Banksy, i migranti, la Palestina…

Ai primi di agosto Banksy ha disseminato di animali i muri di Londra, facendo nascere quello che è stato battezzato il “London Zoo”. Per alcuni critici con questa invasione di animali Banksy vuole trasmettere un messaggio: l’umanità si sta autodistruggendo, e dunque lascia il posto alle bestie. Molto probabilmente, in un momento storico drammatico come quello che stiamo vivendo, dove le luci sono molte meno rispetto alle ombre, Banksy vuole solo diffondere positività. In effetti quando vuole fare denunce il suo messaggio è esplicito. Si pensi al tema dei migranti che Banksy ha evocato, pochi giorni prima della nascita del London Zoo, al festival di Glastonbury, l’evento musicale più importante del Regno Unito. Durante il concerto degli Idles si è visto passare tra il pubblico un gommone con dei manichini, un’iniziativa con cui Banksy ha voluto ricordare i gommoni con cui le persone migranti cercano di attraversare tutti i giorni il mar Mediterraneo o il canale della Manica. Quello dei migranti è un tema caro a Banksy non da oggi. Basti pensare a quello che mise in piedi una decina di anni fa a Calais, una città del nord della Francia affacciata sulla Manica. Qui aveva la sua sede un enorme baraccopoli dove vivevano i migranti che dalla Francia provavano a raggiungere il Regno Unito. Quando se ne occupò Banksy, nel dicembre del 2015, era conosciuta come la “Giungla di Calais”.  Da una parte c’era una bella cittadina francese, con i suoi viali tirati a lucido e i negozi chic, le villette unifamiliari, la piazza, la splendida chiesa di Notre Dame. Dall’altra l’inferno di una favela di legno e stracci sotto il ponte dell’autostrada che porta al tunnel della Manica, sulle dune di sabbia vicino al mare. Un mondo altro distante quattro chilometri dal centro cittadino. Qualcuno, tra i migranti, s’avventurava in città, ma la maggior parte di loro restava nell’immenso spiazzo sulle dune in attesa del passaggio buono, del camion dove nascondersi e sbarcare in Inghilterra, a Dover, appena 50 chilometri più in là. Per i francesi erano solo un bubbone fuori città, per i migranti, afghani, eritrei, sudanesi, la sabbia di Calais era solo una sosta, inevitabile, ma nei loro pensieri del tutto temporanea. E proprio davanti alla spiaggia Banksy ha lasciato la sua prima opera made in Calais. Era lo stencil di un bambino con una valigia, che guardava in direzione dell’Inghilterra con un cannocchiale sul quale è appollaiato un avvoltoio. Seguirono altre opere, tra cui un murales raffigurante Steve Jobs, intitolato “Il figlio di un migrante siriano”. Nel dipinto Jobs aveva sulla spalla una sacca con gli effetti personali e in mano un vecchio computer della Apple. Un modo oroginale per ricordare che l’uomo che ha regalato al modo alcune delle più grandi innovazioni tecnologiche era il figlio di un migrante siriano, arrivato negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. Proprio come molti siriani che in quei giorni stavano a Calais per cercare di entrare nel Regno Unito (vedi articolo su The Guardian).
Un altro tema caro a Banksy è quello legato alla violenza israeliana contro i palestinesi. Significativa l’esperienza del Walled Off Hotel , “l’albergo con la vista peggiore al mondo”. Ha aperto i battenti nel marzo 2017 di fronte al muro di Betlemme, la cortina di cemento che dal 2002 divide Israele dai territori palestinesi. Doveva restare aperto un anno, invece è stato chiuso solo il 21 dicembre 2023, una chiusura dovuta ai continui attacchi israeliani alla Palestina, che ad oggi ha ucciso più di 40.000 persone a Gaza e centinaia nella Cisgiordania.

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