Hamed è l’insegnante di scienze della scuola di bambù di Abu Hindi. La scuola si chiama così perché dovendola ristrutturare, con il divieto da parte dell’esercito israeliano di toccare la preesistente struttura in lamiera, si è pensato di realizzare una copertura della stessa con delle canne di bambù. Il villaggio è un casuale susseguirsi di baracche su cui sventolano tappeti impolverati e sacchi di plastica. Hamed ha vissuto negli Stati Uniti dal 2000 al 2010. Lavorava, si è sposato, ha guadagnato la Green Card, si è separato ed ha deciso di tornare in Palestina. Da 7 anni lavora alla scuola di Abu Hindi. Lo stipendio è di circa 3000 shekel al mese (circa 750 Euro). Oggi ha perso il bus che porta alla scuola tutti gli insegnanti e il taxi gli è costato 30 shekel. Solo andata. Il 3% del suo salario mensile. Per arrivare all’accampamento beduino bisogna percorrere un paio di km dalla strada che porta a Gerusalemme. E’ una polverosa strada sterrata, che costeggia una discarica a cielo aperto, con una ripida discesa che sprofonda a tradimento nel fondo della vallata. Non è stato Hamed a decidere di venire qui, lo ha mandato il ministero palestinese dell’istruzione. E come si può intuire non c’è la coda per venire ad insegnare alla scuola di bambù. E’ stanco di vivere in una situazione così al limite. “Mi sono arreso” mi confessa. Hamed aspetta la fine dell’anno scolastico, poi tornerà a San francisco. “Un posto di commesso in un supermercato dovrei riuscire a trovarlo”. E’ il blues del prof. di scienze, una plastica (e sconsolata) fotografia della situazione vissuta dal popolo palestinese, sempre più schiacciato dalla rapacità di terra dei coloni. Quella israeliana è una realtà complessa, popolata non solo da fondamentalisti. Ci sono quelli che abitano nei kibbutz, un sogno socialista che oggi fa i conti con il terzo millennio. E quelli che vivono a Gerusalemme, insieme agli arabi. La città è piena di pellegrini prevenienti da mezzo mondo: è una città santa, ma nel settore israeliano è ricca di piaceri profani. L’epicentro di questa Gerusalemme è tra i banchi di un antico mercato trasformato in tempio della movida: il Mahane Yehuda Market. Invece il mercato di Qalqilya, città palestinese completamente circondata da un muro che ne limita confini e crescita, è tristemente vuoto. Come Shuhada Street a Hebron. E’ tra le quattro città sante per l’ebraismo e l’Islam. La seconda città più grande della Cisgiordania, sotto occupazione militare dal 1967. Gli insediamenti israeliani si trovano nel cuore del centro storico palestinese: 800 coloni vivono oggi all’interno della città vecchia, dove l’esercito israeliano impone ai palestinesi un sistema di restrizioni, checkpoint e divieti che hanno trasformato questo fiorente segmento della città in una “Ghost Town”, una città fantasma. Per cercare di navigare in un mare così drammaticamente tribolato ci affidiamo alla saggezza della scrittrice ed architetto Suad Amiry che, oltre alle sue tre vite, ci racconta cosa significa oggi vivere in Palestina.
ONG Vento di Terra – Blog ItIsrael
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