostrada urbana chiamata “Lakeshoredrive”. Vista dall’alto l’area metropolitana sembra disporsi lungo questo mare d’acqua dolce come una striscia lunga quasi 200 chilometri. E’ Chicagoland, un unico immenso agglomerato litoraneo che, da sud a nord, dall’Indiana al Wisconsin, fagocita quelle che erano periferie o centri urbani autonomi. E’ successo a Gary, in Indiana. Sta per succedere a Millwaukee, in Wisconsin.”

E’ un estratto delle prime pagine di “Il maiale e il grattacielo – Chicago una storia del nostro futuro” (Feltrinelli) di Marco d’Eramo, in saggio imperdibile per chiunque voglia conoscere la città di Ernest Hemingway e di John Belushi. Ed è proprio Marco d’Eramo a fotografare per noi alcuni aspetti di Chicago. I grattacieli della Venezia del Novecento e le Prairie House di Frank Lloyd Wright. Il Sunday Gospel Brunch alla Blues House e le installazioni di Theaster Gates. La rabbia dei ghetti del South Side e l’opulenza del Magnificent Mile. La standardizzazione dei sapori e la scuola economica dei Chicago Boys. Un concerto di blues nel locale di un immigrato italiano e gli standard della musica house degli anni Ottanta…

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Glasgow, ovvero ‘con la cultura si può anche mangiare’

GLASGOW, Science Centre

East End di Glasgow. Sgargianti luci al neon che si riflettono sull’asfalto bagnato di Gallowgate Road. Sono le insegne del Barrowland. Dal 1934 sul suo parquet in legno hanno imparato a ballare generazioni di glaswegians. Se ci andate in una serata di roller disco sarete catapultati indietro nel tempo. Un buco spazio-temporale che ingoia anche il Barras Market, il mercato che la domenica si dipana nei piani sottostanti al locale. E’ un paradiso del vintage, uno dei più stravaganti mercati delle pulci al mondo che tracima nelle stanze di vecchi edifici vittoriani, su centinaia di bancarelle e in decine di negozi. Inoltrandosi nell’East End si finisce sui prati del Glasgow Green: il più antico parco esistente al mondo. Considerato da tutti property of the people, è il corrispettivo dello Speaker’s Corner di Londra e molti leader sindacali, politici e membri del parlamento si sono diplomati alla “Glasgow Green University”. Al suo interno ospita il People’s Palace, un museo che racconta la storia della città e dei suoi abitanti. Nelle sue sale vengono messe a confronto due diverse visioni del mondo: quella capitalista e quella operaia. Se il People’s Palace è la casa dei glaswegians, il tempio (per lo meno di quelli cattolici) è il Celtic Park. E’ la casa del Celtic, una delle tre squadre di calcio di Glasgow. Le altre sono i Rangers e il Queen’s Park, entrambe supportate da tifosi protestanti. Dietro la storia di questi team c’è la storia della Scozia, e del suo tribolato rapporto con il Regno Unito. Una storia che aveva fatto di Glasgow una città di cantieri navali e dell’industria pesante. Quella Glasgow non c’è più, al suo posto una città che riconvertendosi è diventata un polo culturale che attira centinaia di migliaia di turisti. E con loro milioni di sterline. Uno spot all’assioma che ‘con la cultura si può anche mangiare’. Per arrivare a questo risultato sono stati ristrutturati storici musei vittoriani, come il Kelvingrove Art Gallery and Museum. E ne sono stati creati di nuovi come il Glasgow Science Centre, un’avveniristica costruzione dove vengono mostrati un’infinità di esperimenti scientifici, e il Riverside Museum, che ospita una collezione eterogenea dedicata alla cultura del trasporto e del viaggio. Ma, essendo da sempre una capitale della musica, Glasgow si è regalata anche nuovi spazi per concerti di star internazionali. La più recente è lo Scottish Hydro Arena Glasgow (SHAG), una struttura circolare in vetro e acciaio, simile ad una gigantesca astronave: un’arena futuristica – targata Norman Foster – in grado di ospitare circa 12.000 spettatori.

Link, info e indirizzi su visitbritain.com e nella sezione Moleskine.

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Valle Isarco

Vipiteno

Un viaggio che inizia in quello che i locali chiamano il ‘Principato di Stufles’, il rione più antico di Bressanone. Già nel 1600 era il passaggio obbligato verso la val Pusteria, attraverso strette vie come via Terzo di Sotto, Angelo Custode e via Frana. Gli abitanti anziani di questo piccolo ‘nucleo’ urbano ricordano con nostalgia i passati giovanili, dalle scorribande nel letto del fiume Isarco alla ricerca del ferro da vendere, con sorprese di pistole e pallottole, le lite con i rivali di oltre ponte, il primo calciobalilla, i profumi che uscivano dalle finestre dei piccoli ristoranti… Ancora oggi Stufles è un agglomerato di vicoli, antichi portoni, negozi e piccoli laboratori. Imponenti ed eleganti sono invece i palazzi del nucleo storico di Vipiteno, un susseguirsi di pittoresche viuzze commerciali e piazzole medievali. Se la storia di Bressanone è strettamente legata a quella del suo principe-vescovo, quella di Vipiteno lo è alla sua collocazione geografica. Infatti, a seconda di come la si guarda, è la prima città del Nord Europa. O l’ultima dell’Europa meridionale. La storia di Vipiteno è stata per secoli legata alle sue miniere, di cui si può sapere tutto visitando le aree museali del Museo Provinciale delle Miniere. Per farci dare un consiglio sulle piste da sci del Monte Cavallo (comprensorio sciistico di Vipiteno) e della Plose (comprensorio sciistico di Bressanone) abbiamo sentito Herbert Plank, il velocista della mitica Valanga Azzurra (vipitenese doc). Tra i suoi consigli la discesa notturna dei 10 km della pista di slittino di Vipiteno, la più lunga d’Italia. Infine, per chiudere con un incontro ravvicinato con la cucina locale, prenotate un tavolo da Fink, un’istituzione della ristorazione alto-atesina giunta ormai alla terza generazione.

Info: eisacktal.comvipiteno.combrixen.org

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La valle incantata

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“Valle Incantata” è il nome che lo scrittore austriaco Robert Musil diede a una ènclave germanofona a 20 km da Trento. Per gli italiani è la Valle dei Mocheni, Fersental in tedesco. Ma per i mocheni è Bersntol (come sono arrivati qui ce lo racconta Gianni, del B&B La Marianna, una delle attività affiliate all’associazione delle piccole imprese rurali per l’ospite). Dei mocheni ci eravamo già occupati in un Onde Road di un paio di anni fa. Ne riparliamo perché dallo scorso novembre è in circolazione “La prima neve”, un film di Andrea Segre ambientato in valle. La prima neve è quella che tutti in valle aspettano. Quella che trasforma i colori, le forme, i contorni. Dani, il protagonista della storia raccontata da Segre, non ha mai visto la neve: originario del Togo, è arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia. È in valle c’è arrivato come ospite di una casa accoglienza di Pergine. Per le strane analogie del destino così come alcuni migranti di oggi per vivere fanno gli ambulanti, anche gli antichi mocheni, migranti di ieri, stagionalmente praticavano il commercio ambulante (kromer). Cosa vendevano ce lo racconta Sara, giovane volontaria del Bersntoler Kulturinstitut (Istituto Culturale Mocheno), che ci porta a visitare il Filzerhof, una casa rurale mòchena appartenuta a un certo Filzmoser, che abitò il maso verso la fine del ‘600. Altra tappa imperdibile è il Museo Pietra Viva di S.Orsola Terme: un viaggio guidato dai gemelli Pallaoro alla scoperta del mondo dei minerali.

Visita: valledeimochenipirlo.it

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Geografie musicali genovesi

via del campo

La Villa del Principe è la più vasta e sontuosa dimora nobiliare della città di Genova, la residenza dell’unico Principe che Genova abbia mai avuto. Una villa di dimensioni anormali rispetto alla Genova del cinquecento. Ed è proprio nella casa di Andrea Doria che Giuseppe Verdi affittò delle camere per farne la sua dimora genovese e qui partorì alcune arie immortali dell’Otello e del Falstaff. A pochi metri dalla villa c’è la sede della Comunità di San Benedetto al Porto, quella di don Gallo. L’epicentro genovese del lavoro della comunità è nella città vecchia, quella cantata da De Andrè. E’ un mondo fatto di vicoli, intricati e stretti, fiancheggiati da palazzi imponenti di sei, sette piani. Genova è una città “verticale”. Nel 1600 i visitatori restavano colpiti per l’altezza di questi palazzi, al tempo veri e propri grattacieli perché in Europa non esistevano città eguali e costruzioni così alte le abitavano solo i Re. In via del Campo 29rosso, dove una volta c’era lo storico negozio ‘Musica Gianni Tasso’, è attivo uno spazio museale dedicato ai musicisti della cosiddetta scuola genovese: Bindi, Lauzi, Paoli, Tenco, De Andrè… Molto più luciferino di tutti loro messi assieme fu Niccolò Paganini, un artista la cui biografia pesca a piene mani da quelle di Robert Johnson e Jerry Lee Lewis. Il Cannone, il suo violino, è conservato nel Palazzo Municipale e la gestione di questo un incredibile tesoro, di proprietà dei genovesi, è una delle scommesse su cui potrebbe ruotare la vita culturale della città. Una scommessa già vinta invece è quella del Museo del Mare e delle Migrazioni, uno spazio che tra l’altro ha saputo coniugare il mare con le storie degli italiani che l’hanno solcato per cercare fortune altrove e con le storie di chi oggi lo solca cercando la fortuna in Italia. Un viaggio, quello tra le geografie musicali di Genova, che può terminare a Boccadasse, un piccolo borgo marinaro diventato quartiere urbano. Stretto attorno alla sua piccola baia a bocca d’azë (“bocca d’asino”), è stato fondato intorno all’anno mille da pescatori spagnoli che vi sbarcarono per rifugiarsi da una tempesta. A marcare il territorio è il belvedere della chiesa di Sant’Antonio, ricavata da una cappella costruita dai pescatori agli inizi del XVII secolo. E’ su un tetto di Boccadasse che viveva la famosa gatta di Gino Paoli. Voi invece potete scendere imboccando una ripida scaletta, raggiungendo così una storica palestra. I suoi tapis roulant, piazzati davanti a una vetrata a strapiombo sul mare, consentono di correre sulle onde durante il tramonto. Mentre le cyclette da spinning, piazzate a ridosso degli scogli, garantiscono un insolito surf ciclistico. Non resta che pedalare con una cuffietta che spara a palla le canzoni di Fabrizio…

Link, info e indirizzi nella sezione Moleskine