Ci sono luoghi che per qualche misteriosa ragione sembrano poter riassumere in sé l’essenza di una cultura, di una storia, di un mondo talvolta. Il Chelsea Hotel è uno di questi. Un grande palazzo di dodici piani in mattoni rossi, con balconi in ferro battuto e finestre a bovindo, situato al 222 della 23esima Ovest, nella zona di Chelsea, a Manhattan. Questo edificio, appariscente e anonimo al tempo stesso, è il luogo da cui sono partite le fiammate più violentemente creative della musica, della letteratura, dell’arte americana dell’intero Novecento, da Edgar Lee Masters ai Rolling Stones. E anche il luogo dove il sogno visionario più facilmente si è venato di eccessi autodistruttivi. Pionieristico esperimento di vita comunitaria ispirata alle idee del socialismo utopista di Fourier, il Chelsea diviene fin dai primi decenni del secolo scorso un crocevia di artisti di ogni genere e provenienza. Fra i suoi corridoi nascono, lavorano, amano e si consumano generazioni intere di personalità creative, tanto che qualsiasi lista di celebrità sarebbe riduttiva. Antonin Dvorak, Mark Twain, Thomas Wolfe, Virgil Thomson, Gore Vidal, William Burroughs, Allen Ginsberg, Tennessee Williams, Bob Dylan, Janis Joplin, Jackson Pollock, Jimi Hendrix, Joni Mitchell, Leonard Cohen, Patti Smith, Robert Mapplethorpe… Il corrispettivo della costa ovest è lo Chateau Marmont di Los Angeles. Appartato rispetto al traffico di Sunset Strip, celebrato per la miscela di «decadenza, moda, musica, sesso, segretezza e libertà» lo Chateau Marmont domina come una «rocca di Gibilterra» l’agglomerato urbano di L.A. i cui confini ormai si indovinano solo dal satellite. I nomi delle celebrità che lo hanno frequentato o abitato sono tutti quelli che hanno segnato la storia dello spettacolo e della cultura pop dagli anni Trenta a oggi: Greta Garbo, Howard Hughes, Bette Davis, Marilyn Monroe, James Dean, Anthony Perkins, Jim Morrison, John Belushi (che in un bungalow di questo albergo morirà di overdose, dopo un festino durato tre giorni), Johnny Depp, Lindsay Lohan e moltissimi altri. Figure centrali della storia della musica jazz, rock e pop hanno vissuto e lavorato nelle sue stanze, da Duke Ellington a Miles Davis, dai Velvet Underground a Bono, da Beyoncè a Jay-Z, così come i grandi artisti grafici, i fotografi, gli stilisti e i pubblicitari della West Coast. L’intero, secolare panorama umano americano di sognatori, affaristi e lottatori concentrato in poche centinaia di metri quadrati”. Il terzo albergo non è in una metropoli, ci si arriva in macchina scendendo da Memphis lambendo il Mississippi. E’ il Riverside Hotel di Clarksdale, nelle adiacenze delle rive fangose del Mississippi, dove il sogno americano -a differenza che a New York e a L.A.- è lungi dal diventare anche afroamericano, che si è sviluppato il blues. Dal 1944 il Riverside Hotel ha fornito alloggio a musicisti itineranti. Per alcuni di loro, tra cui Sonny Boy Williamson II, Ike Turner e Robert Nighthawk, era una sorta di casa. Prima di allora, l’edificio serviva gli afroamericani del Delta come ospedale, era la dede del G.T. Thomas Hospital. La cantante blues Bessie Smith, “l’imperatrice del blues”, morì qui nel 1937 per le ferite riportate in un incidente d’auto sulla Highway 61 appena fuori Clarksdale, dove si stava recando per uno spettacolo. Le camere portano il nome degli artisti che vi hanno soggiornato e i clienti possono scegliere la camera in base al nome del loro artista preferito. Tutte tranne una, quella di Bessie Smith che è diventata una sorta di santuario. Sul letto c’è un suo ritratto e se chiudete gli occhi potreste sentire la sua voce…
.- “Chelsea Hotel. Viaggio nel palazzo dei sogni” della giornalista e scrittrice americana Sherill Tippins (Edt, pp. 511, euro 23)
.- “Il castello di Sunset Boulevard. Storia, avventure e segreti dell’albergo più celebre di Hollywood” del critico cinematografico e scrittore Shawn Levy (Edt, pp. 402, euro 24)