La Miami che Bobo Vieri non frequenta

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Nella lingua di sabbia e di paludi tropicali che sta fra il Golfo del Messico e l’Atlantico, dove solo un secolo fa i bambini dell’unico popolo indiano mai sconfitto dai bianchi, i Seminole, cacciavano gli alligatori e dove oggi i coccodrilli delle immobiliari danno la caccia ai pensionati, si staglia quella che è la più grande città latina degli States. Come conferma basta sfogliare la guida del telefono, dove gli Antonio battono gli Antony 4 a 0. Alla lettera “a”, a fronte degli anglofoni Allan, Arthur, Andy e Ariel, lo stesso cognome trova Abel, Adela, Agapito, Alejandro, Amarillis, Ana, Alfredo, Alvaro, Amanda, Amparo, Arcadio, Audalia, Aurora… Quella dei cubani è la comunità latina più importante di Miami-Dade, la Miami metropolitana. Sono state tre le migrazioni di massa da Cuba verso la Florida. La prima iniziò con la lotta dei barbudos per deporre Batista, tra il 1953 e il 1959: la meta degli anticastristi fu Miami, il punto della Florida più facile da raggiungere. Era praticamente una città gemella dell’Avana: identica per clima, flora e fauna. Questi esuli, prevalentemente benestanti, non riuscivano a dimenticare la vita da ricchi che conducevano nell’Avana prerivoluzionaria. ma nonostante la saudade hanno fatto fortuna, politicamente ed economicamente. Di diversa estrazione sociale i cubani arrivati con le due altri grandi ondate migratorie: quella dei marielitos (1980) e quella dei balzeros (1994). La comunità cubana di Miami per anni è stata Repubblicana, con forti accenti conservatori e anticomunisti. Il loro apporto è stato fondamentale per l’elezione di Ronald Reagan prima, e di George W. Bush poi. Ma già nel 2012 più del 40% degli elettori cubano- americani ha votato per Obama. Tre i motivi di questo cambiamento: i dubbi sempre maggiori sull’efficacia della strategia dell’embargo, la preoccupazione che i Repubblicani possano ostacolare il desiderio degli esuli di mantenere i contatti con i familiari rimasti sull’isola e la speranza che, normalizzando i rapporti, con Cuba si possa fare business. Cambiamenti anche nella storica enclave cubana di Little Havana, oggi abitata prevalentemente da nicaraguensi e honduregni. Imperdibile però una tappa nel ristorante Versailles: ai suoi tavoli, dove si sono ordite tutte le trame per invadere Cuba e uccidere Fidel, è garantito h24 il miglior incontro ravvicinato con la cucina cubana. Altro must Ocean Drive, la ‘vasca’ di Miami Beach. Un nastro d’asfalto lungo un chilometro abbondante, dove da un lato c’è una strepitosa spiaggia chilometrica e dall’altra una serie di locali che fanno a gara l’uno con l’altro per chi vende il cocktail più annacquato. In mezzo una folla che ha una sola mission: farsi notare. Vale tutto: dall’affittare per mezz’ora una Ferrari con cui percorrere a passo d’uomo Ocean Drive a vestirsi con abiti che un brianzolo non oserebbe indossare nemmeno a carnevale. Imperdibili anche i musei cittadini, tra cui spicca il PAMM, il Perez Art Museum Miami: uno tra i primi di una nuova generazione di musei che integrano arte e ambiente. Per gli amanti di street art invece ci sono i muri del Wynwood District: Solo pochi anni fa era un distretto desolato pieno di magazzini vuoti, oggi è uno dei più importanti quartieri artistici degli Stati Uniti. I murales sono dappertutto e il secondo sabato di ogni mese le strade si riempiono per le Wynwood Art Walk, “passeggiate artistiche” che richiamano intere folle. Per rifocillarsi il consiglio è un salto da SuViche: menù che incrocia il sushi con il ceviche.

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