A Zanzibar “sognando” il sultano

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A Zanzibar anche oggi si respira l’aroma ipnotico del chiodo di garofano, che riempie l’aria e sa d’Africa e d’Oriente. Ma l’arcipelago zanzibarino non è né l’uno, né l’altra. E’ uno strano pesce.

E’ geograficamente africano, ma ‘nuota’ nel naturale punto di approdo delle grandi rotte provenienti dall’India e dalla penisola arabica. Etnicamente è misto: un incrocio di tra neri, arabi e indiani. Culturalmente e religiosamente è islamico: più del 90% della popolazione  è musulmano osservante. Amministrativamente, invece,  è una sorta di ibrido: sotto il profilo formale Zanzibar fa parte della confederazionetanzaniana, di cui ostenta la bandiera. Oggi però molti zanzibarini sognano il passato per addolcire un presente che non piace. Costoro da tempo pensano che è meglio stare da soli, staccarsi da Daar es Salaam e tornare a prima della rivoluzione del 1964: Zanzibar di qua e il Tanganica di là e amici come prima. O quasi. Nell’attesa le sue spiagge si riempiono di turisti e i vicoli della sua capitale, Stone Town, sono sempre più brulicanti di traffici. La ‘città di pietra’,  è una vera e propria trappola del tempo. La sua pianta topografica è un reticolo impazzito tracciato da secoli di architetture senza regole: forti e torrioni dalle mura merlate, i palazzi dei satrapi omaniti, hammam persiani rivestiti di fine marmo bianco, chiese d’un gotico eclettico, le volute del barocco indiano, ordini di colonne doriche a sorreggere edifici coloniali inglesi… Come sempre il nostro consiglio è di praticare il cosiddetto ‘turismo responsabile’. A Zanzibar lo si può fare grazie al progetto Why, un’associazione Onlus di volontariato internazionale che ha la sua base a Jambiani, sulla costa orientale dell’isola: un villaggio che si estende per oltre un chilometro su un incantevole tratto di costa. Un libro da leggere mentre si prende il sole è ‘Memorie di una principessa araba di Zanzibar’ (2004, The Gallery Publications), il diario della principessa Salomè, l’ultima discendente dei sultani omaniti, nata da una relazione del sultano Seyyid Said Busaid con una sua concubina circassa.

Ulteriori link, indirizzi ed info nella sezione Moleskine.

Foreste Casentinesi

Sasso-Fratino (apertura)

L’Alta via dei Parchiè una cavalcata lungo il crinale appenninico di circa 500 chilometri, da coprire in 27 tappe, attraverso due parchi nazionali, cinque parchi regionali e uno interregionale. Uno dei segmenti più intriganti è il Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. Qui, come in molte altre aree appenniniche,un territorio colonizzato per secoli dall’uomo negli anni Sessanta, con le sirene del benessere, ha subito un processo di spopolamento. Oggi la natura si è presa una rivincita ed è ritornata padrona… Gli insediamenti antropici avevano la caratteristica del borgo sparso. L’epicentro era costituito dalla chiesa, che spesso oltre alla canonica prevedeva anche i locali destinati alla scuola. Le case erano isolate, talvolta piazzate su versanti opposti della montagna. “Io ero fortunata” ricorda la signora Lorenza, mitica ristoratrice dell’agriturismo il Poderone (Campigna) “perché per andare a scuola avevo solo mezz’ora di cammino, mentre alcuni compagni di classe abitavano a più di un paio d’ore dalla scuola. E il percorso era così tortuoso che in caso di nevicata abbondante non provavano nemmeno ad uscire di casa”. Le abitazioni ospitavano delle famiglie allargate ed erano concepite per essere autosufficienti. La vita era dura, talvolta spesa in condizioni estreme. I pochi appezzamenti coltivabili dovevano essere strappati a una montagna sassosa e brulla. Dura. L’autosufficienza era la parola d’ordine. Pur vivendo in casolari isolati c’era una forte rete di solidarietà.  I momenti di socialità erano scarni, sostanzialmente legati al tempo passato al mulino per ricavare le farine dai prodotti della terra e a quello dedicato alle funzioni religiose. Un’esistenza che a Vallucciole, un borgo sul versante aretino del parco delle Foreste Casentinesi, è stata interrotta violentemente il 13 aprile 1944 quando i suoi abitanti vennero uccisi in massa da una rappresaglia nazi-fascista…

Sentieri di pace in Trentino

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Con la Prima Guerra Mondiale il Trentino ha vissuto uno dei momenti cruciali della propria storia: nell’agosto 1914 gli uomini, all’epoca cittadini austro-ungarici, furono mandati a combattere sul fronte russo, ma dal maggio 1915, con l’entrata in guerra dell’Italia, il conflitto investì direttamente i suoi paesi e le sue città. Dal 1915 al 1918 questa terra di confine fu un campo di battaglia, un lungo fronte che ha attraversato valli, montagne e cime alpine, dove gli uomini sono stati impegnati in una continua sfida con gli elementi naturali, prima ancora che contro il nemico. Per rendere possibile questi aspri confronti, sulle montagne del Trentino sono stati tracciati centinaia di chilometri di strade, che hanno “colonizzato” i paesaggi in quota: nei decenni successivi quelle stesse strade avrebbero aperto la via ad un’intensa frequentazione delle montagne alla popolazione civile e al turismo. Il fronte del Trentino non fu decisivo per le sorti del conflitto mondiale, ma nelle sue trincee, in scenari impervi, hanno combattuto soldati di molte nazioni europee. Oggi l’intero Trentino, con i suoi musei e i suoi monumenti, costellato di forti, trincee, camminamenti, gallerie e altre opere ingegneristiche, spesso ardite che raccontano con immediatezza le vicende di un secolo fa, può essere considerato un Parco della Memoria. Luogo e monumento simbolo di questo percorso non può che essere la Campana di Rovereto, realizzata nel 1925 fondendo il bronzo dei cannoni delle nazioni partecipanti al Primo conflitto mondiale. Seguendo i 530 km del Sentiero della Pace, che si dipana dal Passo del Tonale fino alla Marmolada, si possono incontrare i luoghi nei quali i due eserciti si sono fronteggiati. Da Rovereto si possono raggiungere facilmente le trincee del Nagià Grom e il Forte Pozzacchio in Vallarsa, di cui parliamo in questa puntata. Escursioni che, per arrivarci preparati, è opportuno far precedere da una visita al Museo storico italiano della Guerra, domiciliato nel quattrocentesco castello di Rovereto.

trentinograndeguerra.it

Montreux

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Eravamo andati tutti a Montreux
Sulla spiaggia del lago di Ginevra
Per fare dischi con un furgoncino
Non avevamo molto tempo
Frank Zappa e i Mothers
Erano in una posizione migliore
Ma qualche stupido con una pistola a razzi
Incendiò l’edificio radendolo al suolo
Fumo sull’acqua, fuoco nel cielo

Hanno bruciato quella casa da gioco
È perita con un suono orribile
Claude, adirato, correva dentro e fuori
Tirando fuori dall’edificio i bambini
Quando fu tutto finito
Noi dovemmo trovarci un altro posto
Ma il tempo svizzero stava volando via
Sembrava che dovessimo perdere la gara
Fumo sull’acqua, fuoco nel cielo

E’ il testo di una delle canzoni che hanno fatto la storia del rock: Smoke on the Water dei Deep Purple. Racconta un episodio realmente accaduto a Montreux, nella Svizzera francese, nel 1971, quando verso la fine di un concerto di Frank Zappa e delle Mothers Of Invention uno spettatore sparò un razzo segnaletico che incendiò il Casinò. “Smoke on the Water” (letteralmente fumo sull’acqua, titolo accreditato al bassista Roger Glover) evoca il fumo del casinò in fiamme che si spandeva sopra il lago di Ginevra. E’ solo uno degli episodi che lega la storia del rock a Montreux, la città dove passò gli ultimi anni della sua vita Freddie Mercury (lo studio di registrazione dei Queen era in città) e dove Michael Jackson, approfittando della celeberrima La Clinic, una delle più prestigiose cliniche di chirurgia estetica e medicina contro la vecchiaia, cercò di comprarsi una nuova faccia. In Smoke on the Water, a un certo punto, viene nominato “funky Claude”. E’ il nickname di Claude Nobs, lo storico inventore del Montreux Jazz Festival, che con la sua sua ‘invenzione’ ha rivoluzionato la nomea di Montreux, che prima del festival era nota solo come meta turistica di anziani economicamente agiati. Scomparso nel 2013, Nobs può essere salutato con un brindisi di un vino del Lavaux, la regione viti-vinicola che da Montreux si estende sino a Losanna. Qui ogni centimetro quadrato di terra è stato sfruttato e pendenze ripidissime sono state terrazzate con l’ausilio di chilometrici muri in pietra. Lungo i sentieri, numerosi cartelli didattici, oltre a ricordare che sono ben sette i vigneti del Lavaux che possono vantare la denominazione di origine controllata e cru (Lutry, Villette, Epesses & Calamin, Dézaley, St. Saphorin, Chardonne, Vevey-Montreux), spiegano i misteri della vigna e del vino…

A cura di Matteo Villaci

La Lucania lunare dei calanchi

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Un viaggio nel cuore più nascosto e solitario della Basilicata. E’ la Lucania, il luogo magico e pieno di spiritualità descritto da Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”. Borghi come Aliano, la cittadina dove Levi trascorse il suo periodo di confino. Ferrandina, una città fondata nel 1400 da Federico e Isabella d’Aragona. Craco, un suggestivo borgo fantasma che sorge fra paesaggi da film western, e che, per la sua bellezza, è stato inserito nella lista del World Monuments Fund. E Pisticci, il borgo famoso per le casette bianche allineate sul Rione Dirupo, sorto sulla frana che nel 1688 devastò il borgo. E’ il paese della brigantessa Maria la Pastora, mitica compagna del leggendario bandito Ninco Nanco (Ninghe Nanghe in dialetto), devoto luogotenente di Carmine Crocco, il “Napoleone dei Briganti”, uno dei più temuti e ricercati fuorilegge del periodo post-unitario. Pisticci galleggia sui calanchi: concrezioni dalle forme incredibili create da ignote coordinate fisico-chimiche. Profondi canyon, aride dune bianche che si sbriciolano per colpa degli agenti atmosferici, pinnacoli naturali ed enormi sculture d’argilla impastata dal sole che si sgretolano sotto il peso del tempo. Il calanco, per la cultura contadina, era un luogo sacro e demoniaco. Demoniaco perché non avendo humus non è terra fertile. Sacro perché nei calanchi venivano seppelliti i defunti. Si scava con facilità nei calanchi, entità che non sono mai state soggette a vincoli di proprietà perché, in quanto composti da terra non fertile, non sono mai stati allettanti per i contadini. Su questa terra, non riuscendo a crescere in altezza, alcune piante si stirano, si allungano, creando così disegni che si intersecano con le crepe dell’argilla. Ma dove, improvvisamente, si stagliano baldanzose alcune orchidee selvatiche.

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Foto di Bruno Zanzottera/Parallelozero ©

Oberland Bernese, il cuore delle Alpi

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Eiger, Jungfrau, Monch. Immersi in un oceano di neve da Murren si gode il panorama di uno dei massicci più autoritari delle Alpi. Oggi Onde Road fa tappa in questo paesino di 300 abitanti dell’Oberland Bernese. Murren è terra di ispirazione per i grandi di Hollywood: nel 1975 Clint Eastwood girò il suo Assassinio sull’Eiger e qui è ambientato il sesto film della saga di James Bond, Al servizio segreto di sua maestà. La spia inglese, interpretata da George Lazenby, si ritrova nel covo della Spectre abbarbicato sui 3000 metri dello Schiltorn. Ribattezzato Piz Gloria in onore della pellicola questo luogo ora ospita un ristorante rotante e un museo dedicato a 007. Da qui si parte per chilometri e chilometri di sciate. A Murren non si possono ammirare solo le tracce dei freeriders , ma anche quella che la storia italiana ha lasciato in dote dagli anni del conflitto. Negli alberghi della località tra il 1944 e il ’45 hanno trovato rifugio più di mille italiani, per lo più antifascisti. Il campione di sci Zeno Colò, Amintore Fanfani e Giorgio Strehler furono qui, come Dino Risi che a Murren si è sposato con la sua Claudia. E’ Barbara Mosca, la sorella, a accompagnarci tra le vetrine che raccontano la storia degli internati.

Da Murren, attraverso trenini e vertiginose funivie approdiamo sull’altro versante della vallata. Proseguendo si può arrivare alla Jungfraujoch comodamente seduti sul trenino più alto d’Europa. Noi però ci fermiamo a Wengen dove la Coppa del Mondo di sci mette in palio la discesa libera più bella che ci sia. Sina Cova, ex azzurra della disciplina, ci fa entrare nella vita di questa perla alpina dal divano dell’hotel Falken, dove ancora oggi alloggia la nazionale italiana di sci.

jungfrauregion.ch

A cura di Dario Falcini

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Chicago: un museo a cielo aperto

blues bros

“La prima sorpresa arriva a bordo dell’aereo che sta per atterrare all’Internazional O’Hara Airport di Chicago. La città di Obama, nella nostra mente, è sempre stata ‘vissuta’ come una città continentale, al centro del Nordamerica. Sotto di noi invece si palesa una città marina. Se pensiamo a un grande lago l’immagine va a quello di Garda. Il più delle volte la parola ‘lago’ evoca nella nostra mente le pozze alpine o le gocce dei castelli romani. Chicago è su una delle rive del Lago Michigan: 60.000 kmq di superficie, 150 chilometri per 400. In pratica la stessa superficie dell’Adriatico. Le tempeste si abbattono sui frangiflutti e a volte gli spruzzi delle onde invadono il lungolago, che da queste parti è un’autostrada urbana chiamata “Lakeshoredrive”. Vista dall’alto l’area metropolitana sembra disporsi lungo questo mare d’acqua dolce come una striscia lunga quasi 200 chilometri. E’ Chicagoland, un unico immenso agglomerato litoraneo che, da sud a nord, dall’Indiana al Wisconsin, fagocita quelle che erano periferie o centri urbani autonomi. E’ successo a Gary, in Indiana. Sta per succedere a Millwaukee, in Wisconsin.”

E’ un estratto delle prime pagine di “Il maiale e il grattacielo – Chicago una storia del nostro futuro” (Feltrinelli) di Marco d’Eramo, in saggio imperdibile per chiunque voglia conoscere la città di Ernest Hemingway e di John Belushi. Ed è proprio Marco d’Eramo a fotografare per noi alcuni aspetti di Chicago. I grattacieli della Venezia del Novecento e le Prairie House di Frank Lloyd Wright. Il Sunday Gospel Brunch alla Blues House e le installazioni di Theaster Gates. La rabbia dei ghetti del South Side e l’opulenza del Magnificent Mile. La standardizzazione dei sapori e la scuola economica dei Chicago Boys. Un concerto di blues nel locale di un immigrato italiano e gli standard della musica house degli anni Ottanta…

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Glasgow, ovvero ‘con la cultura si può anche mangiare’

GLASGOW, Science Centre

East End di Glasgow. Sgargianti luci al neon che si riflettono sull’asfalto bagnato di Gallowgate Road. Sono le insegne del Barrowland. Dal 1934 sul suo parquet in legno hanno imparato a ballare generazioni di glaswegians. Se ci andate in una serata di roller disco sarete catapultati indietro nel tempo. Un buco spazio-temporale che ingoia anche il Barras Market, il mercato che la domenica si dipana nei piani sottostanti al locale. E’ un paradiso del vintage, uno dei più stravaganti mercati delle pulci al mondo che tracima nelle stanze di vecchi edifici vittoriani, su centinaia di bancarelle e in decine di negozi. Inoltrandosi nell’East End si finisce sui prati del Glasgow Green: il più antico parco esistente al mondo. Considerato da tutti property of the people, è il corrispettivo dello Speaker’s Corner di Londra e molti leader sindacali, politici e membri del parlamento si sono diplomati alla “Glasgow Green University”. Al suo interno ospita il People’s Palace, un museo che racconta la storia della città e dei suoi abitanti. Nelle sue sale vengono messe a confronto due diverse visioni del mondo: quella capitalista e quella operaia. Se il People’s Palace è la casa dei glaswegians, il tempio (per lo meno di quelli cattolici) è il Celtic Park. E’ la casa del Celtic, una delle tre squadre di calcio di Glasgow. Le altre sono i Rangers e il Queen’s Park, entrambe supportate da tifosi protestanti. Dietro la storia di questi team c’è la storia della Scozia, e del suo tribolato rapporto con il Regno Unito. Una storia che aveva fatto di Glasgow una città di cantieri navali e dell’industria pesante. Quella Glasgow non c’è più, al suo posto una città che riconvertendosi è diventata un polo culturale che attira centinaia di migliaia di turisti. E con loro milioni di sterline. Uno spot all’assioma che ‘con la cultura si può anche mangiare’. Per arrivare a questo risultato sono stati ristrutturati storici musei vittoriani, come il Kelvingrove Art Gallery and Museum. E ne sono stati creati di nuovi come il Glasgow Science Centre, un’avveniristica costruzione dove vengono mostrati un’infinità di esperimenti scientifici, e il Riverside Museum, che ospita una collezione eterogenea dedicata alla cultura del trasporto e del viaggio. Ma, essendo da sempre una capitale della musica, Glasgow si è regalata anche nuovi spazi per concerti di star internazionali. La più recente è lo Scottish Hydro Arena Glasgow (SHAG), una struttura circolare in vetro e acciaio, simile ad una gigantesca astronave: un’arena futuristica – targata Norman Foster – in grado di ospitare circa 12.000 spettatori.

Link, info e indirizzi su visitbritain.com e nella sezione Moleskine.

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Valle Isarco

Vipiteno

Un viaggio che inizia in quello che i locali chiamano il ‘Principato di Stufles’, il rione più antico di Bressanone. Già nel 1600 era il passaggio obbligato verso la val Pusteria, attraverso strette vie come via Terzo di Sotto, Angelo Custode e via Frana. Gli abitanti anziani di questo piccolo ‘nucleo’ urbano ricordano con nostalgia i passati giovanili, dalle scorribande nel letto del fiume Isarco alla ricerca del ferro da vendere, con sorprese di pistole e pallottole, le lite con i rivali di oltre ponte, il primo calciobalilla, i profumi che uscivano dalle finestre dei piccoli ristoranti… Ancora oggi Stufles è un agglomerato di vicoli, antichi portoni, negozi e piccoli laboratori. Imponenti ed eleganti sono invece i palazzi del nucleo storico di Vipiteno, un susseguirsi di pittoresche viuzze commerciali e piazzole medievali. Se la storia di Bressanone è strettamente legata a quella del suo principe-vescovo, quella di Vipiteno lo è alla sua collocazione geografica. Infatti, a seconda di come la si guarda, è la prima città del Nord Europa. O l’ultima dell’Europa meridionale. La storia di Vipiteno è stata per secoli legata alle sue miniere, di cui si può sapere tutto visitando le aree museali del Museo Provinciale delle Miniere. Per farci dare un consiglio sulle piste da sci del Monte Cavallo (comprensorio sciistico di Vipiteno) e della Plose (comprensorio sciistico di Bressanone) abbiamo sentito Herbert Plank, il velocista della mitica Valanga Azzurra (vipitenese doc). Tra i suoi consigli la discesa notturna dei 10 km della pista di slittino di Vipiteno, la più lunga d’Italia. Infine, per chiudere con un incontro ravvicinato con la cucina locale, prenotate un tavolo da Fink, un’istituzione della ristorazione alto-atesina giunta ormai alla terza generazione.

Info: eisacktal.comvipiteno.combrixen.org

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La valle incantata

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“Valle Incantata” è il nome che lo scrittore austriaco Robert Musil diede a una ènclave germanofona a 20 km da Trento. Per gli italiani è la Valle dei Mocheni, Fersental in tedesco. Ma per i mocheni è Bersntol (come sono arrivati qui ce lo racconta Gianni, del B&B La Marianna, una delle attività affiliate all’associazione delle piccole imprese rurali per l’ospite). Dei mocheni ci eravamo già occupati in un Onde Road di un paio di anni fa. Ne riparliamo perché dallo scorso novembre è in circolazione “La prima neve”, un film di Andrea Segre ambientato in valle. La prima neve è quella che tutti in valle aspettano. Quella che trasforma i colori, le forme, i contorni. Dani, il protagonista della storia raccontata da Segre, non ha mai visto la neve: originario del Togo, è arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia. È in valle c’è arrivato come ospite di una casa accoglienza di Pergine. Per le strane analogie del destino così come alcuni migranti di oggi per vivere fanno gli ambulanti, anche gli antichi mocheni, migranti di ieri, stagionalmente praticavano il commercio ambulante (kromer). Cosa vendevano ce lo racconta Sara, giovane volontaria del Bersntoler Kulturinstitut (Istituto Culturale Mocheno), che ci porta a visitare il Filzerhof, una casa rurale mòchena appartenuta a un certo Filzmoser, che abitò il maso verso la fine del ‘600. Altra tappa imperdibile è il Museo Pietra Viva di S.Orsola Terme: un viaggio guidato dai gemelli Pallaoro alla scoperta del mondo dei minerali.

Visita: valledeimochenipirlo.it

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Geografie musicali genovesi

via del campo

La Villa del Principe è la più vasta e sontuosa dimora nobiliare della città di Genova, la residenza dell’unico Principe che Genova abbia mai avuto. Una villa di dimensioni anormali rispetto alla Genova del cinquecento. Ed è proprio nella casa di Andrea Doria che Giuseppe Verdi affittò delle camere per farne la sua dimora genovese e qui partorì alcune arie immortali dell’Otello e del Falstaff. A pochi metri dalla villa c’è la sede della Comunità di San Benedetto al Porto, quella di don Gallo. L’epicentro genovese del lavoro della comunità è nella città vecchia, quella cantata da De Andrè. E’ un mondo fatto di vicoli, intricati e stretti, fiancheggiati da palazzi imponenti di sei, sette piani. Genova è una città “verticale”. Nel 1600 i visitatori restavano colpiti per l’altezza di questi palazzi, al tempo veri e propri grattacieli perché in Europa non esistevano città eguali e costruzioni così alte le abitavano solo i Re. In via del Campo 29rosso, dove una volta c’era lo storico negozio ‘Musica Gianni Tasso’, è attivo uno spazio museale dedicato ai musicisti della cosiddetta scuola genovese: Bindi, Lauzi, Paoli, Tenco, De Andrè… Molto più luciferino di tutti loro messi assieme fu Niccolò Paganini, un artista la cui biografia pesca a piene mani da quelle di Robert Johnson e Jerry Lee Lewis. Il Cannone, il suo violino, è conservato nel Palazzo Municipale e la gestione di questo un incredibile tesoro, di proprietà dei genovesi, è una delle scommesse su cui potrebbe ruotare la vita culturale della città. Una scommessa già vinta invece è quella del Museo del Mare e delle Migrazioni, uno spazio che tra l’altro ha saputo coniugare il mare con le storie degli italiani che l’hanno solcato per cercare fortune altrove e con le storie di chi oggi lo solca cercando la fortuna in Italia. Un viaggio, quello tra le geografie musicali di Genova, che può terminare a Boccadasse, un piccolo borgo marinaro diventato quartiere urbano. Stretto attorno alla sua piccola baia a bocca d’azë (“bocca d’asino”), è stato fondato intorno all’anno mille da pescatori spagnoli che vi sbarcarono per rifugiarsi da una tempesta. A marcare il territorio è il belvedere della chiesa di Sant’Antonio, ricavata da una cappella costruita dai pescatori agli inizi del XVII secolo. E’ su un tetto di Boccadasse che viveva la famosa gatta di Gino Paoli. Voi invece potete scendere imboccando una ripida scaletta, raggiungendo così una storica palestra. I suoi tapis roulant, piazzati davanti a una vetrata a strapiombo sul mare, consentono di correre sulle onde durante il tramonto. Mentre le cyclette da spinning, piazzate a ridosso degli scogli, garantiscono un insolito surf ciclistico. Non resta che pedalare con una cuffietta che spara a palla le canzoni di Fabrizio…

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Ai confini del mondo: l’Ospizio del Gran San Bernardo

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Con il treno si valica il Sempione e, meno di un’ora dopo, si sbarca a Martigny, una tranquilla cittadina con una storia millenaria. A trasformarla in una piccola capitale dell’arte ci pensa un tempio della cultura costruito su un antico santuario romano: la Fondazione Gianadda. Reperti gallo-romani, quadri di Cèzanne e Van Gogh, sculture di Mirò e Dubuffet, uno spazio dedicato alle invenzioni di Leonardo da Vinci, un museo dell’automobile, festival e concerti… una proposta culturale semplicemente bulimica. Dopo le bellezze dell’arte quelle della natura. La meta è il Museo Chiens du San Bernard, uno spazio magico, in grado di intenerire anche il mostro di Marcinelle. Al piano terra cani giganteschi scivolano sul pavimento mentre deambulano seguiti da cucciolate che sembrano appena uscite da un cartone animato di Walt Disney. Sono i cani che hanno contribuito a rendere famoso l’Ospizio del Gran San Bernardo. Raggiungerlo è un’avventura che merita di essere vissuta. In trenta minuti scarsi, con un trenino di quelli da cartolina elvetica, si raggiunge Orsières. Con un bus e altri 15 minuti si arriva a Bourg Saint Pierre, un villaggio medioevale formatosi attorno a un convento con un ospizio del IX secolo. Nel borgo c’è una casa dove si è fermato Napoleone il 20 maggio del 1800, prima di salire con le sue truppe sul passo. E c’è la targa con cui, in anni relativamente recenti, François Mitterrand ha pensato di poter saldare i debiti secolari del Bonaparte con la comunità locale. Da qui, armati di sci con le pelli di foca, inizia l’ascesa verso l’ospizio. La storia di questo rifugio si perde nei tempi. Inizia verso la metà dell’anno mille con San Bernardo da Mentone, arcidiacono di Aosta. ” Hic Christus adoratur et pascitur” (Qui Cristo è adorato e nutrito), questo il motto inciso sulle pietre del rifugio. Dopo ogni bufera, si scendeva sia verso l’Italia che verso la Svizzera per trovare pellegrini o viaggiatori dispersi nella tormenta. Li si assisteva e rifocillava. L’ospizio è stato e continua ad essere aperto a tutti, 365 giorni all’anno. Oggi è frequentato da escursionisti che amano lo sci fuori pista e da pellegrini che seguono la via Francigena. Ma ci arrivano anche persone di qualsiasi fede e religione che, oltre a un letto e un brodo caldo, vogliono provare l’esperienza di vivere dentro a un luogo dello spirito. In estate, quando ci si può arrivare in macchina, l’alloggiamento è riservato agli escursionisti a piedi o in bicicletta. D’inverno non c’è problema, ci si può arrivare solo con gli sci ai piedi.

Info: vallese.ch e altri indirizzi nella sezione Moleskine

Contrabbandieri e ‘burlanda’ in Val d’Intelvi

Valle d'Intelvi

Erbonne. 940 metri sul livello del mare. Pendici che precipitano a capofitto nelle acque del lago di Como.Una frazione di 9 abitanti del comune di San Fedele Intelvi, nella porzione più alta della Val Breggia, la stessa che per gli svizzeri è la valle di Muggio. Una valle inquieta, mazziniana e valdese, anarchica e contrabbandiera prima di rassegnarsi a un docile tramonto. E’ uno degli scenari che fanno da sfondo alle storie che Cecco Bellosi racconta in “Con i piedi nell’acqua – Il lago e le sue storie” (2013, Milieu). Ed è proprio ad Erbonne che Cecco ha convocato, una mattina dello scorso luglio, qualche (ex) contrabbandiere e qualche (ex) finanziere. Gente che per anni, su quelle irte montagne, ha ‘giocato’ a guardie e ladri. Contrabbandieri, sfrosatori, spalloni che, tra l’inizio del secolo breve e i primi lampi del Sessantotto, furono protagonisti di imprese a metà tra l’epico e il picaresco. Irregolari che imperversavano in anni in anni in cui il lago non era ancora la meta dei nuovi ricchi. “Sullo scorcio di fine secolo” scrive Bellosi “si è passati velocemente, insinuando qualche debole traccia di cronaca rosa sui muri screpolati nei secoli, dallo stilista italiano all’attore americano al petroliere russo arricchito alla borsa nera della morte del comunismo: c’è chi il bandito lo interpreta al cinema, e chi lo fa per professione nella vita di tutti i giorni». Mondo tosto, quello del lago e dei laghée. Al cui centro c’è il mestiere dello sfrosatore: un lavoro duro che consiste nel passare la frontiera per portare farina, caffè, tabacchi, zucchero, dadi, selvaggina. Un’attività dove regnano regole ferree, rituali, comportamenti che non ammettono deroghe o distrazioni. Dove ci sono gerarchie dettate dalla capacità individuale di saper trovare ogni volta un passaggio ignoto ai burlanda (i finanzieri) e alla tribù (la polizia tributaria), di saper organizzare e tenere insieme una colonna: da cui le leggendarie vite e imprese dei capi del contrabbando…

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Viaggio in Dolomiti

Dolomiti friulane

Un viaggio per quasi 1200 chilometri tra valli, altipiani, canyon e alte pareti. Il viaggio attraverso tutti i sistemi dolomitici, di un antropologo –Annibale Salsa– e un narratore –Marco Albino Ferrari– che partendo da Trento in una tiepida mattina di sole, hanno effettuato un lungo scavo sotto la superficie delle “montagne più famose del monde”. Sono le montagne più frequentate del mondo, le più fotografate, le più famose. E, dunque, anche le più piegate -tra souvenir e visioni da cartolina- agli stereotipi dell’immaginario urbano. In compagnia di Marco e dell’antropologo (che raccontano questo viaggio sul numero di novembre-dicembre della rivista Meridiani Montagne) passiamo in rassegna la varia umanità che vive in quelle valli, i problemi, le aspirazioni e gli antichi retaggi che resistono addirittura al medioevo. Un viaggio oltre la rappresentazione da cartolina a cui siamo abituati. Le vacche della Val Rendina, le erbe dei boschi, il santuario di Pietralba e Villa Welsperg. Un viaggio tra spopolamento e neoruralismo, dove ho inserito una tappa a Corte di Cadore, il più straordinario esempio di architettura sociale italiana partorito dalla mente di Enrico Mattei che in meno di dieci anni (1954-1963), grazie al lavoro dell’architetto Gellner realizzò un villaggio in grado di garantire un colloquio tra edilizia e natura. Un villaggio che oggi rischia di diventare uno dei tanti borghi fantasma che abitano le nostre montagne.

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Langhe

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A cavallo delle province di Cuneo e Asti, le Langhe sono una regione storica piemontese che visitiamo in compagnia del cantautore Gianmaria Testa e dell’antropologo Annibale Salsa. Langhe è sinonimo di natura, cultura, vino e tartufi. Giovanni di mestiere fa il trifolè (trifolaio). La vita del cercatore di tartufo, il tesoro delle Langhe, è dura. Magari non come quella dei cercatori d’oro del Klondike, ma nel suo piccolo… Si lavora di notte, al buio per evitare che qualcuno ti segua e scopra dove crescono i tuoi tartufi. Gelosie e leggende, l’università dei cani da tartufo e le frotte di turisti di mezzo mondo che calano sulle Langhe per l’annuale edizione della Fiera del Tartufo bianco d’Alba, uno dei più importanti eventi enogastronomici e culturali della provincia italiana. Sofia e Andrea, ci raccontano come vive un diciassettenne in un paesino delle Langhe e ci fanno visitare il castello di Roddi, le cui stanza furono utilizzate dai partigiani durante la resistenza. Da queste parti sono state scritte importanti pagine della lotta di liberazione contro i nazi-fascisti. Alcune molto drammatiche. A una manciata di chilometri da Roddi, solo per fare un esempio, al Bricco di Neive 14 ulivi evidenziano il punto dove quattro partigiani persero la vita nella battaglia contro i soldati della Repubblica sociale italiana.

langheroero.itfieradeltartufo.org – comune.roddi.cn.it

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