“L’Avez del Prinzep metteva le vertigini, come un precipizio al contrario. L’abete più alto d’Europa, meta di pellegrinaggi da parte di scienziati, di curiosi e di amanti di riti propiziatori, era una specie di monumento identitario per gli Altipiani Cimbri, come la Mole per Torino, la Torre pendente per Pisa, il Colosseo per Roma”. Sono le parole con cui Marco Albino Ferrari inizia a raccontarci la storia del Monte Bianco degli alberi, non a caso conosciuto come il Principe (Avez del Prinzep per i cimbri). Questa del Principe sembra una fiaba, ma non lo è. È una storia vera. Una storia di vita, di morte e di vita. C’era, in quell’abete bianco, cresciuto per oltre 250 anni sull’altopiano di Lavarone, un elemento immateriale che aveva a che fare con gli abitanti dell’Altopiano, gli eredi degli antichi Cimbri. Era alto 54 metri e aveva una circonferenza di 5,6 metri. Il Principe – «alla cui ombra amava sostare Sigmund Freud e che certamente è stato ammirato anche da Robert Musil», ci ricorda Rigoni Stern nel suo Arboreto salvatico – non era solo un monumento della natura o l’albero dei primati, non era solo meta di incessanti pellegrinaggi da parte di escursionisti, botanici, curiosi e amanti di riti propiziatori delle selve. Lo si avvistava a chilometri di distanza, perché la sua chioma policormica – ovvero composta da sette punte distinte – svettava sul mare verde che la circondava. Un forte vento l’ha schiantato il 12 dicembre 2017. Una notte di vento furioso e l’antico gigante dalle radici possenti schiantò. Anche oggi, in località Malga Laghetto (Lavarone) si può ammirare quello che resta dell’Avez del Prinzep. Quel grande ceppo però non bastava a rispondere alle domande dei locali. Che fare, ora? Come utilizzare il suo nobile legno? Come fare per tener accesa la memoria del Principe? Si indissero diverse assemblee pubbliche. La sala sempre gremita. Mani alzate che chiedevano di parlare. Proposte, suggerimenti: mai un’idea all’altezza. Finché all’ultima assemblea capitò per caso un musicista. Chi l’aveva visto? Cosa lo aveva portato lì? Quel legno così pregiato – suggerì – dobbiamo affidarlo a un maestro liutaio che ne faccia un quartetto d’archi. I costi saranno ingenti, certo… Bisognerà prevedere tempi lunghi per la stagionatura e per il liutaio. Ma che saranno cinque o sei anni per degli oggetti destinati a vivere secoli. Noi suoniamo violini di trecento anni, e così questi del Principe potrebbero suonare per secoli…
Alla puntata ha partecipato anche Luigi Torreggiani, giornalista e dottore forestale, che dopo averci evidenziato come noi tendiamo a vivere le foreste (ma vale anche per le montagne) come sfondi, aliene alla vita quotidiana di noi umani. E della “Strategia Forestale Nazionale” di cui si è dotata l’Italia per governare i propri boschi per i prossimi vent’anni.
La storia del Principe, compresa la sua incredibile rinascita, è raccontata da Marco Albino Ferrari nel libro “Il canto del Principe – Storia di un albero” (Ed. Ponte alle Grazie).